Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XXV

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Il dicibile. Scrive Giorgio Agamben, Homo sacer, Quodlibet, Macerata 2018, p. 390: “In ogni opera di pensiero – e forse in ogni opera umana – vi è qualcosa come un non detto. Ma vi sono autori che cercano di avvicinarsi come possono a questo non detto e di evocarlo almeno allusivamente, e altri che lo lasciano, invece, consapevolmente taciuto.”

Se tutto fosse detto, se non ci fosse mai l’ombra e il sole rimanesse sempre alto, implacabile, nel cielo, sarebbe inutile ogni opera di pensiero, ed anzi il pensiero stesso si spegnerebbe per eccesso di luce. Il pensiero non può che nascere e crescere in uno stato di tensione tra il detto e il non detto; ciò che esso esprime è il dicibile; ciò a cui allude è il non detto.

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Romanzi contemporanei. Lo scrittore spagnolo Javier Marìas ha rilasciato a Paolo Lepri un’intervista dal titolo L’inconoscibile è una benedizione, “Corriere della Sera” del 7 febbraio 2019, pp. 32-33, nella quale, non senza un certo humour, spiega qual sia il suo rapporto con la produzione narrativa contemporanea: “Leggo poche cose contemporanee, ragione per cui è difficile che faccia “scoperte”. Mi sono tenuto aggiornato per molti anni, però si finisce per perdere troppo tempo: ogni dieci libri “meravigliosi” secondo la critica o la moda, nove sono solitamente deludenti. Così è stato sempre e così sarà. Guardi, se non fossi obbligato a scriverli, non leggerei nemmeno i miei romanzi. Penserei: “Questo Marìas, bah. Ci sono troppi classici che non ho ancora letto per avventurarmi su uno spagnolo di oggi…”.

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Metamorfosi. Mentre lavorava alla caldaia da revisionare, l’idraulico Antonio – una mia vecchia conoscenza – rievocava i tempi passati, quando giocavamo insieme nel campetto sterrato del quartiere Nachi. Oggi non ci sono più – mi ha detto – le frotte di ragazzini che giocavano per la strada. Il quartiere è disabitato, molti sono morti e molti si sono trasferiti altrove.

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I casi della vita. Al cimitero, durante un funerale, un amico mi tocca col gomito e additando lì nei pressi la tomba di due coniugi sepolti insieme, mi dice: “Guarda, la moglie aveva lasciato il marito e se ne era andata con un altro; poi, dopo il marito, è morta anche lei, e siccome avevano comprato la tomba prima di separarsi, ora staranno insieme per l’eternità, come due sposi che si amano: che te ne pare?”

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La città priva degli uomini. In un piccolo centro come Galatina, è possibile vedere la città priva di uomini a notte fonda, poco prima dell’alba. A me è capitato recentemente, dovendo partire molto presto, proprio mentre la città dormiva. Per le strade non c’era anima viva e neppure un’auto in corsa. I semafori continuavano ad alternare il giallo al rosso e al verde, insensatamente. La città senza l’uomo, le strade non più luogo d’incontro, ma luogo dove era percepibile l’assenza dell’uomo, rintanato nel buio delle case. [Nota scritta prima della pandemia di covid 19]

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Nativo digitale. In un autobus cittadino, guardavo un giovane che, tra i sobbalzi e lo sferragliare tipico del bus urbani, se ne stava in piedi tra la gente, appoggiato al finestrino, chino sul cellulare che accoglieva nel palmo della mano destra mentre con la sinistra teneva stretto il palo d’appoggio. Osservavo il movimento preciso e sapiente del pollice, l’opponibile, col quale ora faceva scorrere il display ora digitava parole; un dito mobilissimo come una piccola proboscide assai sensibile in grado di soddisfare qualsiasi esigenza conoscitiva dell’animale. Riflettevo su questa caratteristica umana che ci distingue da tutte le altre specie antropomorfe e ci consente di afferrare, prendere, stringere, far nostro tutto ciò che vogliamo: il segreto del nostro successo di primati, che ci rende superiori agli altri esseri animali, che abbiamo sterminato o ridotto in schiavitù; e dunque così terribili!

