Disse che avrebbe scritto soltanto libri. Perché se un giorno si comincia ad impastare parole, si spera che si possa finire allo stesso modo, impastando parole.
A un certo punto le cose finiscono. Tutte. Inevitabilmente. Ma se Guccini non farà più canzoni, noi ci consoleremo ripassando quelle vecchie che conosciamo a memoria, perfettamente, finchè ci verrà la voglia di cantarle. Ma non dico della “Locomotiva” o dell’ “Avvelenata”. Dico di “Amerigo”, della splendida “Bisanzio”, dico di “Stagioni”, del “Pensionato”, di “Canzone delle osterie di fuori porta”, di “Via Paolo Fabbri 43”, di “Eskimo”, oppure di “Signora Bovary”, di “Keaton”, “Van Loon”, forse la più affascinante in assoluto, quella che racconta di Hendrik Willem van Loon, uno scrittore di storia, geografia e varia umanità che si prepara piano al suo ultimo viaggio “I bagagli già pronti da tempo, come ogni uomo prudente/ o meglio, il bagaglio, quello consueto, di un semplice o un saggio/ cioè poco o niente. / E andrà davvero in un suo luogo o una sua storia/ con tutti i libri che la vita gli ha proibito/ con vecchi amici di cui ha perso la memoria/ con l’infinito./ Dove anche su quei monti nostri è sempre estate/ ma se uno vuole quell’ inverno senza affanni/ che scricchiolava il gelo sotto le chiodate scarpe di un tempo/ dei suoi diciott’anni”.
Con alcune di quelle canzoni abbiamo attraversato l’adolescenza e la giovinezza; con quelle e con altre adesso attraversiamo la maturità. Perché raccontano chi siamo stati e chi siamo ora, quello che avremmo voluto avere e non abbiamo avuto, quello che avremmo voluto fare e non abbiamo saputo o voluto fare, ma anche quello che abbiamo fatto, quello che abbiamo avuto.
Abbiamo cantato quelle sue canzoni in ogni occasione e in ogni luogo, tutte le volte che nella compagnia si trovava qualcuno con la chitarra fra le braccia.
Quando Guccini cominciò a scrivere canzoni, l’Italia era un’altra Italia. Il Sessantotto sarebbe venuto dopo. Anche la “Lettera a una professoressa” di Lorenzo Milani sarebbe venuta dopo. Si dice che erano gli anni del boom economico, ma ci sono quelli che ricordano che erano gli anni dell’emigrazione, dei contadini che lasciavano i paesi del Sud per andarsene a lavorare nelle fabbriche del Nord o in Svizzera, o nelle miniere del Belgio, della Germania.
A quel tempo i testi dei cantautori squadernavano il canone delle canzonette che aveva per struttura immutabile lui, lei ( e qualche volta l’altro).
Li abbiamo pensati, e ancora ci ostiniamo a pensarli, come miti. Figure fuori dal tempo, fuori dalla Storia. Narratori di esistenze oscillanti tra la realtà e la finzione. Cavalieri erranti che custodiscono un sogno matto. Interpreti della nostra ansia di guardare lontano, di immaginare orizzonti diversi, avventure straordinarie nell’ordinarietà dei giorni che viviamo. Come le avventure di’ “Odysseus”, di “Cristoforo Colombo”, che Francesco Guccini racconta.
Poi, quando ad un certo punto uno si accorge che il tempo passa anche per i miti, a quei miti comunque non rinuncia, perché gli hanno tenuto compagnia quando il tempo è stato bello e quando è stato brutto. Come non ha rinunciato a Fabrizio De Andrè quando se n’è andato un giorno di gennaio, non rinuncia a Francesco Guccini che smette di fare canzoni, non rinuncerà a Roberto Vecchioni, quando anche lui dirà di essere stanco, di essere molto stanco.
Quei miti che rispondono al nome di Fabrizio, Francesco, Roberto, hanno delineato il ritratto interiore di quelle generazioni che negli anni Settanta erano mature adolescenze e giovinezze acerbe, di quelle ragazzine e di quei ragazzini che forse sono diventati anche donne e uomini riusciti, ma che certe mattine mentre in macchina vanno verso il lavoro, si ripetono quelle canzoni, dandosi il tempo con le dita sul cruscotto. Così. Tanto per tornare indietro una mezz’ora.
[“ Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 21 giugno 2020]