di Gianluca Virgilio
Foto d’affezione. Ho sottoposto ad Antonio Prete l’idea di pubblicare nel sito che curo (www.iuncturae.eu) alcune foto d’affezione: così le ho definite per indicare luoghi cari, a quali ci siamo accostati con affetto e che ricordiamo con piacere. Ecco che cosa mi ha detto: “Quanto alla tua ipotesi dei luoghi di affezione: certo, ognuno ha i suoi luoghi, e sono tanti, e ognuno li nomina e denomina in vari modi. Ma so (mi dicono, e mi hanno mostrato) che Facebook è inondata da queste immagini, che tutti si scambiano, quotidianamente, commentando ed esibendo, rovesciando la vita privata nello spazio elettronico, e facendo delle loro intime affezioni una cosa appunto da scambiare, in una ridda di storie private che ambiscono, attraverso la loro manifestazione, ad acquistare un di più di consistenza, di permanenza. Cosa che di per sé è comprensibile. Ma questo processo mette in opera anche uno svuotamento dei silenzi, del proprio, dell’intimo, del familiare, e in fondo anche dell’amicale (che rapporto c’è tra l’amicizia vera e quella dichiarata in un social network?). Oggi ogni biografia tende ad essere dispiegata, sventolata, ogni album sfogliato appunto dal vento (il pubblico): questo non toglie alla foto, e al vissuto, qualcosa della loro intimità, dunque della loro aura? Se tutto è comunicabile, niente più ci appartiene: l’io si sfarina nell’essere pubblico, mentre il tu e il noi per esistere hanno bisogno dell’io. La caduta dei pronomi nell’indifferenziato pubblico dire (anche il riflessivo, il mi e il si della lingua svaniscono). Nel rumore del mondo? Un abbraccio. Antonio.”
Pubblico ancora, di tanto in tanto, qualche foto, ma… come dargli torto?
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Diario. Che cosa significa scrivere un diario? Registrare i nudi fatti della propria vita con accuratezza e precisione, certo; ma a che serve tutto questo? A nascondere il non detto, poiché nel diario è possibile scrivere solo ciò che può essere detto, il dicibile. Tutto il resto rimane fuori. Nel romanzo di Graham Greene, Il nocciolo delle questione, in Romanzi I, Mondadori, Milano 2001, pp. 1391-1392, leggo: “… Scobie tirò fuori il suo diario. Su quelle pagine, se non altro, non aveva mai mentito, al massimo aveva peccato per omissione. Aveva sempre controllato la temperatura, come un capitano nel compilare il giornale di bordo. Non aveva mai esagerato i fatti né li aveva minimizzati. Tutto ciò che vi aveva scritto era vero.”
Eppure Scobie, prima di suicidarsi, affida al diario la funzione di sviare le indagini: si dovrà credere ch’egli sia morto di morte naturale! Il romanzo rivela i limiti della forma diaristica.
Vedi il pensiero seguente.