Pensieri ai tempi del Coronavirus

Sulla stessa strada, anche se con minore insistenza, si è mosso il Presidente del Veneto Zaia. Anche lui non ha perso occasione per sottolineare che i ‘veneti’ hanno fatto questo e quello (così come i ‘lombardi’ in Lombardia), quasi che ‘veneti’ e ‘lombardi’ fossero delle categorie storiche o antropologiche. Tutto tranne che essere ‘italiani’.

Bene ha fatto allora il Presidente del Consiglio Conte ad affermare di volta in volta le esigenze di una condotta nazionale.

Ancora peggiore, se possibile, è stato il comportamento dell’opposizione politica, la quale ha adottato un comportamento di totale contrapposizione al governo senza concedere un minimo di collaborazione in considerazione del particolare momento di difficoltà. Tutto ciò che il Governo ha fatto è stato almeno ‘insufficiente’: nessuna considerazione delle difficoltà oggettive e del carattere improvviso e imprevisto della pandemia. Una prova in più della inadeguatezza politica di personaggi come Salvini e Meloni. Il primo ha dimostrato tutta la sua brutalità promuovendo addirittura alla fine di aprile l’occupazione (con la Lega) dell’aula del Senato per chiedere al Governo “risposte concrete”. Che in realtà sono state date, e tempestivamente, anche se non attuate con la stessa tempestività. Ma questo è dovuto a lentezze burocratiche insite nella amministrazione italiana, di cui il Governo attuale non ha nessuna colpa, e che si è cercato di superare (in qualche caso riuscendovi) con qualche sforzo. Ma di queste oggettive difficoltà Salvini non ha tenuto conto e per meri calcoli elettorali ha messo in atto una protesta esagerata. Un comportamento più piratesco che politico.

A questi metodi non si è sottratta nemmeno la maggioranza: Renzi ha dimostrato ancor più il suo metodo corsaro minacciando, ai primi di maggio, il Governo di uscire dalla coalizione se si fossero perseguite “politiche populiste”. Le quali sono consistite principalmente in una decretazione d’urgenza (i DPCM: Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri) per fare fronte tempestivamente all’evoluzione della pandemia. Questa obiezione è stata elevata peraltro da più parti. Ma non si è considerato che lo sviluppo della pandemia non consentiva ritardi nelle decisioni. E inoltre il ricorso al Parlamento avrebbe comportato una seria difficoltà perché le restrizioni agli assembramenti stabilite per legge avrebbero comportato una presenza ridotta dei parlamentari (come difatti è avvenuto) e quindi una riunione quasi virtuale, se non per le votazioni, che comunque avrebbero costituito un pericolo. Giusta, quindi, la via scelta dal Presidente del Consiglio, che non si è sottratto al vaglio del Parlamento in sede di convalida.

La cosa che fa più specie, comunque, è il fatto che a lamentarsi di questa prassi siano stati coloro che meno avevano ragione di farlo. A suo tempo Renzi ha adottato abbondantemente la decretazione d’urgenza, anche in mancanza dei requisiti necessari. Salvini ha legiferato per via smartphone dal Papeete, senza nemmeno consultare Conte. Meloni sostiene una ideologia che considera il Parlamento un inutile impiccio; forse la protesta della Meloni è dovuta al fatto che lo scavalcamento del Parlamento avrebbe voluto farlo lei.

2. Le metafore al tempo del coronavirus

La situazione di pericolo costituita dalla pandemia ha prodotto nel linguaggio giornalistico, e di riflesso in quello ordinario, alcune metafore ispirate all’immagine della guerra. Si parla di “battaglia” contro il virus; l’assessore Gallera emette veri e propri bollettini di guerra basati sulla immagine di “resistere duramente” al virus. Altre metafore usate sono:

– “Stare in prima linea”: detto dei medici che curano i malati di coronavirus. Metafora tratta dal linguaggio militare. La consapevolezza del suo carattere metaforico, che però non ne impedisce né pregiudica l’uso, è dimostrata da questa dichiarazione fatta durante un dibattito in Senato: “I medici sono in prima linea, e se dico così non sto usando una metafora”.

– “I sindaci sono le nostre sentinelle” (da una dichiarazione in TV del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte): l’immagine esprime in modo chiaro, sintetico e rapido la nozione di sorveglianza e di attenzione che i sindaci esercitano, come se si fosse in guerra.

