Il mondo intero, sconvolto da guerra, carestia, epidemia, le tre furie dell’ancien régime, sembra bisognoso di santità, che gli ordini religiosi si incaricano di incanalare e dirigere secondo precise dinamiche. Il loro ruolo, scrive Elisa Novi Chavarria (Ordini religiosi e santità femminile nel Mezzogiorno spagnolo, pp. 255-275), è “determinante nell’orientare o assecondare determinate scelte devozionali, nella pianificazione di pellegrinaggi, nella raccolta e nel traffico delle reliquie, nel promuovere forme di sostegno organizzato per questa o quella loro beniamina, nella progettazione editoriale di agiografie e raccolte di panegirici destinate alle biblioteche di laici ed ecclesiastici, che ebbero anche un discreto successo editoriale, nel controllare e indirizzare verso i propri santuari i flussi finanziari della carità dei fedeli, non di rado anche in aspra concorrenza tra loro” (pp. 261-262). Va da sé che ogni “affettazione di santità” va combattuta e repressa, proprio perché rifulgano meglio gli esempi di vita santa. E il caso di Filippa Maria Porzii, di Forlì, “la quale asseriva di ricevere rivelazioni e grazie speciali da Dio e di avere virtù profetiche e taumaturgiche” (p. 174), secondo il racconto di Adelisa Malena (La costruzione di un’eresia. Note sul quietismo italiano del Seicento, pp. 165-184). La Porzii nel 1687 fu processata e condannata al carcere a vita dall’Inquisizione.
La funzione degli Ordini, inoltre, fu anche quella di mediatori tra culti popolari e istanze centralistiche della Chiesa romana. Marcella Campanelli (Nuovi ordini e nuovi culti, pp. 297-315), a questo proposito, parla di “complessa dialettica” tra Chiesa e fedeli: “La prima, attraverso le direttive centralistiche che le provenivano da Roma, esercitava il suo potere regolatore e di controllo non solo sulle istituzioni ecclesiastiche locali, ma finiva anche con lo svolgere un’azione di interferenza nel vissuto religioso dei fedeli. Unica interprete dei valori propri della santità e dei relativi culti, la Chiesa controriformistica tentava di incanalare le spinte devozionali verso gli alvei dell’ufficialità scontrandosi con le resistenze opposte dai fedeli, gelosi custodi delle proprie tradizioni e dei propri referenti cultuali. Nello scontro tra spinta collettiva da una parte e esigenza normativa dall’altra, i Regolari finirono con il rafforzare il loro ruolo di mediatori per eccellenza” (p. 309).
Interessante il contributo di Angelo Sindoni (Patronato di santi e storia municipale nella Sicilia moderna, pp. 343-364), che indaga nella Sicilia moderna i patronati dei santi e come la loro storia si intrecci con quella municipale: “Nel santo patrono”, egli scrive, “si identifica l’intera comunità; le feste patronali sono quanto di più coinvolgente si possa registrare nella fenomenologia religiosa” (p. 343); la conseguenza è che le municipalità “cercavano con i nuovi patronati, una sanzione anche religiosa delle nuove realtà politico sociali” (p. 347), rinvenendo in essi la sublimazione religiosa dell’identità cittadina. “Questi patronati”, aggiunge Sindoni, “stabilitisi nel corso del ‘600, perdurano ininterrottamente fino ai nostri giorni” (p. 348), ad ulteriore riprova di come il barocco non sia un fatto culturale concluso della storia, ma si protragga sino ai nostri giorni.
Un tema importante studiato in questo volume è quello della condizione femminile in rapporto alla santità. In un’epoca di grande impatto disciplinare, scrive Katiuscia Di Rocco (Modelli di santità nelle comunità femminili in età moderna. L’esempio di suor Maria Rosa Serio, pp. 453-467), “la condizione fondamentale della vita monastica femminile divenne la clausura con tutto ciò che essa significò: mortificazione e condanna della carne, preghiera, doveri, sacrifici, lavoro e isolamento dalle famiglie di origine…” (p. 454). Queste erano le condizioni per giungere alla santità. Ma chi era, in effetti, una santa? “La santa”, risponde Di Rocco, “era una garante della stabilità del gruppo nel suo insieme e di ciascuno dei suoi membri, per la sua impeccabilità, che faceva di lei un’interlocutrice privilegiata presso Dio, un tramite tra il cielo e gli uomini. I fedeli erano convinti che da viva fosse investita di qualità appartenenti alla sfera divina” (pp. 454-455). Di Rocco fa l’esempio, uno dei tanti che si potrebbero citare, di Suor Maria Rosa Serio, serva di Dio ostunese, vissuta tra 1674 e il 1726, il cui corpo diventava “il luogo in cui la lotta contro il peccato e il desiderio si faceva più esasperata e la fama di castità eroica ottenuta nella vittoria contro il maligno era fondamentale per il riconoscimento della santità” (p. 462). “La religiosa digiunava fino allo stremo con ripetute preghiere, interminabili genuflessioni, cilici e altri strumenti di mortificazione corporale, quindi la mancanza di sonno, i pianti e i lamenti, l’automutilazione, l’isolamento, le malattie croniche causate da questa austerità, dalla sofferenza mentale e dall’astinenza al cibo…” (p. 463).