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Volare. Riflessione, in volo, sul desiderio di volare imitando gli uccelli, che da un secolo in qua l’uomo è riuscito a realizzare. Eppure, volare rimane un atto sommamente innaturale per l’uomo, qualcosa che fa molta paura. All’atterraggio tra i passeggeri è scoppiato un applauso liberatorio.

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Scrivere durante un viaggio. La vera essenza del viaggio, ovvero della porzione di tempo trascorsa tra il luogo di partenza e quello di arrivo. Il tempo trascorso in aeroporto e poi in aereo mettono in evidenza questa essenza, cioè il non essere del viaggiatore da nessuna parte, ovvero l’essere in un non-luogo, un aeroporto o un aereo che mi muove nel cielo. E il tempo che si trascorre in un non-luogo non è forse un non-tempo? Dall’aeroporto, dove sperimentiamo il tempo dell’attesa, dell’inutilità nostra personale, della dissipazione, accediamo ad un tempo accelerato, contratto, che ci trasporterà lontano dal nostro tempo consueto, scandito con ben altro ritmo.  Tutto quello che facciamo in questo non-luogo, in questo non-tempo è una sorta di resistenza al nulla nel quale siamo immersi durante il viaggio; anche questo mio scrivere durante il viaggio cerca di contrastare il nulla del viaggio nel quale sono preso; e così tutte le attività consentite, direi proprio disciplinate, a bordo di un vettore: guardare fuori dall’oblò, vedere trascorrere monti e città, le nubi sotto i nostri piedi, laghi come pozze d’acqua e fiumi come rigagnoli, prestare ascolto ai vari imbonitori che cercano di venderci di tutto, ecc. Tutto questo significa sperimentare la sostanziale irrealtà del percorso, resa possibile dalla moderna tecnica. In realtà, ciascun viaggiatore non vola, ma è solo trasportato da un vettore, entro il quale ha i piedi ben piantati per terra; ma il piano di calpestio non è la terra, ma una non-terra, che ci dà l’illusione di una qualche sicurezza.

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Salamanca. La brama del potere, la boria dei dotti e la superbia dell’Inquisizione hanno costruito questi luoghi monumentali, che oggi sono dati in pasto ai turisti. A me piacciono le cicogne di Salamanca che si librano nell’aria e fanno i nidi sui tetti della Storia.

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La vita del mondo è caos, entro il quale noi cerchiamo un ordine. Pensare il mondo attraverso le categorie dello spazio e del tempo significare dare ordine al mondo. Se non discernessi i confini tra le cose, non sarei in grado di muovermici in mezzo; così, se non scandissi il tempo, le mie giornate sarebbero un continuum insignificante. Costa fatica ordinare il mondo. Noi dormiamo quando siamo stanchi di ordinare il mondo, e lo spazio e il tempo si confondono nel caos in cui rientriamo mentre siamo addormentati. Eppure, anche dormendo, attiviamo delle resistenze al caos: ci premuriamo di occupare infatti uno spazio ben preciso, la nostra camera da letto, e pure il tempo sembra scandito dal nostro respiro e dal battito del nostro cuore. Non permettiamo che il caos ci travolga, lottiamo fino alla morte. Quando moriamo, non siamo più in grado di difendere più il nostro spazio-tempo, ma ci pensano i nostri famigliari a metterci in un loculo, dove possono venirci a trovare, di tanto in tanto, al cimitero, nell’illusione di raggiungerci ancora. In realtà, il nostro spazio-tempo è finito e dunque siamo rientrati nel caos sotto forma di assenza di vita. Pertanto, il morire è un rientrare nel caos, una voragine in cui lo spazio-tempo è risucchiato fino a sparire del tutto. Questa sparizione è propriamente il nulla, lo stesso nulla da cui proveniamo.

