L’accezione negativa si riversa sul vocabolo che definisce la particolare forma di comunicazione che nasce nell’universo burocratico. Il “burocratese” è la ‘lingua, in larga misura incomprensibile, infarcita di termini tecnici e di inutili neologismi, tipica dell’amministrazione pubblica e degli ambienti burocratici in genere’. La parola “burocratese” è costruita secondo il modello adottato anche in altri neologismi in -ese (“politichese”, “sindacalese”, ecc.), indicante negativamente la tendenza a esprimersi con linguaggi “separati”, usuali all’interno di circuiti chiusi e di tradizioni specifiche. Documentata per la prima volta nel 1979, vive con una certa frequenza nell’italiano dai primi anni Ottanta del Novecento, veicolata dalla prosa giornalistica. «Tutti lì, vispi e soddisfatti, a raccontare ai cronisti nel loro burocratese» (L’Espresso, 16 ottobre 1983); «Antonio Padellaro, criticando l’oscuro ‘burocratese’ delle domande alle quali gli elettori dovranno rispondere con un ‘sì’ o con un ‘no’, chiama in causa il Ministero degli Interni» (Corriere della Sera, 26 ottobre 1987). La nebulosità caratterizza i testi di natura burocratica, generando l’effetto un po’ esoterico tipico dei gerghi.
La nebulosità del burocratese non è questione meramente linguistica. Le procedure farraginose della struttura burocratica (nelle sue diverse articolazioni, locali e nazionali, pubbliche e private) si esprimono attraverso testi redatti con un linguaggio oscuro, che risulta di difficile comprensione anche agli addetti ai lavori. La faccenda non è banale, esiste un nesso stretto fra chiarezza del linguaggio e democrazia: la semplificazione del linguaggio burocratico è funzionale alla trasparenza e alla accessibilità da parte del singolo cittadino, quindi alla democraticità della comunicazione. Nonostante gli enormi progressi collettivi registrati nell’ultimo mezzo secolo, una parte rilevante della popolazione italiana adulta non è in grado di comprendere il significato reale di testi di media complessità (non solo quelli burocratici, ma anche fogli illustrativi, istruzioni d’uso, comunicati, avvisi, articoli di fondo, ecc.), della più varia origine e provenienza. Suscita grandi difficoltà anche la comprensione di un questionario semplice, la cui lettura può essere agevole al livello più basso, che permette di decifrare singole parole; ma diventa estremamente problematica non appena le frasi si fanno più complicate e ricorrono parole di non immediata chiarezza. L’analfabetismo di ritorno di una parte consistente della popolazione italiana adulta è un allarmante fenomeno sociale, non è una questione individuale.
A dispetto di tali allarmi e dell’implicito invito a usare una lingua semplice, il burocratese si insinua dovunque, con una pervasività che pare inarrestabile. Suscita ilarità l’espressione “effetti letterecci” usata nel linguaggio delle ferrovie e degli ospedali per definire lenzuola, federe e cuscini. A proposito del rientro a scuola a settembre, qualcuno assicura che il calcolo della distanza di sicurezza tra alunno e alunno avverrà in base alle “rime buccali”. La parola rima (o ‘fessura’) indica l’apertura trasversale delimitata dalla bocca. Vuol dire, semplicemente, che gli alunni devono stare almeno a un metro di distanza per evitare i rischi del contagio. Ma non riesco a credere che si possa scrivere così in una disposizione ufficiale, che dovrebbe essere capita da tutti. Salvo che non si abbia un animo perverso.
Commento solo un altro esempio, l’inizio di un comunicato riportato nel sito https://www.editabpo.com intitolato «Gestione posta disguidata»:
“Molte aziende oggi si trovano a gestire un gran quantitativo di comunicazioni anomale e disguidate da parte dei propri Clienti, comunicazioni che ritornano all’azienda mittente a causa di alcuni errori o alcune anomalie presenti nell’anagrafica riportata sulle comunicazioni stesse”.
Oltre all’uso di “un gran quantitativo” (invece di “una gran quantità”), del tecnicismo “anagrafica” (sconosciuto ai vocabolari; esiste l’agg. “anagrafico” ‘relativo all’anagrafe’), dell’incongrua maiuscola iniziale in “Clienti”, colpisce l’infelice “disguidato” che (come “anagrafica” appena visto) non è registrato nei vocabolari. Nasce da “disguido”, assunto nell’originario senso tecnico di ‘lettera spedita per posta che non giunge a destinazione” (e non in quello, successivo, di ‘malinteso, equivoco’). In rete trovo: assegno disguidato, bagaglio disguidato, bonifico disguidato, collo disguidato, effetto disguidato, pagamento disguidato, spedizione disguidata. Un sito chiarisce che bagagli disguidati sono le valigie che arrivano in aeroporto dopo i legittimi proprietari, perché imbarcate in un volo successivo. Ma io continuerò a dire bagagli smarriti, a dispetto del burocratese.
Battaglia futile? No, l’uso efficace e chiaro della lingua è un obiettivo del quale essere fieri. Per evidenti ragioni classificatorie, nella burocrazia le pratiche si ordinano secondo la sequenza cognome-nome. L’elenco del telefono e in generale gli elenchi ordinano alfabeticamente i cognomi, a cui segue il nome relativo. In questi casi è giusto. Un attento lettore di questa rubrica, Pietro Montinari, esprime perplessità di fronte all’espansione di tale modalità burocratica, che risulta spesso applicata alla denominazione di società e ditte individuali, alle targhette collocate all’ingresso degli uffici, perfino alle firme. Ha ragione, in questi casi va prima il nome, poi il cognome. La regola vale nelle presentazioni orali e in mille occasioni scritte. Si comincia con ciò che è individuale, il nome proprio, e si continua con il cognome, che segnala l’appartenenza familiare. La «Divina Commedia» è stata scritta da Dante Alighieri, non da Alighieri Dante. L’eroe del Risorgimento italiano è Giuseppe Garibaldi, non Garibaldi Giuseppe.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 19 luglio 2020]