A proposito di queste metafore si è eccepito che l’immagine della guerra è impropria per parlare della lotta al virus. Un’obiezione di questo genere è piuttosto ingenua perché non coglie il carattere ‘parziale’ della metafora, che coglie solo un aspetto della realtà, quello che è funzionale al paragone sotteso (si lotta contro il virus come si lotta contro i nemici in guerra, frontalmente, corpo a corpo, come hanno fatto i medici negli ospedali). Tutti gli altri aspetti delle realtà messe a confronto sono recessivi, non vengono considerati.  

Per capire gli sviluppi, ancora ignoti, del fenomeno si può fare ricorso a due immagini:

– una è quella solita della guerra: “Non sappiamo quando questa guerra finirà e non sappiamo ancora quali saranno le conseguenze”. L’immagine ci dà l’idea concreta di una guerra combattuta specialmente dai medici negli ospedali, e qui al Sud può evocare la situazione effettiva della prima guerra mondiale quando il Sud era lontano dal teatro reale e ne ascoltava soltanto le notizie che giungevano da lontano.

– l’altra è quella del terremoto: “Siamo nel pieno di un terremoto; bisogna aspettare che finisca per vedere che danni ha fatto e per raccogliere le macerie”. L’immagine dà un’idea più efficace dei danni del contagio perché li paragona ad un fatto concreto e visibile come le macerie di un terremoto, di cui abbiamo avuto esperienza diretta.

Altre metafore sono ispirare genericamente alla lotta. Es.:

– “Abbassare la guardia”: presuppone i movimenti della scherma, che impone di “stare sempre in guardia”.

“Non bisogna abbassare la guardia, bisogna rialzare la testa”: l’espressione (del Ministro Guerini in TV) unisce in una efficace antitesi (abbassare-rialzare) due immagini che esprimono bene l’esigenza di ricominciare dopo la crisi del coronavirus. Della prima metafora si è detto; la seconda rinvia all’uscita da una situazione di schiavitù.

– “Mollare la  presa”: non bisogna mollare la presa nella prevenzione dei contagi. La metafora presuppone i movimenti della lotta, in cui è necessario ‘tenere stretto’ l’avversario finché non viene completamente immobilizzato a terra.

Il linguaggio bellico torna nelle misure che sono state prese per uscire dalla situazione di crisi post-coronavirus. Es.:

– “Bazooka”: le misure finanziarie messe in campo (!) dalla BCE per far fronte (!) alla crisi del coronavirus. Si fa riferimento al carattere maneggevole e violento dell’arma, usata contro i carri armati. Si inserisce nell’uso di un linguaggio bellico per evidenziare il clima della crisi del coronavirus, come anche le espressioni “mettere in campo” e “far fronte”.

– “Mettere in campo” (ad es. risorse economiche): è sottesa un’immagine militare, che coinvolge il campo di battaglia, dove si fanno affluire nuove truppe.

– “Una poderosa potenza di fuoco”: è l’immagine che ha usato il Presidente del Consiglio per definire i consistenti mezzi finanziari messi a disposizione per contenere gli effetti della crisi provocata dall’epidemia del coronavirus. Alle spalle vi è l’immagine di una batteria di cannoni che sparano, ad esempio da una corazzata.

Nel  corso della pandemia sono state utilizzate altre metafore, quali:

– “Il picco del contagio”: è basata sull’immagine della vetta della montagna, dopo la quale vi è la discesa, cioè il percorso più agevole, la fine del contagio.

– “Vedere la luce in fondo al tunnel”: vedere una possibilità di soluzione. La metafora è molto evocativa perché la luce in fondo a un tunnel è molto piccola.

– “Far ripartire l’economia”, “Rimettere in moto l’economia”, “Riaccendere i motori dell’economia”: far riprendere le attività economiche. E’ sottesa un’immagine tratta dal mondo automobilistico e vi è una implicazione acustica, più che visiva. In particolare 

– “Riaccendere i motori” fa pensare al rombo di un’auto della Formula Uno che si prepara a scattare dalla griglia di partenza.

– “Cabina di regia”: le parti politiche vogliono istituire una cabina di regia per governare la crisi del coronavirus. Metafora tratta dalla pratica televisiva; ved.

