Nella visione mainstream il tema dell’occupabilità degli studenti si salda con quello della competitività fra Atenei per l’attrazione di studenti. Si tratta di una strategia fortemente penalizzante per le sedi universitarie del Sud, a ragione del fatto che, essendo già relativamente sottofinanziate, incontrano maggiori ostacoli nel reclutamento di giovani e nell’erogazione di un’offerta formativa adeguata e appunto competitiva rispetto alle sedi settentrionali.
Va rilevato che il lockdown ha profondamente danneggiato il sistema universitario. In particolare gli studenti hanno continuato a pagare tasse pur a fronte di un sostanziale declino dei redditi delle loro famiglie; i ricercatori precari hanno continuato a lavorare pur a fronte di biblioteche e laboratori chiusi A fronte di questo, ci si aspetterebbe una risposta diversa, che vada nella direzione di un maggior finanziamento, non selettivo, dell’Istituzione, più congrue borse di studio e stabilizzazione del precariato. Ma soprattutto occorre investire per accrescere il numero di laureati in Italia, considerando che il nostro Paese è fanalino di coda in Europa: in particolare, si colloca al penultimo posto tra i 28 paesi UE come percentuale di laureati sotto i 35 anni. Ciò perché è difficile pensare a un’economia della conoscenza in una società nella quale la conoscenza è poco diffusa. L’aumento del numero di laureati dovrebbe andare di pari passo con maggiori investimenti pubblici nel settore della ricerca e dello sviluppo, dal momento che un piano di questo tipo accrescerebbe la domanda di lavoro qualificato in un contesto nel quale il settore privato non è incline a farlo.
La linea che si è scelta è, in altri termini, quella di dequalificare di fatto l’offerta di lavoro rendendola qualitativamente coerente con una domanda di lavoro – quella espressa dalla gran parte delle nostre imprese – qualitativamente bassa. Il punto in discussione è il seguente. La nostra struttura produttiva, salvo alcune eccezioni localizzate nel Nord del Paese, è composta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, poco esposte alla concorrenza internazionale e fortemente bancocentriche. In una condizione di questo tipo, non sorprende il fatto che un numero relativamente elevato di laureati costituisce più un problema che una risorsa e non sorprende il fatto che una quota rilevante e cresce di essi siano in condizioni di sottoccupazione intellettuale o emigrino.
Il problema è maggiormente accentuato nel Mezzogiorno soprattutto per la maggiore fragilità della struttura produttiva. Le migrazioni intellettuali dal Mezzogiorno impoveriscono quest’area dal momento che: Costituiscono un trasferimento di potenziale produttivo al Nord in conseguenza del fatto che gli emigrati sono giovani con elevato livello di istruzione; costituiscono un trasferimento di consumi soprattutto in quanto i giovani esprimono una più alta propensione al consumo rispetto ai meno giovani; implicano rimesse degli emigrati negative, dal momento che i giovani emigrati (a differenza di quanto è accaduto nelle migrazioni storiche italiane) chiedono fondi alle famiglie d’origine.
La linea dell’autonomia differenziata fra Atenei non potrà non accentuare il dualismo e dunque i problemi che il Mezzogiorno vive per quanto attiene all’emigrazione dei suoi giovani. Si tratta di una linea anche miope, dal momento che privare il Sud d’Italia di un bacino ampio di forza-lavoro significa anche privarlo di un mercato di sbocco importante per le imprese del Nord.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 15 luglio 2020]