Siamo negli anni difficili del secondo dopoguerra, nel periodo tormentato i cui i destini di Trieste e del suo territorio erano incerti, con pressanti rivendicazioni della repubblica jugoslava (di cui allora la Slovenia faceva parte). Alla fine del 1954 il ritorno di Trieste all’Italia fu sancito dal trattato di Londra, ma il ritorno alla tranquillità non fu immediato, i contrasti tra le due comunità, italiana e slovena, continuarono per anni (oggi è diverso. Nel dicembre scorso fui invitato a Trieste per un seminario. La città è bella, tranquilla, vi si respira un’aria di altissima civiltà). E dunque: ricostruendo le vicende della propria vita triestina tra la fine degli anni cinquanta e gli inizi degli anni sessanta del secolo scorso (Guccini è nato nel 1940, quella sarà stata l’epoca del suo servizio militare), riproduce la parola sciavi ‘schiavi’ con cui gli abitanti della comunità slovena venivano indicati dagli italiani di Trieste.
L’episodio non è passato sotto silenzio. Anche se va contestualizzato in un momento e in un periodo storico per fortuna lontano, l’uso del termine sciavi ‘schiavi’ per definire un’intera popolazione ha fatto discutere per la sua connotazione dispregiativa (negata da alcuni ma a mio parere evidente). La notizia è stata ripresa dal Primorski Dnevnik (in traduzione Quotidiano del Litorale), giornale stampato a Trieste, espressione della minoranza di lingua slovena che vive in Friuli-Venezia Giulia, nella provincia di Trieste e nelle zone orientali delle province di Gorizia e di Udine. Circa 60.000 persone di nazionalità italiana parlano sloveno in quel territorio: una di quelle minoranze linguistiche storiche (come è il griko parlato nei comuni della Grecìa salentina) tutelate da una legge specifica della nostra Repubblica (la legge 482 del 15 dicembre 1999).
Intervistato dal Primoski dnevnik, Guccini si è rammaricato di aver usato la parola sciavo per definire gli Sloveni di Trieste. E si è mostrato perfettamente consapevole del fatto che, al di là delle sue intenzioni (si è limitato a riprodurre un termine corrente in quegli anni), l’epiteto conserva anche oggi una connotazione razzista che ferisce la sensibilità dei destinatari. È una questione molto avvertita nelle nostre civiltà occidentali, dove è diffuso il richiamo ai valori illuministi della tolleranza e l’attenzione verso il “politicamente corretto” si ripresenta spesso e in varie forme.
L’esempio più lampante viene dalla parola negro, che nella percezione generale è giudicata offensiva. Ecco perché ricorriamo a nero o ad altre forme. È in ascesa (ma è ancora poco diffuso) il calco afroamericano, riferito a cittadini statunitensi, peraltro nella nostra lingua meno recente di quanto potremmo aspettarci (è datato addirittura dal 1895). Nei resoconti delle imponenti manifestazioni americane di protesta per l’omicidio di George Floyd ascoltiamo e leggiamo solo afroamericano e nero. Negro oggi risulta offensivo, ma bisogna anche fare i conti con le intenzioni di chi lo usa. E con il contesto storico. Il padre descritto da Natalia Ginzburg in Lessico famigliare, uomo buono, antifascista, amico di Turati, poteva così rimproverare burberamente i figli: «Non siate dei negri!»; ma la stessa Ginzburg spiega che per suo padre un negro era chi aveva modi goffi, impacciati, timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non sapeva andare in montagna, chi non conosceva le lingue straniere.
Oggi nessuno potrebbe usare la medesima frase senza passare per razzista, la sensibilità attuale è diversa. Quentin Tarantino ha spiegato che l’uso continuo di nigger in Django Unchained era quasi obbligato, era quella la parola corrente negli anni della schiavitù: non avrebbe potuto fare diversamente. Nella prima traduzione italiana di Via col vento (1936), il romanzo di Margaret Mitchell da cui fu tratto il film famosissimo con una splendida Vivien Leigh e un fascinoso Clark Gable, negro traduce senza scalpori l’originale nigger; nella nuova traduzione (uscita da Neri Pozza) la parola corrente è nero, consona all’odierno modo di sentire. In America, dove il politicamente corretto è nato, l’ex presidente Obama ha firmato una legge che elimina dalla legislazione federale le parole nigger (sostituita con Afro-American) e oriental (sostituita con Asian-American). È giusto essere accorti, le parole spesso feriscono. È necessario tuttavia ragionare sempre, evitando estremizzazioni come la seguente. La Friends’ Central School di Filadelfia, una delle scuole più prestigiose della città, ha deciso di eliminare dai programmi di studio Huckleberry Finn, il capolavoro di Mark Twain che Hemingway considerava il romanzo da cui ha origine la letteratura americana moderna. La messa al bando è dettata del fatto che nel romanzo compare spesso la parola nigger. Ma sarebbe più giusto consentire la lettura del romanzo nelle scuole, affidando ai professori il compito di storicizzarne il contenuto e la lingua per gli allievi.
Tornando a sciavo da cui siamo partiti. È comprensibile il rammarico della minoranza slovena. Senza dimenticare le sofferenze subite, sia da italiani che da sloveni, negli anni finali della guerra e anche dopo. Senza dimenticare, senza crogiolarsi nell’odio, capire aiuta a vivere.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 28 giugno 2020]