di Antonio Errico
Andrea Camilleri è stato uno di quegli intellettuali di cui si sente la mancanza. Come si sente la mancanza di Pier Paolo Pasolini, di Leonardo Sciascia. A un anno esatto da quando se n’è andato, la mancanza di Andrea Camilleri si sente: molto. Perché il suo pensiero si confrontava costantemente con i fatti del passato e del presente, con gli accadimenti che determinano la fisionomia culturale di un’epoca, con le storie che rappresentano i destini individuali e collettivi.
Una volta, alla fine di un’intervista per “Il Messaggero”, a Valentina Mercuri che gli chiedeva che cosa augurava ai giovani, quell’uomo dai passati novant’anni, quello scrittore dai passati cento libri rispondeva così: “Che riprendano in mano il loro destino e lascino che i morti seppelliscano i morti. Credo che un giorno o l’altro si stuferanno, non potranno emigrare tutti. Per noi è una perdita altissima, più di qualsiasi Pil. Duecento, trecento giovani che se ne vanno dall’Italia è sangue fresco, vivo, che va a rinforzare l’estero e non noi”.
Camilleri sapeva perfettamente che senza il pensiero e il lavoro dei giovani, senza le loro energie e i loro entusiasmi, senza le loro fantasie e i loro sogni, nessuna terra può avere progetti, sviluppo, progresso. Senza la loro audacia si può soltanto pestare i piedi nello stagno, fare il già fatto, dire il già detto, ripetere e ripetere storie consuete, guardare la strada che ci si è lasciata alle spalle con qualche rimpianto o con indifferenza.