di Antonio Errico
Venne da queste parti, una volta, Francesco Guccini: a Serrano, a ritirare il premio dell’olio della poesia. Era il Duemilauno. Una sera di giugno che l’afa ristagnava. Si andava per i vicoli di Otranto e lui raccontava di quando scese a Lecce nel Sessantadue per fare il militare, che era anche estate allora, e faceva un caldo d’inferno anche allora, e intercalava il racconto con la frase c’è troppa pianura qui, c’è troppa pianura, mi mancano i miei monti. Allora gli citai una poesia di Vittorio Bodini, quella che dice “Sulle pianure del Sud non passa un sogno./ Sostantivi e le capre senza musica,/con un segno di croce sulla schiena,/o un cerchio,/quivi accampati aspettano un’altra vita”.
Lui ripeté per due volte: “sostantivi e capre senza musica”. Quel verso gli piaceva.
Sono passati quasi vent’anni da quella sera.
Qualche giorno fa, il Maestro di Pàvana ne ha compiuti ottanta.
Uno pensa che per i miti i giorni non passino mai, non passino mai gli anni, che il tempo non li ferisca, che nemmeno li sorprenda, che siano come gli eroi di un poema, eterni nelle pagine.
Poi a un certo punto si accorge che invece non è così, che sono solo uomini come gli altri uomini, che viene l’affanno anche a loro, che anche loro si stancano a salire e scendere le scale della vita.
Otto anni fa, quando uscì “L’ultima Thule”, disse che avrebbe smesso di scrivere canzoni. Disse che prima non c’era giorno che non prendesse la chitarra ma che adesso non la tocca quasi più. Allora uno pensa che forse non erano soltanto i versi di una canzonetta quelli che dicevano “Ogni cosa alla lunga mi molesta/ e cerco un’altra festa/ e poi le feste in fondo mi han stancato”.