Mario Spedicato dedica un saggio a S. Giuseppe da Copertino (Le virtù eroiche di un santo del Salento: S. Giuseppe da Copertino (1603-1663), pp. 495-512), che interpreta come “non un santo della Controriforma cattolica, bensì un santo della chiesa minacciata dall’Illuminismo e dal riformismo europeo” (p. 496). Sullo stesso frate di Copertino, Dino Levante fornisce una corposa Bibliographia Josephina (pp. 513-597), utile ai futuri studiosi del santo.
Pagine importanti sono riservate all’apostolato itinerante ovvero a quella che la storiografia ha definito la “missione barocca”. Nell’epoca considerata, infatti, scrive Paolo Broggio (Missioni e devozioni nel mondo ispanico: il ricorso al culto dei santi nella pastorale itinerante della compagnia di Gesù (sec. XVII), pp. 601-621), “si andarono affermando delle nuove figure di missionari popolari che, almeno apparentemente, si dedicavano in maniera preferenziale al ministero itinerante e che non limitavano la propria attività pastorale né ai territori nelle vicinanze del collegio di appartenenza, né all’ambito della diocesi” (p. 604). Sono figure molto diffuse nel Nuovo Mondo, soprattutto in quello di area ispanica, dove entrano in competizione con gli sciamani locali, che detenevano fino ad allora l’esclusiva dell’intermediazione tra il terreno e il soprannaturale, attuando vere e proprie “campagne missionarie”, che hanno la funzione di sradicare “i culti locali a favore di culti de-paganizzati e comuni a tutto il paese”. “Le campagne missionarie”, infatti, scrive ancora Broggio, “furono con ogni probabilità uno degli agenti più importanti di quel tentativo di omogeneizzazione culturale e devozionale che a partire dal Cinquecento segnò la storia della vita religiosa dei paesi cattolici” (p. 609). La prova che questo processo di omogeneizzazione non riuscì mai perfettamente, si può rinvenire nella devozione schiavile delle Americhe indagata da Giovanna Fiume (Il Santo schiavo. Devozione e culti a Benedetto il Moro nelle Americhe, pp. 639-671) e nella reinvenzione dei culti di S. Francesco e di S. Tommaso, indagati rispettivamente da Silvana Maria Brandao de Aguiar insieme a Luiz Carlos Luz Marques (San Francesco, il santo che migrò (pp. 673-695), e da Maria Cristina Osswald (La leggenda di San Tommaso Apostolo in Malabar e i Gesuiti dal Cinquecento al Settecento (pp. 723-743). Il culto di San Francesco in Brasile è “un esempio chiarissimo di inculturazione vera e propria”, una“reinvenzione storica culturale” (pp. 674-675), tanto che San Francesco diventa Sao Francisco das Chagas do Canindé (San Francesco delle Piaghe del Canindé); e così pure S. Tommaso sarebbe morto a Meliapur, in India, leggenda che i colonizzatori portoghesi “appresero rapidamente a sfruttare per giustificare la loro presenza politica e la loro attività missionaria nell’Oltremare” (p. 739).
Il volume volge al termine e così questa recensione. Rimane la fortissima impressione di un grande affresco sul tema della santità, con aperture di ampio raggio, che consentono uno studio comparato dell’argomento. Nella Postfazione Raimondo Michetti (Ordini religiosi, santità e storia religiosa tra Medioevo ed Età Moderna. Nuovi studi e nuove prospettive, pp. 747-754), tirando le somme dei numerosi interventi, molti dei quali non abbiamo citato per mancanza di spazio, ma che non per questo sono meno meritevoli di considerazione, conclude che “i santi non avrebbero avuto nel cristianesimo questo solido prestigio senza la presenza degli ordini religiosi quanto meno tra tardo medioevo ed età moderna” (p. 750). Rispondere al bisogno di santità fu il loro compito principale in un’epoca di diffusa ignoranza e di grandi sofferenze. Ed oggi, quando per istruire una pratica di canonizzazione pare ci voglia un milione di dollari (si veda l’accenno a p. 692), ha ancora senso parlare di santità? Ma questa è domanda che esula dalla ricerca storica, per rispondere alla quale allo studioso conviene un approccio del tutto diverso alla materia.
[Ordini religiosi e santità globali (recensione a Ordini religiosi, santi e culti tra Europa, Mediterraneo e Nuovo Mondo (secoli XV-XVII), a cura di Bruno Pellegrino, Congedo Editore, Galatina, 2009, 2 tomi), “Il Paese Nuovo” di mercoledì 28 ottobre 2009, p. 6.]