La cultura è disorganica se perde la consistenza

di Antonio Errico

Conosco un uomo che i classici greci e latini li cita a memoria anche se gli studi di scuola superiore e di università li ha conclusi da qualche decennio. Non solo: conosce ancora perfettamente grammatica e sintassi delle lingue di quei classici, e regole ed eccezioni, ed ogni altro elemento che le riguarda, come se avesse appena finito di tenere una lezione in una classe del triennio di un liceo.

Se non c’è dubbio che la cosa sia dovuta a competenze e abilità soggettive, probabilmente non c’è neanche dubbio che sia l’esito di una cultura organica, strutturata, coerente, coesa, approfondita.

Questi sono stati i tratti che hanno caratterizzato la fisionomia della cultura fino ad un certo punto, ed il punto  forse potremmo identificarlo intorno alla fine degli anni Sessanta.

Da quel punto in poi è cambiato quasi tutto; forse proprio tutto. Non voglio dire  in peggio: sia per evitare i risentimenti di chi si appassiona assai facilmente a mode e modelli culturali dell’ultima ora, sia perché nei fatti di cultura non c’è mai il meglio o il peggio. Ci sono semplicemente  forme e  contenuti diversi da altre forme e altri contenuti precedenti, con la conseguenza di una diversità della configurazione che assume la cultura soggettiva e quella di una società.

A un certo punto, dunque, è cambiato tutto. C’è chi ha detto e continua a dire che la causa sia stata il Sessantotto.

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