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La malinconia. Nell’intervista rilasciata nel 1998 a Francesca Borrelli da Jean Starobinski, Non sono nemico di ciò che il testo rende subito visibile, ne “Il manifesto-Alias” del 10 marzo 2019, p. 2, il critico definisce la malinconia: “La malinconia è essenzialmente un prosciugamento della forza interiore. Ed è nelle aperture di questo inaridimento, nelle sue minacce, in questo rischio rappresentato dal trionfo del nulla, che si definisce l’angoscia culturale della malinconia. E’ qualcosa che rimanda all’avvicinarsi di una voragine, ma non ha nemmeno il calore di un baratro vulcanico: ha a che fare con le illusioni, con la sensazione del freddo, del buio. Il nucleo della malinconia è una sorta di intensa incapacità di formulare ogni pensiero, c’è come un buco intorno al quale stanno delle figure: sono le figurazioni dell’angoscia. Dunque, questa fuga dell’energia psichica suscita delle risposte da parte dei poeti, i quali cercano di scongiurare il pericolo dandogli delle forme, delle figurazioni”.

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Com’è fatto l’uomo. L’attentatore kamikaze della chiesa di San Sebastiano di Negombo (Sri Lanka), prima di andarsi a sedere tra i numerosi fedeli col suo zaino di morte, attraversando il cortile, ha accarezzato la testa di una bambina: un gesto gentile prima della mattanza. Così è fatto l’uomo, mi sono detto.

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Homo sacer. Leggo il gran libro di Giorgio Agamben, Homo sacer, cit. e mi interrogo sui motivi che hanno indotto quest’uomo ad intraprendere un’avventura intellettuale così ardua, che cosa lo ha fatto avanzare per vent’anni per un percorso così impervio (la motivazione dell’opera!). La mia risposta è la seguente: la volontà ferma e determinata di capire la struttura intima del potere, come funziona il potere, che disciplina la vita degli uomini. L’homo sacer è la figura in cui si incarna l’aspetto terribile del potere: l’uomo non sacrificabile eppure uccidibile, l’escluso da ogni consorzio umano retto da un potere costituito. Questa figura è solo il rovescio della medaglia che raffigura il potere. Lo strumento che Agamben adotta nella sua ricerca è l’archeologia; uno strumento e un metodo, che lo conduce a descrivere i vari campi d’indagine con metodo scientifico, direi filologico. Gli arcana del potere sono svelati, nessuno d’ora innanzi potrà dire “non lo sapevo”. Pertanto, tutto appare più chiaro. Oggi noi sappiamo da dove origina il potere di bando che sancisce l’esclusione di una parte dell’umanità dalla possibilità di vivere una vita degna d’essere vissuta, che cosa significhi la morte di quanti non sono sacrificabili a nessuna divinità, ma la cui morte ci lascia del tutto indifferenti. Es.: la morte di cento migranti nel mar d’Africa non inquieta le coscienze più della morte di un cane abbandonato lungo l’autostrada.

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Pensare. – Sì, d’accordo, il filosofo ha scritto queste cose, ma poi, che cosa è cambiato? Niente.

Ecco un ragionamento sbagliato. Infatti, dal filosofo non bisogna mai aspettarsi indicazioni operative, ovvero soluzioni al problema insoluto del vivere, ma solo un valido modo di pensare. Il difetto della maggior parte degli uomini è quello di pensare in modo sbagliato o di non pensare affatto. L’errore consiste nel fatto che noi tendiamo a realizzare ciò che ci conviene (il nostro istinto egoistico) e non a capire cos’è vero. Pertanto, la maggior parte degli uomini, durante l’intera vita, non esercita mai il pensiero, muore senza mai aver pensato.

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