“c. di regia, locale dal quale il regista segue e dirige, attraverso una parete vetrata e altri strumenti di comando, lo svolgimento di programmi radiotelevisivi, e, fig., luogo in cui sono concentrati i poteri di comando e di indirizzo di un determinato ambiente” (Treccani online)

3. La pandemia e la conoscenza della natura

La pandemia ha messo in luce i limiti che l’uomo ha nella conoscenza della natura. L’uomo ‘scientifico’ crede di averne una conoscenza quasi totale, sicché è rimasto quasi sorpreso nel constatare che di fronte al coronavirus le sue conoscenze pregresse erano insufficienti ed egli non era in grado di fronteggiarlo con una qualche efficacia. In un primo momento l’uomo è stato in balia della sua ignoranza. Questa situazione è stata vissuta con un certo disappunto, quasi che fosse un’offesa alla sua intelligenza. E’ una sorta di hybris che l’uomo moderno ha di fronte alla natura che egli pensa di conoscere bene e, purtroppo, di manipolare a suo piacimento. Da qui esperimenti di carattere genetico o chimico, che tendono a modificare l’equilibrio naturale delle cose. Ma ogni intervento che tenda a modificare questo equilibrio è estremamente pericoloso perché l’uomo non è in grado di prevedere gli effetti dei suoi interventi nell’ambiente naturale, effetti che egli valuta solo in laboratorio. E il laboratorio non è l’ambiente naturale. La conoscenza della natura, fornita dalla scienza, dovrebbe limitarsi alla ‘conoscenza’ dei fenomeni, e non procedere ad alcun intervento di modifica. In altre parole l’uomo dovrebbe ‘assecondare’ la natura con le sue conoscenze, non modificarla. La natura è una tale potenza che sa trovare da sola le soluzioni ai suoi problemi. E comunque, l’uomo dovrebbe ammettere che sulla natura, come su molte altre cose, egli ‘non sa’. E dovrebbe accettare questa condizione.

4. La ripartenza dell’economia

Alla fine di marzo, quando è sembrato che il momento critico dell’epidemia è passato, si è incominciato a parlare di ‘ripartenza’ dell’economia. Naturalmente con molte discussioni, se immediata o graduale, se totale o parziale, se ‘aprire tutto’ o ‘in parte’. Comunque il problema centrale è la ‘ripartenza’. Insomma si dà per scontato che l’economia debba riprendere in breve la marcia che ha avuto sinora. Riprendere il ritmo che aveva prima. Mi sembra che questa presunzione sia fallace. L’economia non può riprendere in breve il ritmo precedente perché il terremoto che l’ha investita è di tale ampiezza che, più che di ripresa, bisogna parlare di ricostruzione. Proseguendo sulla metafora del terremoto, bisogna prima vedere le macerie che ha lasciato e vedere come ricostruire la situazione. Si tratterà di un processo lento che prenderà diverso tempo.

Che la situazione sia pari a quella di un terremoto è dimostrato dal fatto che la perdita di reddito che si è avuta a tutti i livelli, dei produttori e dei consumatori, è paragonabile ad uno smottamento improvviso di tutto il sistema produttivo. Questo si trova tutto insieme ad un livello inferiore a quello precedente. Per riportarlo su ci vorrà uno sforzo enorme. I sussidi economici che il governo può dare non possono ragionevolmente ‘riempire’ il vuoto che si è prodotto. Per farlo occorrerà il lavoro di molti anni. Basti pensare al fatto che, anche se il sistema produttivo riprende a produrre a pieno ritmo, può darsi che non ci siano i consumatori che possano acquistare i prodotti. E il problema si acuisce a seconda se i prodotti sono di prima necessità o rientrano nella sfera dell’accessorio o del superfluo. E’ chiaro che il consumatore acquisterà dapprima i beni di prima necessità (mangiare, vestirsi, curarsi) e solo in secondo momento i beni voluttuari. In questo processo è prevedibile che le industrie legate a questi ultimi possano subire una contrazione e debbano chiudere. La soluzione potrebbe essere quella di una riconversione, anche temporanea, di attività non necessarie.

Comunque, il problema della ripartenza lascia adito ad un’altra riflessione. L’insistenza sulla questione economica è stata fatta senza tenere conto della sua ricaduta sulla salute. In sostanza non si è tenuto nel debito conto il problema se queste ripartenze avrebbero provocato o no nuovi contagi. A parole sembrava di sì, ma nei fatti nessuno ha mai indicato i metodi precisi con cui la sicurezza dei cittadini sarebbe stata assicurata. Sembrava che fosse un problema marginale, secondario, un rischio che poteva essere corso. Ma non è così: se una fabbrica produce contagio, il danno non consiste in un mancato guadagno, che riguarda il solo imprenditore, ma investe l’intera collettività perché, oltre al danno del singolo operaio (che potrebbe al limite essere tollerato), il contagio può toccare altri cittadini che non hanno alcun rapporto col sistema produttivo. E, dal momento che l’entità del contagio non può essere prevista, non  può essere prevista nemmeno l’entità del danno sociale che ne potrebbe derivare. Sicché bene ha fatto il governo a pretendere il massimo delle garanzie per la riapertura delle attività produttive.

