di Guglielmo Forges Davanzati
La crisi sanitaria del 2020 sta determinando un aumento dei debiti pubblici in tutti i Paesi industrializzati e, simultaneamente, un crollo del tasso di crescita. E’ molto discutibile che fra i due fenomeni vi sia una correlazione certa e valida per ogni Paese. Il punto rilevante riguarda l’uso che si fa della spesa pubblica e dunque le determinanti del debito.
Il tema è oggetto di rinnovato interesse, soprattutto a proposito della necessità di avvalersi o meno del cosiddetto MES (o fondo salva Stati). In estrema sintesi, il MES è un dispositivo messo in atto in sede europea per finanziare, a tassi di interesse molto bassi, investimenti nel settore sanitario dei Paesi che se ne avvalgono. I suoi difensori ritengono sia assolutamente irrazionale rifiutare questo finanziamento, mentre i suoi oppositori mettono in evidenza i rischi di ‘condizionalità’ previsti da questo meccanismo. La condizionalità si riferisce al controllo esterno dell’uso dei fondi e ciò che viene temuto è un ingresso della commissione europea nella gestione della politica economica nazionale.
I rischi del MES sono tuttavia altri. Se l’Italia dovesse decidere di espandere il suo debito pubblico ricorrendo a questo strumento lancerebbe ai suoi creditori il segnale di non potercela fare da sola, ovvero di avere un suo debito pubblico ai limiti della sostenibilità. Sarebbero per conseguenza richiesti più alti tassi di interesse – fermi restando quelli bassi applicati ai fondi MES. E’ questo l’unico vero rischio associato a questa operazione. Ma non c’è da nascondere che la nuova Europa si muova tardivamente e in modo contraddittorio. Al di là dei rischi del MES, l’altro strumento messo in campo – il Recovery Fund – non è esente da critiche. Come è stato messo in evidenza, i fondi stanziati, anche nell’ipotesi più favorevole di approvazione definitiva entro agosto – sarebbero utilizzabili solo nel 2021 e per una percentuale del solo 9%, mentre la gran parte delle risorse arriverebbe solo nel 2023.