Ma anche un’altra riflessione si impone. La preminenza dell’interesse economico sulla salute dei cittadini dimostra che effettivamente l’economia è il valore fondante della società. E questo, paradossalmente, dà ragione alla teoria marxista che appunto vede nella economia la ‘struttura’ della società, rispetto alla quale le altre forme culturali sono ‘sovrastrutture’. Paradossalmente, perché questa dimostrazione avviene nell’ambito di un sistema sociale, come quello capitalistico, che a parole si dichiara lontano dall’ideologia marxista.

La crisi della pandemia ci ha obbligato anche a riflettere sulle seguenti antinomie:

a) Necessario/superfluo

Il primo decreto sul lockdown ha messo in evidenza con la forza della evidenza la netta distinzione su ciò che è necessario e ciò che è superfluo nella vita: necessario è ciò che ha a che fare con il mangiare, vestirsi, curarsi, superfluo tutto il resto. La verità di questa constatazione risulta dal fatto che l’applicazione della legge l’ha dimostrata: tutti hanno beneficiato dall’apertura dei negozi di beni necessari, mentre nessuno ha avuto danno dalla chiusura delle attività superflue, se non i loro produttori e i loro commercianti.

Comunque, le conseguenze economiche della crisi dimostrano che la parte dell’economia che si fonda sui beni superflui è molto ampia. Ne possiamo dedurre che l’economia del superfluo è molto più diffusa di quella del necessario.

La situazione potrebbe essere un’occasione per riflettere su questa contraddizione e trarne le dovute conseguenze a livello sia personale che sociale. A livello personale, orientare la propria attenzione, e le proprie spese, verso i beni necessari e praticare un risparmio che potrebbe tornare utile in diverse occasioni. A livello sociale, sostenere in modo vario la produzione di beni necessari e scoraggiare quella di beni superflui. E soprattutto, fare in modo che i beni necessari non manchino a nessuno, sia all’interno della comunità nazionale sia in quella internazionale.

b) Distanza/vicinanza

La pandemia ha obbligato tutti ad una segregazione in casa. Ciò ha introdotto una limitazione delle manifestazioni di affetto che prima erano abituali: strette di mano, baci, abbracci sono stati interdetti. La pandemia ha prodotto un distanziamento dei rapporti umani. La fase successiva potrà allentare alcune condizioni della vita sociale, ma non quella dei contatti umani. Essi sono da considerare ancora possibili veicoli di contagio. Sicché è destinato a rimanere il sospetto che l’eccessiva vicinanza sia pericolosa. Ciò può provocare una abitudine al distanziamento che muta le nostre concezioni sociali.

c) Città/campagna

Su La Repubblica di martedì 28 aprile 2020 M. Serra apre un interessante dibattito sul contrasto città/campagna. Egli ha rilevato che la pandemia “ha riattizzato” questo dualismo che si traduce nella “incomprensione politica tra la campagna dai larghi spazi ma dalla mentalità spesso ristretta, e le metropoli promiscue e progressiste”. A questo si può aggiungere che le metropoli, proprio per la loro promiscuità hanno diffuso maggiormente il contagio, mentre le campagne lo hanno quasi ignorato. E allora si tratta di ripensare questo rapporto favorendo la tendenza a ‘tornare’ ai borghi, come propone l’architetto Stefano Boeri. Ma, oltre a questo, potrebbe essere il caso di ripensare proprio alle metropoli. Cioè alla necessità di non favorirne la formazione, ma di impedirla, creando di volta in volta, quando sia necessario, città satelliti di grandi città, a dimensione d’uomo, con tutti i servizi necessari. Si tratta proprio di ‘impedire’ per legge la formazione di città mastodontiche e di ‘fondare’ ex-novo nuove piccole città.

E poi, bisognerebbe fermare nelle città la costruzione di mostruosi grattacieli e di limitarne l’altezza a limiti umani, che non trasformino gli uomini in uccelli. Anche i cosiddetti grattacieli-giardino verticali, progettati proprio da Boeri, sono un’offesa alla natura: gli alberi per crescere hanno bisogno della terra stabile, non di surrogati aerei.

Insomma, sarebbe questo il momento di riflettere sul rapporto tra città e campagna, tra natura e civiltà. Ma si può stare certi che, non appena la pandemia avrà esaurito i suoi effetti, i padroni delle ferriere torneranno a dettare legge e a minacciare la natura. Sino alla prossima catastrofe.

(maggio 2020)

Questa voce è stata pubblicata in Pandemia Covid-19 e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *