Scritti ecologici. Anno 2016

Un tale livello di incongruenza tra quanto affermato in linea di principio e quanto praticato è davvero sorprendente. Che dice il Ministero dell’Ambiente? Possibile che per incrementare il capitale economico mettiamo a rischio in modo così irresponsabile il capitale naturale? Possibile che le leggi dell’economia possano prevalere su quelle dell’ecologia? Inutile illudersi: non prevalgono. Possiamo infrangere le leggi dell’ecologia, ma poi i prezzi da pagare saranno altissimi, anche in termini economici. Nel 2015 gli appelli degli ecologi sono stati finalmente ascoltati dal mondo religioso (Papa Francesco ha pubblicato Laudato Sì) e dal mondo politico (con gli accordi di COP21). E’ la prima volta che tre “mondi” spesso in contrasto tra loro si trovano esattamente sulle stesse posizioni. Purtroppo manca il “mondo” degli economisti e, apparentemente, sono ancora loro a comandare. Ignorando le leggi dell’ecologia e imponendo le proprie. Chi pagherà, anche economicamente, il prezzo di tanta irresponsabilità?

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Festeggiamo il Malthus day, con ecologi e ecologisti

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 4 febbraio 2016]

Vale la pena di giocare ancora un poco sul termine ecologia, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, come parola. Fu Ernst Haeckel a proporla, come variazione sul tema di “economia”. Economia significa le “regole della casa”, ecologia significa “lo studio della casa”. A Haeckel piaceva costruire parole nuove (come Protisti, per indicare tutti gli unicellulari con nucleo), spesso per affinare idee di suoi predecessori. Il concetto di ecologia è ben presente in Darwin e nell’Origine delle Specie il fondatore delle teorie ecologiche ed evoluzioniste parla di “economia della natura”. C’era davvero bisogno di una nuova parola? Separare l’ecologia dall’economia, col senno di poi, non è stata una buona idea. Darwin fu influenzato moltissimo dal pensiero di Thomas Malthus, un economista e demografo inglese, nato nel 1766. Malthus relazionò il numero di individui con la quantità di risorse disponibili ed ebbe una pensata che ancora stenta a entrare nella zucca di molti economisti: le risorse sono “finite” (nel senso che la loro quantità non è illimitata) e quindi è impossibile che qualcosa che dipende da loro possa crescere all’infinito. Il mito della crescita infinita è, appunto, un mito. Darwin applicò questo principio all’economia della natura. Marx all’economia, con le crisi ricorrenti del sistema capitalistico, una conseguenza, appunto, dell’impossibilità di una crescita infinita. Darwin sviluppò sull’intuizione malthusiana la teoria della selezione naturale, che altro non è che la teoria dell’ecologia. Perché è stato dannoso parlare di ecologia e non di economia della natura? Perché questa distinzione di termini ha permesso di considerare le due discipline come separate concettualmente. E infatti, per moltissimo tempo, gli ecologi hanno lavorato considerando la presenza umana come un “disturbo” alle cose di natura, e gli economisti hanno semplicemente “esternalizzato” i costi di erosione del capitale naturale nelle loro analisi costi-benefici. Una bella parolina, esternalizzato, per dire che non li hanno considerati. Li paga qualcun altro. Nell’era industriale questo si è rivelato letale per i sistemi naturali che ci sostengono. Solo recentemente le autorità che gestiscono il nostro vivere (tipo l’Unione Europea) hanno imposto l’approccio ecosistemico che, gran bella scoperta, impone di considerare le nostre attività come parte di sistemi più grandi: gli ecosistemi. E cerca quindi di rimetterci dove siamo sempre stati fisicamente ma da cui ci eravamo estratti concettualmente: nella natura.

Vale la pena, ancora, ricordare una parola che usiamo noi italiani: ecologisti. Il termine è spesso adoperato per definire chi pratica l’ecologia ma, grammaticalmente, questi si chiamano ecologi. Come sono biologi i praticanti della biologia. Cardiologi i praticanti della cardiologia, etc. Perché allora “ecologisti”? Perché c’è gente che scrive in italiano e non sa l’inglese. Ecologo, in inglese, si dice ecologist, biologo – biologist, e così via. E quindi qualcuno ha tradotto ecologist con ecologista. Ce n’era bisogno! Perché ora abbiamo due parole che permettono una distinzione necessaria. Gli ecologi sono i ricercatori che studiano l’ecologia. Gli ecologisti sono cittadini che non necessariamente hanno una preparazione formale in ecologia ma ai quali sta molto a cuore lo stato del pianeta. Il movimento ecologista li rappresenta. Il fatto che abbiano a cuore lo stato del pianeta è encomiabile e sono un movimento di importanza enorme: è grazie a loro (e non agli ecologi) che si è iniziato a parlare di ambiente anche nel nostro paese. Quando il Club di Roma pubblicò il famoso libro sui Limiti dello Sviluppo (dove si spiega con pazienza che la crescita infinita non è possibile, in un sistema finito) nessuno lo prese sul serio. Gli ecologi furono chiamati Cassandre. Gli ecologisti capirono e si convertirono. E’ bene che gli ecologisti restino ecologisti. Per diventare ecologi bisogna studiare, non basta il sentimento. Altrimenti tutti i casanova diventano ginecologi… e c’è una bella differenza tra avere un grande trasporto verso qualcosa ed esserne uno studioso competente.

L’ecologia è la più antica forma di cultura. Gli umani erano cacciatori e raccoglitori e dovevano conoscere molto bene la natura e le sue regole, per sopravvivere e trarre risorse da essa. Poi abbiamo elaborato concetti più “sofisticati” e ce ne siamo allontanati.

La parola “ecologia” compare più di trenta volte in Laudato Sì, l’Enciclica di Francesco che, nel suo scritto, invoca la conversione ecologica. Il concetto è semplicissimo: siamo parte della natura. Non ci possiamo “pensare” al di fuori di lei. Tutto quello che facciamo si riconduce al nostro posticino nei sistemi naturali, gli ecosistemi. La sostenibilità si riferisce a questo.

Nessuno, che io sappia, ha ancora fatto caso che sono 250 anni che è nato Malthus (1766-2016). I concetti dell’ecologia nascono proprio da lui. Haeckel ha coniato la parola cento anni fa, e va bene. Ma i fondamenti che danno significato a quella parola derivano da Malthus. Festeggiamo anche lui. Tra parentesi, Darwin è nato il 12 febbraio 1809, Malthus il 13 febbraio 1766. Chissà cosa potrebbero escogitare gli astrologi su queste coincidenze astrali. Ricordando che astrologi non è sinonimo di astronomi…

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La sindrome di SLFLFAN

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 16 marzo 2016]

Il referendum del 17 aprile ci chiede: “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?”. La domanda non è: Trivelle si, Trivelle no. Ci si chiede solo se vogliamo rinnovare le concessioni a estrarre combustibili fossili dai siti da cui le estraiamo ora, nelle nostre acque territoriali. Anche se i giacimenti possono ancora dare gas e petrolio, alla fine delle concessioni smetteremo di estrarre combustibili fossili. La domanda non riguarda le future concessioni, ma solo il rinnovo delle vecchie.

Un argomento a favore delle trivellazioni riguarda un atteggiamento molto comune: lo fanno gli altri paesi, perché non noi?

Gli ambientalisti sono spesso accusati (a volte a ragione) della sindrome NIMBY (Not In My Back Yard: non nel mio cortile): ma perché proprio qui? Fatelo laggiù! La sindrome speculare dice: Se Lo Fanno Loro Facciamolo Anche Noi: la sindrome SLFLFAN (me la sono inventata proprio ora): gli altri trivellano e noi siamo gli unici fessi a non trivellare? Peccato che 198 paesi, incluso il nostro, abbiano firmato gli accordi della 21 Conferenza delle Parti (COP 21) in cui ci impegniamo a iniziare un percorso virtuoso che ci dovrà portare ad abbandonare i combustibili fossili e a usare energie rinnovabili. C’è bisogno di nuova tecnologia che privilegi il capitale naturale e che non lo sacrifichi per la crescita del capitale economico (sto parlando di sviluppo, di crescita economica). Stiamo firmando accordi su accordi che promettono l’abbandono dei combustibili fossili. Ma un attimo dopo decidiamo di trivellare il mare e di estrarre petrolio, con lo Sblocca-Italia.

Insomma, da una parte promettiamo di smettere e di essere virtuosi, e dall’altra programmiamo di continuare per i prossimi decenni, cercando, estraendo ed utilizzando combustibili fossili.

Il referendum, tecnicamente, non dice no a queste confuse decisioni. Dice no al rinnovo delle vecchie concessioni. Non ne vieta di nuove. Politicamente, però, lo dice eccome un NO, anche se per dire NO bisogna votare SI. Se il referendum fallisse, il segnale sarebbe: va bene così, continuate tranquilli, la maggioranza del paese è con voi, contro quei fanatici antiscienza dei NIMBY, e prevarrebbe il SLFLFAN.

Manca una seria politica energetica nel nostro paese (e anche una solida cultura ambientale). La storia iniziò nel 1974, con lo Scandalo dei Petroli: i petrolieri corruppero il governo per NON fare la scelta nucleare. Le centrali andavano a gasolio e avrebbero avuto una grossa perdita se si fosse passati al nucleare. Il modo per convincere i politici si trova sempre…. Perché, chissà come mai, alla fine i governi fanno sempre scelte che privilegiano gli interessi dei petrolieri, delle banche, e di altri poteri. Ai cittadini non rimane che il voto. E’ triste vedere che ci sono due chiese contrapposte. Da una parte i NIMBY e dall’altra gli SLFLFAN, ognuno fermamente convinto della bontà dei propri convincimenti. La mia posizione è chiara, sono un SLFLFAN, nel senso che dico: Se Lo Fanno Loro (di abbandonare i fossili e passare alle rinnovabili) Facciamolo Anche Noi. Confesso che i NIMBY mi sono sempre stati antipatici, e scommettiamo che quando si deciderà di dove mettere le scorie nucleari queste non finiranno in certe regioni, ma in altre? Scommettiamo? E la parte più forte del paese deciderà che non le vuole nel proprio cortile e le metterà nel cortile della parte più debole? E se questa protesterà sarà tacciata di sindrome NIMBY?

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La domanda del re

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 25 marzo 2016]

La presentazione di Guglielmo Forges Davanzati del libro “Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi” di Francesco Sylos Labini introduce la famosa “domanda della Regina”, posta dalla Regina Elisabetta agli economisti della famosa London School of Economics: ma come mai sbagliate sempre le vostre previsioni e non avete previsto questa crisi? Forges Davanzati ci insegna che la domanda non ebbe risposta, e ci ricorda che la grande matematizzazione delle scienze economiche, con l’uso di sofisticati algoritmi, è un tentativo di portare l’economia a livello della fisica. Una scienza “dura”, predittiva. I fisici fanno previsioni e le basano su elaborazione matematica della realtà. Inseriscono i valori di variabili chiave all’interno dei loro algoritmi e, con i loro calcoli, prevedono le manifestazioni future della realtà. Higgs prevede il bosone, Einstein le onde gravitazionali, e così via prevedendo. Poi gli esperimenti confermano, oppure rigettano. Se lo fanno loro, perché non riusciamo anche noi? Si dicono gli altri ricercatori. E nasce la famigerata invidia per la fisica. Tutte le discipline, con qualche eccezione, tentano di diventare “dure” e predittive, come la fisica. Lo disse Kant, tantissimo tempo fa: la maturità di una scienza si misura con il suo livello di matematizzazione. Una scienza altamente matematizzata, la fisica, è “matura”, mentre quelle che non sono ancora riuscite sono “immature”. Nella scienza si dice anche che la fisica sia una scienza “dura” mentre le altre sono “molli”.

Certo che quando i fisici si cimentano in altre discipline non è che riescano a fare quel che fanno nella loro. Di solito se ne tornano al riparo del proprio ambito. Oppure…

La domanda della Regina fu rivolta anche ai meteorologi. Ma scusate, spendiamo un sacco di soldi per stazioni meteorologiche, satelliti, centri di calcolo, e poi spesso le previsioni sono errate. Come mai? Intanto, diciamo che le previsioni meteo, oggi, sono incommensurabilmente migliori rispetto a prima dell’uso dei satelliti e dei computer. Ma l’incertezza prevale, comunque. La risposta la diedero prima indirettamente e poi direttamente, due matematici: Poincaré e Lorenz. Poincaré, con il problema dei tre corpi, dimostrò che se due corpi interagiscono (per “corpi” si intende due misurazioni della realtà, di qualunque tipo) è possibile effettuare previsioni sul loro comportamento futuro, ma se i corpi diventano tre, nel medio e lungo termine le loro interazioni diventano intrinsecamente imprevedibili. Si prevedono le prime interazioni (breve termine) ma non le successive (medio e lungo termine). Lorenz fece bene o male la stessa scoperta con simulazioni applicate alla meteorologia, dimostrando matematicamente che piccolissime differenze nei dati misurati possono influenzare in modo determinante (nel medio e lungo termine) il comportamento di un sistema complesso. E complesso significa con più di due corpi che interagiscono.

E quindi: le previsioni meteorologiche possono diventare molto precise nel breve termine. Ma è intrinsecamente impossibile (non si può) prevedere il medio e lungo termine, in questi sistemi complessi. Le equazioni ci sono, ma sono “altamente instabili”, cioè la loro applicazione può dare risultati molto differenti, a fronte di infinitesime variazioni di variabili rilevanti. Basta poco, e tutto cambia.

Quel “poco” si chiama: la storia. Queste scienze sono “storiche”. Si chiede, agli storici, di elaborare l’equazione della storia? Si chiede agli storici di prevedere il futuro, in base al passato? Uno storico potrebbe identificare tutte le variabili rilevanti e trovare i rapporti tra esse, e poi potrebbe cercare di elaborare i loro valori all’interno di sistemi matematici, tipo quelli della fisica e, in base ad essi, prevedere il futuro. Una bella sfera di cristallo, matematica.

Come mai gli storici non lo fanno? Questa potrebbe essere la domanda del re. E la risposta è: perché non sono mica scemi. Non è possibile. Se si chiede ai fisici di trovare una macchina che produca lavoro senza alcuno spreco, ti dicono: non si può. Bene: non si può prevedere nel medio e lungo termine il comportamento di un sistema complesso. I sistemi economici sono complessi, e dipendono, anzi direi “sono” la storia. L’economia è una scienza storica. E’ un altro modo di leggere la storia. Lo spiegò Berlusconi perché gli economisti sono sempre ottimisti con i loro modelli: bisogna rassicurare il pubblico, in modo che spenda e, se spende, l’economia gira. Fino a un certo punto, però. Gli economisti ancora pensano che sia possibile la crescita infinita, e non si rassegnano a rientrare nei ranghi dell’ecologia che ci insegna che la crescita infinita è impossibile, in un sistema finito. Lo dimostrò Malthus, un economista, nato 250 anni fa. Ispirò Darwin, uno scienziato che studiava la storia naturale (ancora “storia”). E Marx, un economista che previde le crisi ricorrenti dei sistemi economici. Non si prevedono con precisione, ma è prevedibile che se qualcosa sale allora qualcos’altro scende, e le salite sono sempre seguite da discese. Ce lo insegna la storia. La matematica organizza le informazioni, ma non è detto che le trasformi in conoscenza, e non è detto che la sola conoscenza possa portare a saggezza. Viviamo nell’era dell’informazione. E lo paghiamo con una forte crisi di saggezza. Le domande hanno risposta, ma non ci piace. E ci affidiamo a certezze altamente incerte. Gli economisti comandano e ci stanno facendo affondare, ma con una grande fiducia nel futuro… Ce lo insegna la storia.

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Verso un nuovo Rinascimento

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 31 marzo 2016]

La domanda della Regina Elisabetta agli economisti: “come mai non siete riusciti a prevedere la crisi?”, con una variante, potrebbe essere rivolta anche all’altra categoria che così fortemente influenza le nostre vite: gli ingegneri. Se siete così in grado di risolvere i problemi, come mai ogni soluzione genera nuovi problemi? Il mio esempio preferito è Giulio Natta, premio Nobel per aver inventato la plastica. Ma signora guardi ben che sia fatto di Moplen, diceva Gino Bramieri mentre vantava le magnifiche proprietà di secchi e bacinelle di plastica. Poi arrivarono le bottiglie. E tutto il resto. Grande soluzione. Ora abbiamo gli oceani invasi dalla plastica, e non riusciamo più a liberarcene. Se la bruciamo emette diossina. Abbiamo risolto magnificamente moltissimi problemi, per cinquant’anni. Ma ora ne abbiamo moltissimi altri che stentiamo a risolvere.

Abbiamo risolto il problema della malaria bonificando le paludi. Ma ora abbiamo il dissesto idrogeologico. E potremmo andare avanti così a lungo. Gli ultimi 50 anni hanno visto un progresso prodigioso delle tecnologie. Nessuno mai, in passato, ha avuto così tanto a disposizione come noi oggi. La qualità della vita è migliorata in modo esponenziale: viviamo più a lungo, e meglio. C’è un piccolo problema: per quanto ancora? In più, chi non vive come noi vuole vivere come noi. E ci rendiamo conto che non si può. Già non si può continuare a vivere così bene come hanno vissuto le generazioni del dopoguerra. Lavoro per tutti, posti fissi, pensioni e assistenza per tutti, diritto allo studio, al lavoro, alla casa, alla salute, all’istruzione. Pochi doveri. E ora ci accorgiamo che non ce lo possiamo permettere. Il conto di questo benessere lo pagano, economicamente, le generazioni più giovani. E poi lo paga l’ambiente devastato.

Il problema è semplice: abbiamo affrontato i problemi uno alla volta, risolvendoli nel breve termine. E li abbiamo in effetti risolti. Ma non abbiamo pensato al medio e lungo termine. Il medio termine, da quando siamo partiti con questo processo di modernizzazione e di benessere, è arrivato. La crisi economica è lancinante, e ci sono crisi politiche e strategiche molto preoccupanti, con migrazioni di massa e terrorismo. Il lungo termine riguarda la crisi ambientale, e sta arrivando anche lei.

Noi non vogliamo sentire le brutte notizie, non ci piacciono. Ci piacciono quelli che hanno la soluzione per tutto, quelli che rassicurano. Si tratta di placebo. Di medicine che non sono medicine, ma che curano la psiche. Convinti di aver preso una medicina, se non stiamo davvero male, affrontiamo con ottimismo i disagi e li superiamo proprio grazie all’iniezione di fiducia generata dalla convinzione di aver preso un farmaco miracoloso. Giustissimo, se non si ha nulla di grave i placebo funzionano e aiutano il corpo a reagire. Ma di fronte a problemi reali e più gravi bisogna ricorrere a ben altro. I placebo non bastano. Ma le medicine possono avere effetti collaterali. Ci fanno guarire da una malattia ma ne generano un’altra.

Non vorrei essere frainteso. Ingegneri ed economisti sono indispensabili, come sono indispensabili i medici. Non sono mica scemo! Fanno mirabilie, e davvero sono in grado di risolvere problemi. Se non ci fossero non saremmo dove siamo. Nel bene, ma anche nel male. Quel che dico, però, riguarda la modalità con cui usiamo il loro sapere. Queste conoscenze vanno organizzate in modo più integrato. Vanno messe assieme e vanno inserite in un contesto ecologico. Non è un caso che Francesco, con la sua Enciclica, parli di conversione ecologica. Ci dice che tutto questo benessere sta portando alla distruzione della casa comune: l’ambiente. E non possiamo essere sani se l’ambiente è malato. Nessuno, ma proprio nessuno, ormai, contesta che esistano problemi ambientali molto gravi. Siamo tutti d’accordo che si debba agire in fretta. Per questo avremo bisogno di ingegneri e di economisti. Gli ingegneri dovranno essere chiamarti a risolvere il problema di produrre energia senza inquinare. Dovranno ridisegnare il nostro vivere quotidiano, e non in modo virtuale, come han fatto con smartphones e computer, ma nel vivo del nostro abitare, e muoverci, e riscaldarci o raffrescarci. Con gli agronomi dovranno disegnare meglio il modo di produrre e distribuire il cibo e le materie che ci servono per vivere. Per usare meglio l’acqua. Gli economisti dovranno disegnare nuovi modi di gestire l’economia, non basati sullo scarto: l’economia circolare. Ma il ruolo principale, se saremo saggi, lo avranno gli ecologi. La conversione ecologica significa che ogni nostra azione, ogni nostra attività, dovrà essere inserita negli ecosistemi di cui facciamo parte e ne dovrà essere valutato l’impatto nel breve, medio e lungo termine. I costi ambientali e per la salute umana dovranno essere internalizzati nelle analisi costi-benefici, e dovranno essere gli ecologi a calcolarli, assieme ai medici. Non certo gli ingegneri e gli economisti, i cui compiti sono ben differenti ma che devono essere consci delle conseguenze delle loro proposte. Tutto questo richiederà una nuova cultura, che abbatta le barriere e i conflitti tra le varie branche del sapere. Una cultura che integri e faccia interagire le troppe “culture” in cui abbiamo frammentato la Conoscenza. Un cultura che avrà grande bisogno di filosofia e di estetica. Un Rinascimento, insomma. Non esiste altro modo per uscire da questa crisi.

E la chiave di volta di tutto questo è nell’Università, la fucina dove si plasma la Cultura e si formano le nuove generazioni.

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Il referendum sulle trivelle: una domanda da azzeccagarbugli

[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 5 aprile 2016]

Tra poco il referendum. La domanda è da azzeccagarbugli e riguarda un fatterello irrilevante, incomprensibile ai più, nella modalità con cui la troveremo nella scheda. Nella sostanza, si tratta di decidere se prolungare la durata delle concessioni a sfruttare giacimenti di combustibili fossili entro le 12 miglia (nelle nostre acque territoriali) o se restringere le concessioni alla loro naturale scadenza. La logica di chi dice NO, o chiede di astenersi, è: oramai quelle trivellazioni sono state fatte, quelle piattaforme ci sono, sarebbe un peccato non sfruttare sino in fondo una risorsa che abbiamo e che ci aiuta a essere indipendenti dalle importazioni. Lasciamo che le piattaforme continuino a funzionare e garantiamo lavoro a chi si occupa del loro funzionamento. In più il paese guadagna con le royalties (quello che le compagnie ci pagano per prendere una risorsa nel nostro territorio).

Mi trovai di fronte a questa logica quando mi impegnai in una campagna contro la raccolta dei datteri di mare. Per prendere questi deliziosi molluschi si devastano i fondali. E’ una cosa che non si deve fare. Punto. Ma mi si diceva: oramai li hanno presi… è peccato non mangiarli!

E’ una logica che non condivido.

Chi dice di votare SI, dice: finite le concessioni, basta. Le royalties sono irrisorie, queste fonti fossili coprono in minima parte il nostro fabbisogno energetico e le piattaforme sono un potenziale rischio per l’integrità ambientale.

Il movimento per il sì viene chiamato anche NO TRIV. No alle trivelle. In effetti le trivellazioni si sono già fatte, all’inizio. Poi le piattaforme per la trivellazione sono state sostituite da quelle per l’estrazione. E quindi si dovrebbe chiamare NO PIAT. In effetti sarà vietato aprire nuovi campi di estrazione (e quindi trivellare) nelle nostre acque. Il messaggio è un pochino distorto.

Si chiede il mio parere… Direi che al 70% concordo con il SI e al 30% concordo con il NO. Sono in totale disaccordo con l’astensione. Domenica scorsa Scalfari ha incitato all’astensione, nel suo fondo su Repubblica. Auspicando un compromesso tra crescita economica e difesa dell’ambiente. Non sono d’accordo. Ha anche citato Taranto, e l’ILVA.

E in effetti le analogie ci sono. Anche per l’ILVA ci troviamo di fronte al ricatto occupazionale: si perdono i posti di lavoro. E chi chiede rispetto per l’ambiente e la salute umana viene tacciato di terrorismo ecologico. Però sappiamo che rimettere a posto i danni perpetrati con questa impresa industriale costa di più di quello che si è guadagnato. Per non parlare delle vite umane (che non si valutano in euro). Economicamente non conviene. O meglio, conviene nel breve termine. I francesi hanno guadagnato a fare le centrali nucleari. Ora le devono dismettere (smantellare) e i costi sono enormi, e non sanno neppure come fare. Quarant’anni dopo l’installazione, le generazioni attuali devono far fronte ai disastri perpetrati dalle generazioni precedenti. Il benessere passato si paga con il malessere presente.

Tra poco ci chiederanno di collocare a casa nostra le scorie dei cinque minuti nucleari che abbiamo avuto. Chi le prenderà? Le vorreste a casa vostra? Veronesi dice che non c’è alcun pericolo. Ma allora mettiamole a Milano, no?

Siamo ancora nell’età del fuoco. Bruciamo. Abbiamo bruciato le foreste, per riscaldarci, e poi il carbone, il gas, il petrolio, la spazzatura. Bruciamo principalmente carbonio. Quello delle piante è “vivo”, quello di carbone, petrolio, gas è fossile. Quando bruciamo carbonio si origina anidride carbonica. E questo cambia il clima, e rende il pianeta sempre più inospitale per la nostra sopravvivenza. Lo dicono tutti. Ma poi continuiamo a estrarre combustibili fossili. L’età del fuoco continua. Si aspetta che finiscano i combustibili fossili, per tentare altre strade. Sappiamo fare di meglio. L’età della pietra non è finita quando sono finite le pietre. Siamo passati ad altro. Ora lo sappiamo che bruciare combustibili fossili fa male al nostro futuro. Dobbiamo smettere. Il referendum non è una cavillosità irrilevante. E’ un modo per esprimere, democraticamente, che non vogliamo continuare a bruciare. Vogliamo altro. Questo porterà nuovi posti di lavoro, innovazione tecnologica, benessere. I posti perduti si riguadagneranno in altri settori. E ne guadagnerà la sostenibilità.

Sarebbe facile, ora, cavalcare gli eventi di possibili conflitti di interesse, di petrolieri che determinano la formulazione di leggi, e di emendamenti. Parlare di casi di inquinamento proprio da parte di compagnie petrolifere. Qualcuno dice che sono i “poteri forti” a contrastare le decisioni in materia di energia. Ma, da quel che ne so, i poteri forti sono le banche e i petrolieri. E pare che le leggi si facciano sempre per favorirli. Anche in questo caso.

Gli oppositori di Renzi saltano sul carro del referendum per rovesciarlo. Per me votare SI significa dire al governo che deve cambiare rotta e sviluppare una politica ecologica e economica sostenibile. Qualunque sia la formula di governo. Nessuno, sino ad ora, ha dimostrato di volerlo fare. Si difendono i banchieri e i petrolieri.

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Il leone e la gazzella

[“Il Secolo XIX” del 10 maggio 2016]

Nei primi documentari di Walt Disney il leone non prende mai la gazzella. La scena sarebbe troppo truce. Quando si scoprì che gli scimpanzé uccidono altre scimmie per mangiarle, molti rimasero male. Il panda ha un intestino da carnivoro e forse la scelta di mangiare bambù lo porterà all’estinzione, a causa della scarsa digeribilità del suo attuale alimento. La nostra biologia prevede una dieta mista di origine animale e vegetale, questa natura ha sviluppato una cultura, quella dei cacciatori e raccoglitori. E ancora ci sono centinaia di migliaia di onesti cittadini di sani principi che si divertono a uccidere animali selvatici. A volte li allevano, li liberano, e poi li prendono all’amo, o a fucilate. Quando prendiamo un pesce lo lasciamo morire sulla coperta della barca, soffocato dall’aria come noi saremmo soffocati dall’acqua. Siamo contenti se si muove ancora, quando lo compriamo. Per la sopravvivenza, comunque, deleghiamo agli allevatori il lavoro che una volta era dei cacciatori. Sappiamo come sono tenuti gli animali negli allevamenti industriali, cosa succede alle galline da uova, non parliamo di quel che si combina alle anatre per fare il fois gras. Solo che non avviene sotto i nostri occhi. I vegetariani non sono da meno. Con l’agricoltura miriamo a che cresca solo una specie. Il resto viene sterminato con insetticidi e erbicidi.

Ora, due rom hanno scannato un capretto, praticamente in pubblico. Un sacrificio, come quelli descritti nella Bibbia. A Pasqua mangiamo capretto in memoria di quel sacrificio. Solo che lo facciamo fare ad altri. Loro no, lo hanno fatto sotto gli occhi di tutti. Prima sono stati condannati, poi sono stati assolti perché la crudeltà verso gli animali è giustificabile per motivi religiosi. Non voglio commentare le decisioni dei giudici. Siamo biologicamente carnivori e dobbiamo uccidere altri animali. Non siamo mangiatori di carogne, come gli avvoltoi, che mangiano animali morti o uccisi da altri. Noi facciamo il “lavoro sporco”: li prendiamo, li uccidiamo e li dividiamo all’interno del gruppo. Ora lo facciamo industrialmente. Forse quel capretto dei rom ha fatto una vita più felice degli animali allevati industrialmente. E la sua morte è durata qualche secondo in più. Quanto basta per assolverci dalle nostre colpe di carnivori additando le colpe di altri carnivori. Forse potremo diventare come i panda e, pur avendo una biologia da carnivori, potremmo passare a una dieta vegetariana. I panda, occorre ricordarlo, sono una specie a forte pericolo di estinzione. Detto questo, ipocritamente, preferirei che certe scene non avvenissero sotto gli occhi di chi potrebbe riceverne una situazione sgradevole. I film porno mostrano quel che avviene spessissimo nelle camere da letto di persone normalissime. Uccidere animali e mostrarlo pubblicamente è come mostrare accoppiamenti tra umani. Fa parte della nostra biologia, ma deve restare non visto.

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Il senso di responsabilità nel fare meno figli

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 12 giugno 2016]

E così la popolazione italiana ha smesso di crescere, per la prima volta dal 1917, l’anno di Caporetto. E tutti sono preoccupati. Domanda: ma quale potrebbe essere la popolazione ideale per il nostro territorio? Ottanta milioni? O cento? Ma se dovessimo arrivare a cento, poi ci fermeremmo? O continueremmo a crescere? E quindi diventeremmo centocinquanta, e poi duecento milioni? Perché i casi sono tre: o si continua a crescere, e si arriva a questi numeri, o ci si ferma, o si diminuisce. Se diminuire o anche solo fermarsi di crescere è negativo, è ovvio che si pensa che sia giusto continuare a crescere all’infinito. La crescita infinita degli economisti è condivisa anche dai demografi. Posso dirlo? E’ una castroneria pazzesca. In passato si moriva prima, e ora viviamo a lungo. In passato il tasso di analfabetismo era altissimo, e ora siamo molto più acculturati. I paesi che fanno tanti figli di solito sono poverissimi. Se si raggiungono livelli sociali alti, e le donne lavorano, è ovvio che si facciano meno figli. L’istruzione alle donne è l’anticoncezionale più efficace e, nel nostro paese, funziona perfettamente.

Abbiamo un tasso di disoccupazione giovanile spaventoso. Ma si chiede che si mettano al mondo sempre più giovani. Forse si pensa che se ce ne fossero di più allora ci sarebbe lavoro per più giovani? Si dice che sono i giovani a sostenere gli anziani, con i loro contributi. Intanto sono gli anziani che mantengono i giovani, con le loro pensioni. I giovani sono precari e non sanno se avranno mai una pensione. In questa situazione sarebbe semplicemente irresponsabile mettere al mondo dei figli. E, se si hanno gli strumenti culturali per non farlo, si rimanda il momento della riproduzione e ci si limita nel numero di figli.

Se ci fosse lavoro per tutti i giovani, i giovani farebbero più figli. Ma non c’è. I modi per fare più figli sono due. Uno vede l’incentivazione di una drastica diminuzione del livello culturale e una forte diminuzione delle aspettative sociali, in modo che si torni al proletariato. Oppure si promuove una politica di forte occupazione giovanile, individuando aree occupazionali verso cui convogliare le aspettative. Una è senz’altro l’agricoltura. Un’altra è il restauro del patrimonio naturale e culturale del paese.

La mia impressione è che si sia scelta la prima strada. La diminuzione dei fondi alle Università e la diminuzione delle iscrizioni ne è un sintomo molto significativo. Qualunque sia la strategia, però, rimane pressante la domanda: ma qualcuno crede davvero che la crescita demografica possa essere infinita? Credo che nessuno sia così fuori dalla realtà (a meno di essere un economista). Il pianeta che ci ospita è un sistema con dei limiti, è “finito”. E la crescita infinita in un sistema finito non è possibile. Punto. Su questo non si può discutere. Si può discutere quali siano le dimensioni ottimali e di come fare per mantenerle.

Vedere che a Expo si progetta un centro che serva a promuovere l’allungamento della vita mi pare un esempio di irresponsabile egoismo generazionale. Restare aggrappati alla vita, e vivere anche dieci anni di più in uno stato di totale dipendenza da aiuti esterni ha costi sociali enormi e prospetta un fine vita in condizioni miserevoli. L’accanimento terapeutico rimuove tutte le cause di morte e porta ad una popolazione di anziani inabili che necessitano di cure costosissime e lunghissime. A fronte di che? Bisognerà discuterne. Inoltre gli anziani rifiutano di lavorare più a lungo e, da una parte, potrebbe anche essere giusto. Così lasciano il posto ai giovani! Ma, nel nostro paese, i posti lasciati liberi dai pensionati non sono rimessi sul mercato. Sono riassorbiti.

C’è un egoismo generazionale enorme. E i giovani hanno smesso di riprodursi. In più se ne vanno. I nostri laureati trovano lavoro all’estero, in Italia no. In Italia trovano lavoro i braccianti-schiavi che lavorano nelle nostre campagne. E sono quasi tutti immigrati.

Non mi pare che ci siano disegni politici per affrontare queste sfide. Si propone gattorpadianamente di cambiare tutto (aboliamo le province, il senato, etc.) perché tutto resti come prima. Aboliamo l’ICI e mettiamo l’IMU. Sono giochetti. I problemi del paese sono ben altri. Le soluzioni, però, si devono cercare dopo aver compreso molto bene i problemi. Di per sé, il disinnesco della bomba demografica non è un problema. Lo ha detto anche Francesco, di ritorno dalle Filippine: non possiamo riprodurci come conigli.

Il vero problema è il lavoro ai giovani. Se avranno prospettive ricominceranno a riprodursi, restando qui. Altrimenti, dimostrando un grande senso di responsabilità, non metteranno figli al mondo o, come abbiamo fatto da sempre, emigreranno. Non più da braccianti ma da laureati.

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Nuove tragiche parole

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 16 giugno 2016]

C’è bisogno di nuove, tragiche parole per definire l’uccisione di persone per appartenenza di genere. Uccidere omosessuali è un omocidio, legato all’omofobia. Uccidere donne è un ginecocidio, legato alla ginecofobia. Androcidio dovrebbe essere l’uccisione di un maschio perché maschio. Ma gli androcidi sono rari. Sono sempre maschi ad uccidere femmine e omosessuali, quando si uccidono tra loro non vogliono uccidere dei maschi, vogliono uccidere avversari. La guerra è cosa da maschi. Gran parte degli omicidi, di qualunque genere, sono compiuti da maschi “normali”. Il ruolo biologico dei maschi, oltre alla fecondazione, è di difendere il territorio e di cacciare, e questo ha marcato profondamente il loro comportamento, la loro indole. I maschi, a parte rare eccezioni, aspirano a ruoli di comando ma non controllano la riproduzione e questo li rende incerti riguardo alla trasmissione dei geni alle generazioni future. La madre è sempre certa, il padre no. Questa mancanza di “controllo” ha portato i maschi ad atteggiamenti vessatori nei confronti delle femmine. E’ relativamente recente l’abolizione del reato di adulterio femminile (quello maschile non era punito). Ed è altrettanto recente l’abolizione del “delitto d’onore” che prevedeva pene lievi per i maschi che uccidevano la moglie fedifraga. E ci sono paesi in cui le fedifraghe vengono lapidate e l’omosessualità viene punita con la morte. La sodomia è spesso ritenuta un peccato ripugnante, equiparato alla pedofilia. I maschi “veri” non amano essere abbandonati dalle proprie femmine, e sono disgustati da accoppiamenti tra maschi. La reazione mette in campo l’unico argomento di esseri intellettualmente “primitivi”: la violenza. I maschi abbandonati uccidono chi osa lasciarli. E si sentono offesi, i maschi, nel vedere maschi che non si comportano da “maschi”, probabilmente per esorcizzare proprie omosessualità latenti e considerate inaccettabili. Uccidono gli omosessuali per uccidere la propria omosessualità. E uccidono le femmine per uccidere la propria impotenza.

Ci sono sempre stati, gli omocidi e i ginecocidi. Hitler, oltre a sterminare ebrei, zingari e disabili, aveva pianificato anche lo sterminio degli omosessuali.

Paradossalmente, le donne e gli omosessuali sono più “forti” di chi uccide, hanno il controllo del proprio corpo e decidono di conseguenza, dimostrando un’autonomia intollerabile. E sono uccisi da vigliacchi, visto che le vittime di solito non sono attrezzate per rispondere alla violenza con altrettanta violenza.

Se lo sfigato che ha ucciso più di 50 omosessuali in Florida fosse entrato in un locale frequentato dagli Hell’s Angels probabilmente sarebbe finito crivellato di colpi dopo la prima raffica. In quel locale, invece, non c’erano individui armati (solo un poliziotto fuori servizio ha cercato di fermarlo, senza successo). Omosessuali e donne sono non-violenti. E i bulli se la prendono con chi non ha le risorse fisiche per metterli al tappeto al primo tentativo di prepotenza. Questa violenza è fortemente connaturata nel comportamento maschile, ha basi culturali ma ha anche basi biologiche (il testosterone). La tentazione sarebbe di armare femmine e omosessuali, addestrandoli a uccidere. Ma questo significherebbe arrendersi all’inferiorità maschile. I maschi sono potenzialmente pericolosi. E anche i più miti, in certe situazioni, possono agire in modo violento. La società si deve organizzare meglio per arginare questa tendenza e resistere alla tentazione, fortissima, di farsi giustizia da soli. Da maschio, mi verrebbe voglia di comprare una bella 44 magnum per far fuori tutti questi violenti… e, al primo dissidio con qualcuno, diventerei proprio come “loro”. Dobbiamo imparare a gestire le frustrazioni. I miti del successo e della gratificazione certamente non aiutano.

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Dopo le case, le aut

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 29 luglio 2016]

Chi va al mare non vuole camminare. In passato, scoperta la bellezza del mare a due passi, è scoppiata la febbre della casa abusiva. Costruita alla bell’e meglio, quanto più vicina possibile al mare. Così sono state smantellate moltissime dune e si sono stravolti un paesaggio e un  ecosistema unici. Ma non basta. Chi non ha la casa in prima fila non vuole camminare. Chi non ha la casa direttamente sul mare vuole come minimo avere un facile accesso, con tutte le comodità. Senza camminare. D’altronde, lo vediamo anche in città. Se si deve comprare qualcosa in un negozio, si parcheggia esattamente davanti a quel negozio, in seconda e a volte in terza fila. Così al mare. Bisogna arrivare proprio lì: due passi e si fa il bagno. L’auto deve arrivare sulla spiaggia, o sugli scogli. Meglio che sia in vista, che potrebbero rubarla. E poi si può usare come base, magari collegata ad una tenda. Si può sentire musica dallo stereo, lasciando le porte aperte. Come gli elefanti si aprono sentieri nella savana e nella giungla, a forza di passare, così le auto hanno aperto varchi e tracciato esili strade. Un intrico di stradine che stravolge l’assetto della costa dove l’abusivismo edilizio non è ancora arrivato. Gli sbarramenti sono aggirati. Prima con i SUV, e poi passano anche le utilitarie.

Questa smania di connessione automobilistica con il mare sta rovinando la costa, non dico tanto quanto le case abusive, ma quasi. Che ci siano sentieri lungo la costa è bene. Che la si possa esplorare a piedi o in bicicletta è magnifico. Abbiamo ancora moltissimi tratti costieri senza abitazioni, e tutti devono avere la possibilità di usufruirne, a patto di non rovinarli.

Vedo che i sindaci finalmente si sono accorti di questo problema. Al tempo dell’abusivismo selvaggio avevano il potere di fermare lo scempio, e non lo hanno fatto. Chi li elegge ha anche costruito le case, mica si può andare contro il proprio “elettorato di riferimento”! La prima responsabilità di quanto è avvenuto è la loro, diretta espressione della popolazione votante. Con qualche sparuta eccezione, i sindaci si opposero fieramente al piano delle coste che cercava di fermare la colata di cemento: è un freno allo sviluppo, tuonavano. I tempi sono cambiati, e la consapevolezza di preservare un patrimonio naturale integro sta caratterizzando molte amministrazioni comunali. Finalmente! La difesa del patrimonio naturale non può essere efficace se la “popolazione residente” non condivide la sensibilità nei confronti della natura. Sono stati fatti molti passi avanti negli ultimi 30 anni. Il problema delle case abusive si risolverà alla fine del loro ciclo di vita. Piano piano la natura si riprenderà il suo spazio. Abbatterle tutte e ripristinare le condizioni che hanno così fortemente alterato richiederebbe l’impiego di carri armati. E poi molte sono state condonate. Per le auto il problema è più semplice. Per prima cosa bisogna allestire parcheggi a distanze accettabili dai posti belli. Con una sentieristica adeguata. Farne tanti, di piccole dimensioni, in modo da distribuire la popolazione senza generare assembramenti nei posti più facili da raggiungere. E poi vigilare in modo continuo e inflessibile che le regole vengano rispettate. Con carri attrezzi che rimuovano le auto degli indisciplinati. Gli addetti alla vigilanza devono essere di altri paesi. Perché il vigile comunale non multerà mai il paesano suo amico. E il turista multato si sentirà prevaricato nel vedere che lui deve seguire le regole e altri no. E non verrà più. I fondi europei con cui si vogliono costruire porti e strade e immense rotonde potrebbero essere impiegati per questo. Come si è fatto, per esempio, alla Palude del Capitano. Ripristinando anche i muretti a secco. Perché i soldi ci sono. Il turismo di chi è disposto a camminare un po’ o, addirittura, a programmare lunghe passeggiate in posti incontaminati e senza l’assillante presenza di meccaniche presenze umane, ha una sua dimensione economica. Questi viaggiatori vogliono godere della bellezza delle nostre coste, e dei nostri centri storici. Non vogliono usare le spiagge come balere, con assordanti rumori che assecondino danze tribali. Questo uso del territorio è legittimo nei posti in cui la natura non ha quasi nulla da offrire. Ma i posti baciati dalla fortuna di una natura magnifica devono generare ricchezza in altro modo. Un sindaco di Porto Cesareo un giorno mi disse che voleva realizzare la Rimini dello Ionio! E per valorizzare il paese eresse un monumento a Manuela Arcuri. Aveva un parco nazionale, l’Area Marina Protetta di Porto Cesareo, ma lo vedeva come un intralcio allo sviluppo. A Rimini non c’è il patrimonio naturale di Porto Cesareo. Voler trasformare Porto Cesareo in Rimini significa non aver capito nulla, anche perché a Rimini quel turismo lo sanno fare molto bene, non è facile competere. Chi viene qui cerca cose che altri posti non possono offrire. Prima di tutto la natura, e poi il patrimonio culturale dei centri storici e, ovviamente, l’enogastronomia.

Ci sono grandi opportunità di destagionalizzazione, con afflussi costanti. L’Italia un tempo era al primo posto nel mondo per la resa economica riveniente dal turismo. Ora siamo al sesto, o forse ancora più in basso. Ci sono paesi meno fortunati di noi dal punto di vista ambientale e culturale che hanno trasformato il proprio territorio in una miniera d’oro. Noi, invece, lo stiamo devastando in modo capillare, Con cemento, asfalto, auto, porticcioli inutili, rumore assordante. Tutte opere che generano ricchezza, con fondi pubblici, nei privati che le realizzano. Poi resta la cattedrale nel deserto e la devastazione di cemento e asfalto inutili.

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Meno democrazia senza Mercalli

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’ 11 agosto 2016]

La RAI ha eliminato dai propri palinsesti Scala Mercalli, il programma di Luca Mercalli dedicato alle sfide ambientali che la nostra specie deve affrontare per poter andare avanti nel suo cammino evolutivo. I dati di ascolto non erano esaltanti, e un programma in prima serata non può andare sotto un certo indice d’ascolto. I temi ambientali sono interessanti per una porzione insignificante del pubblico e questo basta perché i dirigenti RAI decidano di chiudere una trasmissione.

Non sono d’accordo. Mercalli stava svolgendo un servizio pubblico: informava sulle emergenze ambientali, mostrava i dati del disastro che stiamo perpetrando. Alcuni critici televisivi di autorevolissimi quotidiani lo hanno etichettato come un terrorista ecologico. Peccato che le stesse preoccupazioni siano condivise da Francesco, nella sua Enciclica Laudato Sì, anche lui un terrorista ecologico. E peccato che queste emergenze siano condivise anche dall’Unione Europea, dal G7, dalle Nazioni Unite. Ne parliamo e sono tutti d’accordo. Ma poi tutto continua come sempre.

In democrazia è importantissimo che il pubblico sia pienamente informato e che l’informazione si trasformi in conoscenza. Altrimenti la maggioranza può prendere decisioni contrarie ai propri interessi: è facile manipolare un ignorante. Un esempio? Molti degli inglesi che hanno votato per uscire dall’Europa non conoscevano i termini della decisione che hanno contribuito a prendere. Qualcuno ha cavalcato la loro emotività e chi sapeva non ha speso molte energie per spiegare, per smascherare le bugie. L’emotività ha condizionato le scelte del nostro paese in occasione di due referendum sul nucleare. Chernobyl e Fukushima hanno spaventato l’opinione pubblica. In questo caso, secondo me, è stato un bene. Vallo a spiegare che gli impianti hanno enormi costi di dismissione (tenuti accuratamente nascosti), che non sappiamo dove mettere le scorie e altre cosette del genere. Arrivano subito rassicuranti esperti che dicono che va tutto bene. Poco han potuto di fronte all’evidenza dei disastri. Ma in assenza di disastri, o se sono lontani nel tempo, l’opinione pubblica rimane indifferente ai problemi ambientali. Vedi il fallimento del referendum sulle concessioni petrolifere. Così abbiamo deciso di regalare ai privati i nostri depositi strategici di gas, e di portarli sino all’esaurimento: è un peccato lasciarli lì. Poco importa che avessimo ratificato accordi per limitare i combustibili fossili. Un attimo dopo estendiamo le concessioni entro le acque territoriali e le liberalizziamo oltre le dodici miglia. E siamo stati in pochi a cercare di spiegarne le implicazioni. La disinformazione ha trionfato. Mercalli ha osato dare voce ai comitati No TAV, scatenando interrogazioni parlamentari. Intanto, chissà per quale motivo, si è deciso che il tracciato della TAV potrebbe in gran parte utilizzare il tracciato ferroviario già esistente, senza che sia necessario allestirne un altro. Quello che chiedevano i comitati. Forse sarà perché il nuovo sindaco di Torino non è più così favorevole alla TAV? I comitati di affari che gestiscono i grandi appalti non sono contenti che la gente sappia. Mercalli mostrava grafici, forniva dati, faceva proiezioni e usava argomenti e testimonianze derivanti dal mondo scientifico. Certamente, a fronte di una testimonianza se ne trovano sempre di contrarie, ma almeno il pubblico può essere esposto a diverse campane.

Ora la campana di Mercalli è stata tacitata. Già dava fastidio a Che Tempo che Fa. Ho notato molta insofferenza da parte di Fazio alle argomentazioni di Mercalli. Batteva il dito sulla sua scrivania, impaziente di introdurre, con tempi dilatati, l’ultimo disco di Baglioni. Mercalli, menagramo, parlava di riscaldamento globale. Non interessa a nessuno! Poi sarebbe arrivata Littizzetto. Basta che dica culo! e Fazio finge di scandalizzarsi e tutti ridono. Aver dato una trasmissione in prima serata a Mercalli ha liberato la coscienza della RAI. E la liberazione è arrivata dai bassi ascolti. Si chiude non perché è scomodo, ma perché non ha successo.

E il servizio pubblico per cui paghiamo il canone diventa un’impresa commerciale. Con questa logica, se i ragazzi si annoiano a scuola tanto vale chiudere le scuole.

La Commissione Europea, con cui ho diverse occasioni di collaborazione, lamenta l’analfabetismo ambientale della popolazione dell’intero continente. Scala Mercalli era un contributo all’alfabetizzazione ambientale. Le cose che divulgava, però, erano ancora più scomode di quelle di Report o di Servizio Pubblico. Temi intollerabili per un assetto di potere che ha un disegno di crescita che vede la protezione ambientale come un freno allo sviluppo. Meglio che di queste cose non si parli. Ora, senza quel programma, la democrazia è un po’ meno compiuta, perché è meno consapevole. Le generazioni future malediranno, intanto i comitati di affari ringraziano: potranno tranquillamente gestire i propri affari.

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Chi ama il mare deve rispettare anche le patelle

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 15 agosto 2016]

Il Museo di Biologia Marina di Porto Cesareo, intitolato a Pietro Parenzan, suo fondatore, ha compiuto 50 anni e le celebrazioni sono ancora in corso. Un traguardo importante, visto che la biologia, all’Università del Salento, è iniziata proprio da questo nucleo marino. In questi giorni compie un anno una nuova struttura sorta a Tricase Porto: Avamposto Mare. Realizzata dal CHIEAM di Bari, con il supporto dell’Associazione Magna Grecia Mare e del Comune di Tricase, l’Avamposto viene utilizzato dall’Università del Salento e da altre Università per corsi estivi e per la realizzazione di tesi di laurea magistrale. Il corso di laurea in Coastal and Marine Biology and Ecology attira studenti da tutta Italia e i primi laureati con tesi ad Avamposto mare hanno iniziato qui il loro cammino nel mondo della biologia marina. La settimana scorsa in tre hanno presentato il loro lavoro ad Avamposto Mare ad una platea composta da pescatori, bambini, ricercatori, studenti e docenti liceali e altri, incluso il sindaco di Tricase. Francesca, che viene da Catania, ha raccontato del suo lavoro su una specie che nessuno aveva mai visto prima, una specie nuova. Si tratta di uno pterobranco (mai sentito, eh?) un nostro antico antenato che vive in piccoli tubicini attaccati a colonie di briozoi (altri animali sconosciuti ai più). Il genere è Rhabdopleura e sarà Francesca a decidere che nome dare alla specie. Ci sono ancora specie sconosciute, proprio sulla porta di casa nostra, a saperle cercare. Valerio, abruzzese, e Jessica, milanese, stanno facendo l’inventario delle specie di Tricase. Ne hanno già catalogate centinaia. Le prendono di fronte ad Avamposto Mare, le portano in laboratorio, le allevano e le osservano, e poi le ributtano in mare. Sono aiutati da una banda di bambini che hanno una voglia atavica di imparare, e dai pescatori che assecondano con un sorriso la loro voglia di ispezionare quel che resta nelle reti, dopo che tutto il commestibile è stato estratto. Avamposto Mare è strumento indispensabile per il corso di biologia marina in inglese (è l’unico in Italia), e il Comune ha messo a disposizione il vecchio asilo di Tricase Porto, oramai inutilizzato, come foresteria per gli studenti. I genitori di questi ragazzi arrivano per vedere come se la passano, per festeggiare le loro lauree, e riempiono le camere del villaggio dei pescatori, e i ristoranti. Si crea un circolo virtuoso dove la vita semplice diventa una rara ricercatezza, dove la voglia di conoscere la natura non è un vezzo infantile, ma diventa cultura.

Intanto, il movimento che vuole realizzare un’Area Marina Protetta tra Otranto e Santa Maria di Leuca sta prendendo forza. I sindaci hanno capito l’importanza del patrimonio naturale e si stanno attivando per preservarlo. L’Università del Salento ha già lavorato molto sulle Aree Marine Protette in tutta l’area mediterranea, con il coordinamento di progetti di rilevante interesse nazionale e di progetti europei. Abbiamo le conoscenze per aiutare le comunità locali in questo percorso. Ricerca e didattica si completano a vicenda e si integrano in un territorio che finalmente “ha capito”. Quando, cinquant’anni fa, Parenzan iniziò a lavorare a Porto Cesareo la natura era davvero nella sua forma migliore. Poi ci fu l’abusivismo, lo smantellamento delle dune, l’uso dissennato della costa, lo scempio della pesca dei datteri di mare e del turismo selvaggio, che abbandona rifiuti sulle spiagge. Erano i tempi della fiera opposizione alle Aree Protette. Oggi sono i sindaci a chiederle e una nuova cultura sta prendendo piede. Ci vorranno altri cinquant’anni, e forse più, per tornare in condizioni accettabili, ma la strada è tracciata. Anche se ogni giorno nuove minacce si profilano: dai bivacchi festaioli sulle spiagge, alla raccolta di cetrioli di mare (le oloturie) che vengono spediti a tonnellate in oriente, depauperando i nostri fondali.

Il contributo dell’Università allo sviluppo di una cultura rispettosa dell’ambiente si traduce nelle migliaia di laureati che abbiamo prodotto negli ultimi 30 anni e nei quali abbiamo cercato di inculcare alcuni principi fondamentali. Non sono tutti fanatici come Francesca, Valerio e Jessica (e i loro docenti) ma conoscono, si spera, l’importanza del rispetto per la natura. La battaglia più grande richiede l’affermazione della consapevolezza dell’importanza del patrimonio naturale. Intanto, dagli scogli dove osservo le salpe che brucano le alghe della battigia sono sparite le patelle. Tre individui dotati di coltello le hanno staccate tutte, molto meticolosamente, cibandosene avidamente, come i cercopitechi fanno con i datteri. Le avevo viste crescere in questi mesi e ora… tutto da rifare. Una specie di patella, la più grande, sta correndo il rischio di estinguersi proprio per la raccolta eccessiva. Intendiamoci, se stessi morendo di fame ucciderei l’ultimo panda e me lo farei arrosto. Ma quei tre non stavano morendo di fame. Come spiegargli che le patelle sono importanti senza correre il rischio di essere presi a male parole? La strada è ancora lunga, e noi non ci arrendiamo. L’Università serve a questo: far evolvere la cultura, sperando di contribuire a migliorare le cose.

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Abbasso il latinorum, viva la scienza

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 25 agosto 2016]

Ho studiato latino per dieci anni, tre di medie e sette di liceo (bocciato due volte) e riesco a leggere i testi delle lapidi, a volte. Ho passato ore della mia gioventù a cacciarmi in testa le declinazioni e la consecutio temporum, e mi sono sforzato di apprezzare la bellezza del periodo ciceroniano. Con una serie infinita di relative sorrette con scioltezza equilibristica da un solo verbo finale, con l’ipotassi che domina sulla paratassi. A me piaceva Cesare. Semplice, diretto. Ma no! Cesare è troppo facile. Lo leggi e capisci. Vuoi mettere Cicerone, dove non si capisce niente e ci vogliono ore per districare le frasi e gli incisi?

Entrato nel mondo della scienza, ho usato il latino, e ancora lo uso, per costruire i nomi degli animali che, con la nomenclatura binomia linneana, sono scritti in latino. E molte parole scientifiche sono di derivazione latina. O greca. Non ho studiato il greco (ho fatto lo scientifico) ma devo dire che con un buon dizionario etimologico non è difficile comprendere il significato di quelle parole. Nel frattempo mi ritrovo a usare l’inglese per comunicare con il resto della comunità scientifica. Quando ho iniziato a farlo ho incontrato difficoltà enormi. Scrivevo frasi troppo lunghe, con troppe relative, e bisognava leggere più volte quello che avevo scritto. Insomma, scrivevo come un burocrate che formula leggi artatamente incomprensibili, in modo da dar lavoro a schiere di avvocati. Manzoni prese in giro il latinorum di don Abbondio, e io avevo preso quel vizio. Mi ci vollero anni, e l’aiuto di un mio amico e collega londinese che lavorava al British Museum of Natural History, per scrollarmi di dosso quel fardello di verbosità. Lo imparai, anche, da Hemingway che scrisse: non scrivere mai nulla che non diresti a parole. O da Chandler. Nelle mie letture vacanziere ho ripreso gli scritti di Jerome K. Jerome e ho apprezzato la maestria del senso dell’umorismo inglese e dell’esilarante descrizione di come in letteratura si descrivano inutilmente i paesaggi. Saltavo le descrizioni dei paesaggi persino nei libri di Salgari, e Jerome finalmente mi spiega perché.

Insomma, sono contento di aver studiato latino, e di essere sempre stato rimandato e due volte bocciato anche per merito suo, ma se dovessi dire che ne è valsa la pena… bè, forse se mi avessero insegnato meglio l’inglese avrei avuto maggiori vantaggi. Anche l’inglese, ve lo assicuro, obbliga a ragionare e a ponderare quel che si dice e scrive, ma è una lingua che costringe ad evitare le ambiguità che con l’italiano arrivano quasi inosservate. Traducete in inglese e capite che non va bene. In più, dovunque vi rechiate nel mondo, se parlate inglese siete in grado di farvi comprendere, cosa che non mi risulta sia il caso per il latino.

Non riesco a trovare un’utilità nel conoscere fero, fers, tuli, latum, ferre (che ricorderò comunque fin sul letto di morte) e mi fa sorridere chi detiene questa conoscenza e poi non sa come funziona il proprio corpo, o un ecosistema. Perché le ore destinate ad apprendere queste cose sottraggono tempo ad apprenderne altre, tipo quelle che ho appena menzionato. Siamo il paese delle leggi incomprensibili e dei politici che parlano in modo incomprensibile, oppure di quelli che si rivolgono ai cittadini come se fossero bambini di quattro anni.

Insomma, da una parte concordo con Antonio Errico e Salvatore Settis che il latino abbia una qualche utilità, però chiedo come si possa ovviare alla abissale ignoranza scientifica che impera nel nostro paese, vittima di una visione della cultura che riduce la scienza a mera tecnica, esprimibile tutt’al più con una serie di teoremi, anch’essi imparati a memoria. Con grandi dichiarazioni che tutto questo “aiuti a ragionare”. Se servisse davvero a ragionare non avremmo attuato politiche economiche che hanno condannato agli stenti le generazioni future. Il compianto Umberto Eco ha decantato le meraviglie culturali che derivano dallo studio a memoria delle poesie. Ho passato ore e ore a cacciarmi in testa eifusiccomeimmobiledatoilmortalsospiro e davvero non riesco a trovare un motivo che giustifichi quelle ore rubate al divertimento adolescenziale. Mi direte: se ora scrivi libri e editoriali lo devi a quegli studi. Ma non è vero. Prendevo due di latino e nove di tema. Non sapevo perché, ma sentivo che quello che la scuola mi stava impartendo non corrispondeva alle mie aspettative. Poi, all’Università, ho iniziato a leggere i libri di Lorenz, Darwin, Mayr, Riedl, e di molti altri che a scuola non sono mai entrati. Ci ho messo del tempo per comprendere la differenza tra enunciati universali e enunciati esistenziali e a capire che Popper sbagliava a chiedere a tutta la scienza di formulare enunciati universali. Ci sono scienze che si basano su enunciati esistenziali e in esse vige la causalità multipla. Ma gli strumenti concettuali per capirlo non vengono forniti e basta uno Zichichi qualunque che dica che l’evoluzione non è una scienza perché non c’è l’equazione che la descrive e la prevede, e il ministro la toglie dalla scuola dell’obbligo. Dove, tra parentesi, non è mai stata insegnata davvero. Credo che i percorsi scolastici vadano radicalmente rivisti, per purgarli dalla visione culturale di Croce e Gentile. Non certo per sostituire poesie e teoremi con le tre I di berlusconiana memoria ma per dare strumenti critici alle giovani generazioni, in modo che non facciano gli errori delle generazioni precedenti. Che questo sia possibile con lo studio del latino, mi spiace, ma non è vero. Lo dimostrano i disastri perpetrati da politici e giuristi ferratissimi nelle dotte citazioni da Azzeccagarbugli.

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Stupidity day

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 4 settembre 2016]

Non ce la faccio a riprendere il governo per la passione smodata per la lingua inglese. Ho partecipato a molti Darwin Day e ho persino proposto il Malthus Day. Come faccio a scagliarmi contro il Fertility Day? Se l’avessero tradotto in italiano magari avrebbero detto Giorno della Fertilità, invece che giorno della Fecondità. Comunque faccio ammenda, e dirò d’ora in poi il giorno di Darwin.

Ho visto i manifesti della campagna pro fecondità, ora ritirata per una valanga di ironia in rete che ha ridicolizzato le buone intenzioni ministeriali. Ecco, pensiamo a bei manifesti di Oliviero Toscani, con il messaggio confezionato bene. Sarebbe comunque una campagna sbagliata. Si dedica alle cause prossime della poca fecondità italica e ignora le cause ultime del fenomeno. Mi spiego con le rondini: le rondini migrano perché una ghiandola produce un ormone in base alla lunghezza del giorno. Questa è la causa prossima (fisiologica) ma il motivo ultimo della migrazione è di recarsi in luoghi più adatti alla riproduzione e alla crescita dei rondinini. Tra poco qui arriveranno le piogge e il freddo, e allora se ne andranno in Africa. Da dove torneranno l’anno prossimo.

Non è che le coppie non fanno figli perché sono sterili. In questi casi si affrontano mille peripezie, si va all’estero, si ricorre alla fecondazione assistita, eterologa, si affittano uteri. Chi vuole figli non si arrende, non ha bisogno di manifesti. Se se lo può permettere.

In Italia non si fanno figli per due motivi “ultimi”. Il livello di istruzione si è alzato, e non c’è lavoro per i giovani (e non solo). Tra le persone di alto livello culturale, solo i ricchi si possono permettere otto figli. Mentre un analfabeta li produce senza problemi. Mia nonna si chiamava Ottavia, chissà perché, e proveniva da una famiglia di contadini analfabeti. I contadini hanno cercato di elevare i loro figli e nipoti, e questa natalità da conigli (come direbbe Papa Francesco) si è interrotta.

L’età del lavoro slitta in avanti, dopo una lunga istruzione. I giovani sono precari in modo stabile. Non ci sono servizi per la prole. Non dovrei neppure fare l’elenco di quello che manca, come seconda causa che si aggiunge all’istruzione. Tutti lo sanno. Tutti. A parte il ministro. Che spiega alle donne che è meglio fare figli da giovani, e non quando la fertilità non è più così prorompente. Ma guarda un po’, non ci stanno pensando. Avrà detto. Chissà perché aspettano così tanto a far figli? Ma non lo sanno che quando l’età avanza poi ci sono problemi? Facciamo una bella campagna e spieghiamoglielo, così il problema è risolto.

Ora torno alla mia proposta, quella del giorno di Malthus, di cui quest’anno ricorre il duecentocinquantesimo compleanno. Il buon Thomas, detto in termini moderni, si accorse che la crescita della popolazione è limitata dalla disponibilità di beni. Non è comunque un principio difficile da capire. Malthus propose il concetto di limite. Quante persone potrebbe sostenere un paese come il nostro? Cento milioni? Trecento? Un miliardo? A un certo punto si direbbe: non ce ne stanno più! Non si può crescere all’infinito, c’è un limite. E il limite è la possibilità di sostenere quelle persone, prima di tutto con il cibo, ma poi con tutto il resto. Quando si arriva al limite, ci sono tre strade: fame, epidemie, guerra. Oppure si cerca di non arrivare al limite, smettendo di crescere e mantenendo un equilibrio tra natalità e mortalità.

Gli italiani hanno smesso di crescere e hanno posto, senza alcun incentivo dall’alto, un limite alla propria crescita. Perché il sistema non ce la fa a sostenere più gente. Se non si fossero fermati, quale sarebbe la percentuale di disoccupazione giovanile? Adesso è mostruosa. Ma se avessimo fatto ancora più figli sarebbe ancora più mostruosa. E quanti emigrerebbero? Che fuga dei cervelli ci sarebbe? Certo, ci sono gli immigrati che bilanciano. Fanno lavori che i nostri giovani non vogliono fare. E di cui c’è bisogno. Ecco, ora forse ci sono. Il ministro sta pensando di ricostituire il proletariato, con tante braccia da mandare nei campi.

E quindi mi devo aspettare che mia figlia (unica) sposi un contadino e faccia otto figli che l’aiutino in campagna. Tornando alla situazione da cui era partita mia nonna Ottavia (che di figli ne fece tre), che è migliorata con mia mamma Maria (che ne ha fatti due). E io scemo che sto sostenendo gli studi dell’unica figlia che ho fatto perché credevo di essere responsabile. Che il ciclo ricominci, che si torni analfabeti, con la forza lavoro della prole, a zappare e a raccogliere pomodori.

E via questi immigrati che ci rubano il lavoro. Ora ci sono loro nelle campagne, a spezzarsi la schiena, ma lì devono andare i nostri figli. Altro che università. E poi perché sostenere i loro studi con soldi pubblici se poi emigrano per fare un lavoro coerente con la loro istruzione? Soldi sprecati! meglio che siano analfabeti. E tanti. Che se dovesse scoppiare qualche guerra ci sarà bisogno di soldati. Ecco, forse era questo l’intento della campagna ministeriale. Una strategia. O è solo stupidità? Non so quale spiegazione preferire. Davvero.

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La ricerca di base è il motore dell’innovazione

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’ 8 settembre 2016]

Il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca ha appena istituito nuovi corsi di dottorato di ricerca, sono innovativi e a forte vocazione industriale. E sono rivolti alle regioni del sud del paese. Dovrebbe essere una buona notizia, in parte lo è, ma in parte no. Nel nostro paese gli investimenti privati in ricerca sono molto esigui: il mondo produttivo è frammentato e non ha la massa critica per intraprendere ricerca di grande respiro. Ai consorzi di ricerca privata nel nostro paese non ci si pensa gran che, e quindi, alla fine, ci si aspetta che sia il pubblico a dover investire in ricerca. Questi dottorati a vocazione industriale dovrebbero essere finanziati dall’industria: i soldi pubblici dovrebbero essere investiti per la ricerca di base che, invece, viene penalizzata. E’ un paradosso italiano. Croce e Gentile disegnarono i percorsi scolastici dando rilievo alla cultura umanistica, confondendo la scienza con la tecnica e dando dignità scientifica solo alla matematica. Nell’istruzione pre-universitaria il messaggio è univoco: la cultura umanistica è essenziale, formatrice, utilissima. C’è un pochino di dignità alle scienze: la settimana della cultura scientifica concede che, su 52 settimane, almeno una sia della scienza. La tecnologia è di livello inferiore e, quasi invariabilmente, non viene considerata cultura.

All’università le cose cambiano. Chi segue la naturale propensione alla cultura derivante dai percorsi formativi si ritrova in corsi di laurea molto affollati e che non danno grandi possibilità occupazionali. La massa enorme di precari nella scuola ne è la testimonianza più drammatica. Le facoltà umanistiche e quelle scientifiche “pure” non offrono grandi opportunità occupazionali nel “mondo produttivo”, mentre quelle tecniche sono più promettenti. Un mondo rovesciato rispetto a quello della scuola. Da sempre mi batto per il riconoscimento a pieno titolo della scienza come forma altissima di cultura e ora, parlando di scienza di base, mi riferisco anche a quelle branche del sapere che chiamiamo scienze umane. E la distinguo dalla ricerca applicata. La scienza di base non ha fini applicativi, ma è il motore dell’invenzione e dell’innovazione; ne è, appunto, la base. L’innovazione non si prevede, soprattutto quella più rivoluzionaria. Le nuove strade si trovano facendo “altro”. Se si concentra tutto sulla ricerca applicata si lavora a breve termine e non si guarda lontano: bisogna promuovere entrambe. Al nord le industrie private sono abbastanza grandi da potersi permettere ricerca innovativa, ma al sud no. Anche al nord la ricerca di base è marginalizzata. Ma la ricerca applicata va avanti con buone risorse. Il ministero dà ora anche al sud questa opportunità, e quindi finanzia questi dottorati innovativi a carattere industriale. Per me è un errore. Il sud ha le potenzialità per diventare il luogo dove sviluppare la scienza di base, senza bisogno di scimmiottare il nord. Scienze umane e scienza pura, guidata dalla curiosità, possono essere coltivate in modo esemplare qui al sud. Nel medio e lungo termine anche queste hanno valore applicativo e preventivo. Penso ai beni culturali, alla cura dell’ambiente, e a tutte le branche del sapere non tecnico. Penso alla filosofia e alla storia, alle antiche lingue. Tutto questo richiede ricerca. I dottori di ricerca servono al paese per essere avviati alla ricerca scientifica. In qualunque campo. E invece una miope visione del progresso regala agli industriali dalla manina corta (avari di finanziamenti alla ricerca) i fondi per creare risorse umane che forse, ripeto forse, potrebbero utilizzare in futuro. Dico forse perché ci siamo già passati. Il Pastis di Brindisi era stato concepito per sostenere (con denaro pubblico) la ricerca tecnologica da mettere al servizio dell’industria (privata). E’ fallito. Il mondo produttivo non lo ha saputo valorizzare. E corriamo il rischio che questi dottori di ricerca non trovino impiego per produrre nuova conoscenza tecnologica, attraverso la ricerca, ma siano utilizzati per la produzione di cose “inventate” da altri, altrove. Continuando la tradizione di disinteresse per la ricerca da parte del mondo privato nel nostro paese. Il sud potrebbe essere il centro del pensiero che evolve e che supporta culturalmente l’azione. Il nostro Paese ha abbandonato la ricerca di base e sta rapidamente declinando anche per drammatiche carenze culturali. La ricostruzione del Paese passa dalla cultura e il sud ha la giusta vocazione per diventare la fabbrica della cultura del paese. E invece continuiamo a fare gli stessi errori del passato, immemori dei fallimenti continuiamo a perseverare, diabolicamente. Proprio come i milioni destinati all’edilizia universitaria, che sarebbe stato “un peccato” perdere, questi dottorati possono avere solo finalità applicativa. La scienza di base non è prevista. E quindi li faremo, come abbiamo fatto edifici per cui ora non abbiamo risorse per gestione e capitale umano, visto che il personale universitario diminuisce. E, ancora una volta, si avverte la carenza di visione politica. Se i soldi arrivavano solo per bandire appalti edilizi, e ora arrivano solo per dottorati a vocazione industriale, significa che qualcuno ha scelto di destinarli a questo. I politici servono a dare linee di sviluppo, e pare sappiano solo ripetere gli stessi errori, con una esemplare e pervicace vocazione al fallimento.

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La rotatoria più grande del mondo

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 18 settembre 2016]

Leggo delle vicissitudini relative alla costruzione della strada a scorrimento veloce che dovrà collegare Maglie a Leuca, la 275. Giustamente il Quotidiano richiama all’Odissea per definire la vicenda. Ricorsi a Tribunali, sentenze, impugnazioni. Non sono competente di procedure amministrative, ma mi capita spesso di usare la strada attuale. E non è adeguata. La prima cosa che mi sorprende ogni volta che la faccio è il passaggio all’interno di paesi, con imbuti viari che rallentano la percorrenza e  che deteriorano la vita di chi vive nei paesi attraversati. Troverei più che logico costruire le circonvallazioni. Le rotonde hanno eliminato molte cause di morte legate al non rispetto degli stop agli incroci. Ma tra Tricase e Miggiano, proprio nell’area della 275, è stata costruita una rotatoria che si dice sia la più grande del mondo. Forse qualche pazzo ne ha costruita una ancora più grande, ma comunque le dimensioni sono imponenti. L’architetto Mininanni ha già scritto della assurdità di alcuni percorsi stradali in Salento e non posso che concordare con lui. Pare che nella parte terminale della 275, prima di arrivare a Leuca, a San Dana, qualcuno proponga una sorta di viadotto, oppure una trincea. Opere che altereranno in modo drammatico il paesaggio di questa parte, bellissima, del Salento.

La mia impressione è che queste strade si facciano perché chi le fa guadagna un sacco di soldi, non perché ce ne sia veramente bisogno. Proprio come avviene, secondo me, anche per i porti turistici. O per l’edilizia universitaria. E per molte altre opere che richiamano sempre alle famose “cattedrali nel deserto”. Anche la Maglie Otranto, sinceramente, mi pare esagerata. L’ho percorsa recentemente, completamente deserta! Penso con orrore a possibili proposte di allargamento a 4 corsie della litoranea Otranto-Leuca. Una delle strade più belle dell’Italia intera. Certo, è stretta. Non c’è spazio per camminare, e non c’è la pista ciclabile. Ma sarebbe folle trasformarla in una strada a scorrimento veloce.

Queste strade devono servire per collegare i vari siti con percorsi che permettano di apprezzare la bellezza del territorio, le chiamerei strade panoramiche. Di questo c’è bisogno, soprattutto per accogliere anche chi vuole muoversi lentamente, come i ciclisti.

La lobby degli asfaltatori-cementificatori è forte e potente. E chiede a gran voce “grandi opere” che sono spesso sovradimensionate rispetto alle reali necessità. Non posso non ricordare due superstrade tra Lecce e Maglie. Poi c’è la superstrada che dovrebbe collegare Lecce con Taranto che è un’incompiuta da decenni. Ne esiste un brandello, che inizia dal nulla e finisce nel nulla. Andare da Lecce a Taranto dai “paesi” è impresa disperata e bisogna per forza passare da Brindisi. Quasi raddoppiando il percorso. Non esiste una linea ferroviaria che unisca le due città. Mentre per arrivare a Leuca da Lecce c’è già una superstrada ionica, che passa da Gallipoli.

La chiave di volta di tutte queste opere è la sostenibilità. Se a farle fossero dei privati, che dovrebbero guadagnare dai pedaggi, le farebbero? Probabilmente no, perché l’utenza non garantirebbe la redditività. Devono essere un servizio alla popolazione, ma devono anche rispettare l’ambiente e il paesaggio. Perché il beneficio non è solo di arrivare in un posto, è anche di avere un bel posto in cui arrivare. Se si deturpa l’area, si perde poi la motivazione per arrivarci.

Credo che sia molto necessario adeguare la 275 alle reali esigenze di traffico e alla vivibilità dei paesi ora attraversati dalla viabilità attuale. Ma tra questo e fare viadotti e gallerie ce ne corre. Queste scelte non si dovrebbero fare a seguito di ricorsi e sentenze, ma a seguito di richieste progettuali precise, che impongano criteri di sostenibilità economica e ambientale.

La sostenibilità è il cardine della crescita economica. Abbiamo per troppo tempo privilegiato la crescita del capitale economico, senza conteggiare l’erosione del capitale naturale. Non è buona economia, perché i costi per rimettere a posto i danni superano i benefici economici ricavati dall’opera. Il trucco è che i benefici sono per i privati, mentre i danni si riparano con soldi pubblici. E, spesso, a riparare i danni sono chiamati proprio quelli che li hanno provocati! Le chiamate progettuali devono essere inflessibili su questo punto. E i progetti devono contenere adeguate stime dei costi ambientali e paesaggistici dell’opera. Lo spiega Francesco in Laudato Sì: “La tecnologia che, legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi, di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri”.

Chi ha autorizzato quella folle rotonda che, ripeto, pare essere la più grande del mondo? Quanto è costata? Nell’area “circondata” dal cerchio pare ci sia spazio per un intero paese. E’ una circonvallazione di un paese che non c’è. Nel mezzo della campagna. I politici devono prendersi la responsabilità delle loro azioni e devono dare indicazioni precise su come usare il territorio che amministrano. Se gli asfaltatori hanno successo, significa che hanno convinto i politici. L’elettorato ha il dovere di chiedere conto di queste scelte.

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Le marine leccesi Bandiera Blu

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 4 ottobre 2016]

E’ nato un comitato per arrivare all’ottenimento della Bandiera Blu per le marine leccesi. Parte da un’iniziativa di Ernesto Mola, lo stesso che, assieme ad altri, chiede di chiudere al traffico il centro storico di Lecce. Utopie, mi direte. Luoghi immaginari dove tutto sia perfetto. L’opposto delle distopie, luoghi immaginari (ma mica tanto) in cui non funziona niente. Ernesto ha chiamato me e Simonetta Fraschetti a parlare della possibilità di lavorare per ottenere la Bandiera Blu alle marine leccesi. Ci siamo visti, assieme ad un gruppo di sognatori, e ci siamo scambiati le nostre idee, e le nostre speranze.

Il lavoro tecnico per soddisfare i requisiti della Bandiera Blu è enorme. Prevede ad esempio che l’80% delle abitazioni sia collegato alla rete fognante. E si chiedono molte cose che, ora, nelle marine non ci sono. Ma molte altre ci sono. Non siamo nel terribile mondo di distopia, e possiamo puntare all’utopia. Riuscire a ottenere quel bollino blu, secondo me, è irrilevante. Lavorare per ottenerlo è importantissimo. Per creare un obiettivo nel lungo termine, che vada oltre il bollino. Ho parlato di Lecce Capitale Europea della Cultura. Ci ho creduto, e ho dato una mano al Sindaco, per il poco che mi è stato chiesto, sostenendo la sua iniziativa. Per me la cosa importante è la tensione verso un obiettivo, poco male se non si vince la medaglia. Chi torna senza medaglie dalle Olimpiadi non smette di allenarsi, di fare progetti per partecipazioni future.

Ecco, il rischio che vedo in questi obiettivi a breve termine è che se non si realizzano si perde entusiasmo, slancio. Ci vuole una strategia a lungo termine, e se questa porta a riconoscimenti bene, altrimenti fa lo stesso, perché sono i fatti di tutti i giorni che fanno capire che la strada è intrapresa, che la direzione è quella, che indietro non si torna.

Cultura e ambiente. Per me non c’è nulla di più importante per la città. Una città che ha chiesto l’Università quando le altre città del Salento chiedevano poli industriali. Certo, la costa è stata devastata dall’abusivismo edilizio, un abusivismo di rapina, orrendo. Frutto di una cultura che “vede” il mare per qualche settimana in estate e poi lo dimentica, fino all’estate successiva. Nel progetto di Lecce Capitale Europea della Cultura c’era una torre marinara. Non voglio commentare. Rimettere a posto le marine, farne luoghi belli da frequentare e facili da raggiungere dovrebbe essere un obiettivo per la città. Perché Lecce dista 10 chilometri dal mare e per le grandi città questa è una distanza intracittadina. La scelta di vivere al mare e di lavorare a Lecce potrebbe essere di molti, se esistesse un contesto abitabile, e se ci fossero collegamenti adeguati. La pista ciclabile sul percorso del depuratore è durata pochissimo. Devastata dai vandali e dall’incuria. Le strade delle marine si allagano. Non esiste una razionalità nel pianificare il rapporto con il mare.

La vedo dura. Ma ora voglio fare un confronto che spero non sia frainteso. Conosco Alex Zanardi e Vittorio Podestà. Hanno vinto l’oro alle Olimpiadi per diversamente abili. Sono partiti da grandi svantaggi e non si sono scoraggiati. Hanno ottenuto risultati che solo pochi “normali” riescono ad ottenere. Certo, non gareggiano contri i campioni con il corpo completo, ma sono più grandi di loro, proprio per la loro incompletezza. Ecco, se paragoniamo le marine Leccesi a Portofino o a Capri, oppure, per restare a casa nostra, a Otranto o a Polignano a Mare, la sconfitta è certa. Forse non diventeranno mai come queste città marinare, perché dietro non hanno una storia, un centro storico costruito nei secoli, ben curato, con una lunga stratificazione di interventi, tutti volti al miglioramento. Questi borghi marinari vivono della gloria del passato, e la perpetuano. Le marine leccesi non hanno un passato glorioso, ma hanno un futuro da costruire. Quel che faremo oggi sarà il patrimonio per chi verrà dopo. E non dobbiamo scoraggiarci se i risultati non arriveranno immediatamente.

Il Salento ha enormi margini di miglioramento. E ha un patrimonio naturale e culturale di grande levatura, una base da cui partire. Gli eventi sono importanti, ma fino a un certo punto. Sono un appassionato della sagra del porco, a Ortelle. Ma mi trovo sgomento di fronte a un fiorire di sagre improvvisate che hanno poco a che vedere con la cultura locale. Oggi bisogna pensare oltre i confini della nostra terra, organizzare festival di scienza, filosofia, letteratura, cinema (c’è il festival del cinema, lo so, ma è triste vedere i cinema che chiudono). Penso a un festival della cultura unificata, dove finalmente si mettano assieme le due culture, la umanistica e la scientifica, e si costruiscano ponti. E poi se non saremo Capitali della Cultura e Bandiere Blu, poco male. Non lo saremo di nome, ma cercheremo di diventarlo di fatto.

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Ancora trivelle

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 31 ottobre 2016]

Tutto sembrava rassicurante: non ci saranno nuove trivellazioni, si tratta solo di rinnovare vecchie concessioni! Così hanno fatto credere a molti, per convincerli a non andare a votare al referendum anti-trivelle. Era una mezza verità. Non si può trivellare entro le dodici miglia, ma oltre sì. E ora si parla di prospezioni petrolifere nei nostri mari. E si faranno con l’air gun, che non è un fucile ad aria compressa ma un sofisticato sistema di rilevamento che deve penetrare in profondità nella crosta terrestre per rivelare la presenza di giacimenti. E’ il suono a penetrare, e quindi l’air gun produce un grandissimo rumore. L’Unione Europea ha emanato la Strategia Marina in cui definisce il Buono Stato Ambientale attraverso undici descrittori. L’undicesimo prescrive che l’introduzione di energia (incluso il rumore sottomarino) non influenzi negativamente gli ecosistemi. Ma come si fa a sapere se li influenza se le conseguenze non vengono studiate? Il rumore sottomarino con ogni probabilità influenza i cetacei. Ma non esistono prove sperimentali di un nesso causa effetto tra air gun e spiaggiamenti di delfini e balene, semplicemente perché non si sono mai fatti esperimenti al riguardo. Il Golfo di Taranto ospita significative popolazioni di cetacei. Le ricerche petrolifere con l’air gun come minimo li disturberanno. Possono andare altrove, si potrebbe dire. Ma stanno lì perché il Golfo è all’apice di un canyon sottomarino che arriva alle massime profondità del Mediterraneo, e su da quel canyon risalgono i nutrienti. I cetacei stanno lì perché il posto è molto ricco, altrove non troveranno le stesse condizioni.

E non ci sono solo balene, in mare. Non sappiamo cosa queste attività possano fare ai coralli bianchi che vivono nelle profondità dei nostri mari. Non sappiamo quasi niente.

Sappiamo che abbiamo firmato accordi per limitare l’uso dei combustibili fossili. E nello stesso tempo perforiamo il nostro mare per estrarli. In più diamo le concessioni a aziende straniere: di chi saranno quei combustibili? Perché non li prendiamo noi, allora?

Ma sarebbe poco saggio prenderli. Ora abbiamo abbastanza gas per gestire la transizione da petrolio e carbone verso le rinnovabili. Lo importiamo da paesi instabili politicamente, ma per il momento ce lo vendono a prezzi competitivi, e lo saranno ancora di più con il terzo gasdotto che, si spera, eliminerà il carbone e le polveri sottili se sarà utilizzato per le centrali. Le nostre riserve hanno valore strategico, nel caso ci chiudano i rubinetti. E’ una follia esaurirle, ed è strano che le concessioni e i permessi siano richiesti da aziende straniere.

E’ una politica schizofrenica. Da una parte si chiede di transitare alle rinnovabili e dall’altra si perfora il fondo marino per estrarre combustibili fossili. La natura sequestra il carbonio nei depositi fossili. Ci vogliono milioni di anni perché questo servizio ecosistemico si realizzi, e noi che facciamo? Estraiamo quel carbonio e lo bruciamo. Il risultato è che aumenta l’anidride carbonica nell’atmosfera, e aumenta il riscaldamento globale.

Come mai si stanno dando queste concessioni? E’ chiaro che sono una follia. Vanno contro la Strategia Marina dell’Unione Europea che chiede che non si immettano rumori in mare. Non convengono strategicamente perché esauriscono risorse che ci potrebbero servire in momenti critici. Non convengono economicamente perché i vantaggi li avranno aziende straniere.

Quali motivazioni stanno dietro a queste decisioni? Forse io non capisco molto di strategie economiche e mi piacerebbe che qualcuno me lo spiegasse. Però un pochino di ambiente capisco e so che non è saggio distruggere il capitale naturale per aumentare il capitale economico. Alla fine si pagano costi (anche economici) che sono ben maggiori dei benefici. Come al solito, però, i benefici vanno ai privati e i costi sono a carico del pubblico.

Se vogliono approvazione, i politici che hanno effettuato questa scelta ce la devono spiegare un po’ meglio. Altrimenti diventa legittimo il pensiero che si voglia favorire la lobby dei petrolieri. Come si potrebbe sospettare un atteggiamento in favore di quella dei banchieri che fottono i risparmiatori. O un atteggiamento in favore della lobby dei costruttori, quando si pianificano spese faraoniche in giochi olimpici e, quando questi vengono bocciati, si ricomincia a parlare di ponte sullo stretto di Messina. Tutte cose che danno lavoro, non lo metto in dubbio, ma non potremmo una volta tanto usare i soldi pubblici per risanare il nostro territorio, invece di svenderlo e di continuare a devastarlo? Ma, ripeto, forse non sono abbastanza intelligente a capire la logica di queste scelte. Spero proprio che i responsabili di tutto questo riescano a farcelo capire. Perché questo non è sviluppo economico, è devastazione del capitale naturale. Chi pagherà il conto di politiche dissennate? Stiamo già pagando il conto delle politiche dissennate del passato, potremmo non continuare sulla stessa strada?

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I porti e i pontili deserti

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’ 11 novembre 2016]

La stagione nautica, come quella balneare, è finita e la Soprintendenza archeologica chiede di togliere le banchine galleggianti dal porto di Otranto. Il Quotidiano mostra fotografie di pontili deserti. Di barche si riparlerà l’anno prossimo, al ritorno dell’estate. Togliere le banchine costa, e quindi è meglio lasciarle lì. Questa storia indica una cosa: l’uso di queste infrastrutture non è intenso. È intensissimo per uno o due, magari tre, mesi all’anno e poi tanto vale toglierle, perché non va più nessuno. I pochi che vanno a mare possono usare le banchine normali.

Mi chiedo: ma vale davvero la pena costruire porti di questo tipo, per un utilizzo così scarso? Otranto, poi, ha ottenuto di effettuare un raddoppio del proprio porto, sempre per far fronte a richieste di approdi in quel corto periodo. È presumibile che per il resto dell’anno l’infrastruttura resterà vuota. Magari i fondi sono pubblici, e quindi è una pacchia spenderli. Siamo il paese delle cattedrali nel deserto, costruite perché “ci sono i soldi” e poi abbandonate per scarso utilizzo e assenza di manutenzione. Il guadagno c’è nel costruire l’infrastruttura, non nel gestirla. Un privato non investirebbe mai i propri soldi per costruire una cattedrale nel deserto. Il privato vince l’appalto pubblico, usa i soldi pubblici, deturpa il territorio pubblico, e poi lascia al pubblico l’onere di fare qualcosa con la struttura. E poi è passata la percezione che “pubblico” sia male e “privato” sia bene. Il pubblico viene saccheggiato dai privati. Dovrebbe essere ovvio che la soluzione non è di darlo in mano ai privati, ma di farlo funzionare bene.

Se, dall’analisi costi-benefici, vien fuori che per avere quelle banchine si devono spendere più soldi di quelli che si guadagnano a gestirle nel rispetto delle norme, allora quelle banchine non si dovevano costruire. Perché, invece, si sono costruite? Perché l’analisi costi benefici non è stata fatta, oppure non si sono considerati i costi inerenti al rispetto delle norme.

Da una parte Otranto vuole raddoppiare il suo porto, dall’altra vuole fare un’Area Marina Protetta. Moglie ubriaca e botte piena. Forse sarebbe bene riflettere un po’ più approfonditamente sulle vocazioni del territorio, su cosa lo valorizzi. I porti della Liguria sono stracolmi di barche, estate e inverno, e le barche sono usate intensamente dai diportisti. La strategia deve essere di usare al massimo le infrastrutture che si hanno, adeguandole alle potenzialità d’uso. Un uso intensissimo in un periodo brevissimo e poi l’abbandono non rappresentano un uso ottimale delle risorse infrastrutturali e ambientali. Perché quel porto avrà un impatto, e bisogna capire se il costo viene ripagato dal beneficio. Siamo sicuri che si tratti di scelte sagge? Forse, prima di allargare i porti, bisognerebbe cercare di destagionalizzare maggiormente le utenze, se questo è possibile. I porti della Liguria servono il Piemonte e la Lombardia, oltre che la Liguria, e il bacino di utenza è enorme. In tutti i fine settimana chi ha la barca va sulla costa e la usa, se il mare è buono. Altrimenti si gode la casa al mare. Il mare d’inverno è una consuetudine radicata. Ma non in Salento.

Le coste ora sono un deserto. Per un certo tipo di turismo quel deserto vale oro. Invece vogliamo costruire superstrade (come la Maglie Otranto, o la 275), porti, villaggi turistici e complessi abitativi costieri che, invariabilmente, sono deserti per gran parte dell’anno. Chi lo vuole fare con i propri soldi, rispettando le leggi, è benvenuto, direi. Ma non con i soldi pubblici. E se tali costruzioni sono lasciate all’abbandono bisognerebbe varare una legge che ne permetta la requisizione. Perché una bella casa, costruita bene, in modo rispettoso dell’ambiente e del paesaggio può anche arricchire la percezione della natura, ma un’abitazione orrenda, costruita male, in disarmonia con il territorio circostante, e lasciata all’abbandono viola l’articolo 9 della Costituzione, quello che tutela il paesaggio e il patrimonio culturale. Andrebbe demolita. In ogni comune bisognerebbe dire al sindaco: bravo, vuoi costruire ancora? Allora trovami le costruzioni da demolire. Scommettiamo che sono a migliaia in quasi tutti i comuni? Potrai costruire ancora quando avrai rimediato agli orrori che le amministrazioni precedenti hanno permesso.

Perché i centri storici sono tutti belli, e le periferie sono tutte orrende? Come mai contadini e pescatori analfabeti ci hanno regalato borghi stupendi, e poi i laureati hanno distrutto la bellezza con le recenti periferie? O con miriadi di porti inutili? Perché si continua a perseverare in questo errore strategico? Il motivo è semplice: si chiama “sacco della cosa pubblica e del territorio”. È lo sport preferito in Italia.

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Un’area marina protetta da Otranto a Leuca, finalmente!

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 16 novembre 2016]

Non ci sono parchi nazionali terrestri, in Salento. La natura è stata modificata in modo radicale e gli ambienti non toccati dall’uomo sono rari. Il Salento, con i muri a secco, gli olivi, i paesi storici, è un immenso parco paesaggistico, altra cosa rispetto a un parco naturale. Questo discorso non vale per il mare: le aree marine protette sono parchi nazionali, e in Salento ce ne sono già due, uno a Porto Cesareo e l’altro a Torre Guaceto. I 50 chilometri di costa rocciosa da Otranto a Santa Maria di Leuca sono quanto di meglio si possa cercare lungo gli 8.500 chilometri di costa italiana ed era ora che si arrivasse a decidere di riconoscerne il valore per l’intero paese. Sott’acqua ci sono ambienti ineguagliabili, come le grotte marine e, soprattutto, costruzioni che sembrano rocciose ma che sono state costruite da organismi: il coralligeno, le biostalattiti scoperte dal prof. Belmonte, il marciapiede di alghe coralline subito sotto il pelo dell’acqua e, in profondità, i coralli bianchi. La costa, poi, è in gran parte selvaggia e già parco regionale.

Un sistema costiero costellato di paesini che hanno poi corrispondenti più grandi subito nell’interno. Con Otranto (tutt’altro che un paesino) ad un capo e Santa Maria di Leuca dall’altro. Cinquanta chilometri di costa che rappresentano un vero tesoro naturalistico e paesaggistico.

Ho assistito all’istituzione dell’Area Marina Protetta di Porto Cesareo, tanti anni fa, e, assieme a Cosimo Durante, ho rischiato il linciaggio da parte dei pescatori che vedevano solo divieti. Oggi, i pescatori sono i più grandi alleati dell’Area Protetta. Conosco la realtà di molte aree marine protette italiane: alcune sono gestite benissimo, come Porto Cesareo e Torre Guaceto, altre sono gestite in modo clientelare. Qualche sindaco “potente” piazza qualche fedelissimo (magari un parente) e fa trionfare l’incompetenza e l’affarismo. Chi viene beneficiato dalle ruberie è contento, gli altri no. Inutile dire che la protezione va a farsi benedire. E poi si dice che le aree protette non funzionano.

Il futuro di questa, che io auspico con tutto il cuore, dipenderà dall’accortezza dei sindaci dei comuni costieri che, insieme, dovranno gestire una realtà molto complessa. Alcuni sono entusiasti e promotori, come i sindaci di Otranto e Tricase, altri sono più dubbiosi.

Se le aree marine protette sono imposte dall’alto, è necessario che gli effetti positivi si vedano, prima che si cambi parere. Se non si vedono, il fallimento è certo. Il consenso di gran parte delle popolazioni residenti è un requisito essenziale per il successo di un’area marina protetta.

Consiglio le comunità locali del tratto di costa Otranto-Santa Maria di Leuca di rivolgersi, attraverso le rispettive amministrazioni, Pro Loco e quant’altro ai corrispettivi organismi che operano in zone già protette, per avere contezza degli svantaggi e dei vantaggi.

Lo svantaggio, se così si può chiamare, è uno: la protezione dovrebbe arrestare gli arbitri che hanno devastato e che potrebbero devastare gli ambienti naturali. Le devastazioni portano qualche vantaggio iniziale ma un territorio deturpato da interventi scellerati perde di attrattività e si avvia al rapido declino. Il patrimonio più grande di questo tratto di costa è che sono ancora estesi i posti dove non c’è “niente”. E “niente” è un valore grandissimo. Certo, probabilmente non attira i ricconi pacchiani alla Briatore, ma attira un turismo rispettoso dell’ambiente, destagionalizzato, culturalmente preparato ad apprezzare quel che il territorio ha da offrire e, cosa non da poco, disposto a spendere. Le strutture sono nell’interno, sono i paesi bellissimi a poca distanza dal mare, o sono discreti agglomerati di abitazioni spesso di ottima qualità. Direi un posto perfetto.

Manca una cosa. Un sentiero pedonale che permetta di attraversare tutta la costa, da un capo all’altro, rigorosamente a piedi. Penso alle Cinque Terre, alla Via dell’Amore. Anche lì c’è un’area marina protetta e c’è un paesaggio spettacolare lungo una costa rocciosa. Perché non andare a prendere ispirazione, a vedere cosa hanno combinato? I turisti ci sono sempre. Vengono dall’altro capo del mondo per camminare su quella strada. Andare a piedi da Otranto a Leuca potrebbe richiedere una settimana, con tappe nei vari borghi interni o costieri. Guardando il paesaggio, magari facendo immersioni per vedere fondali spettacolari. Gustando l’architettura, la cultura e la gastronomia locale, magari seguendo corsi che insegnino come costruire un muro a secco salentino, o le proprietà delle erbe spontanee, o gli ambienti sottomarini e gli organismi che li abitano, il pescaturismo.

Le comunità locali, e i rispettivi sindaci, devono convincersi. Il mio consiglio è di partire con chi ci sta e, nel frattempo, fare in modo che anche gli altri comprendano i vantaggi di avere un parco nazionale nel proprio territorio. Il rischio di conflittualità di campanile è grande. Ricordo con tristezza le contese tra Porto Cesareo e Nardò (che ora continuano con la condotta a mare) e penso con apprensione a un numero di comuni ben maggiore di due che dovrebbero riuscire ad andare d’accordo. Se ci riusciranno, assieme saranno in grado di creare una realtà unica in tutta Italia, se non ci riusciranno resteranno “piccola periferia” per un turismo mordi e fuggi che chiederà sempre di più e poi, dopo aver devastato con inutili opere il patrimonio naturale, rivolgerà la propria attenzione ad altri siti bellissimi, per devastare anche quelli.

In democrazia vince la maggioranza, ma non è detto che la maggioranza abbia ragione. Consiglio a tutti di leggere l’Enciclica Laudato Sì di Francesco, e di meditare profondamente prima di anteporre il guadagno economico a breve termine alla protezione del Creato. Anche perché, nel lungo termine, come predisse Giovanni Paolo II, la Natura si ribellerà a quel che le stiamo facendo, e i costi economici che dovremo pagare saranno ben maggiori dei guadagni immediati. Solo che li pagheranno i nostri figli e nipoti. I pescatori di oggi, che prendono sempre meno pesci, stanno pagando le “pesche miracolose” dei loro padri. Cosa vogliono lasciare ai pescatori di domani?

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La scienza su misura

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 22 novembre 2016]

Paolo Mieli è uno dei più autorevoli giornalisti italiani e scrive per uno dei più autorevoli quotidiani italiani. E’ competente, pacato, con una sottile ironia che rende leggero ogni suo ragionamento. Lo vediamo anche in televisione, ed è un piacere sentire come spiega la storia. Questo pistolotto iniziale dimostra che ho grande stima e fiducia nelle sue opinioni e visioni. Ora dovrei dire, invece: avevo grande fiducia.

Il 16 gennaio scorso scrisse un articolo sul caso Xylella in Puglia e lo intitolò: “Un paese che odia la scienza”. Se scrivete il titolo su un qualunque motore di ricerca lo trovate sul sito del Corriere. Leggetelo. In sintesi dice: gli scienziati dicono che gli olivi del Salento vanno tagliati, e qualcuno osa opporsi al verdetto della scienza, trovando persino consensi. E quindi siamo un paese che odia la scienza. Visto che di mestiere mi occupo di scienza, mi ha fatto piacere vedere che la categoria è difesa a spada tratta da un così autorevole commentatore.

Il 6 novembre sul Corriere Mieli pubblica un articolo intitolato: I dati, i dubbi e gli eccessi del cambiamento climatico. Se lo cercate in rete non trovate il testo originale, una noticina dice che è stato modificato il 7 novembre. Ma il succo è quello: non siamo mica sicuri che il clima stia cambiando per colpa nostra. Ma sì, qualche dato lo dice, ma altri dati no. Chi osa mettere in dubbio queste tesi ambientaliste viene lapidato. E poi chi sono quelli che dicono queste cose? Attori, come Di Caprio e Schwartzenegger, oppure politici come Al Gore, che fa film sull’ambiente dove dice che gli orsi polari muoiono per il riscaldamento globale, mentre era una tempesta ad aver ucciso quei quattro orsi che Gore mostra nel suo film. Insomma, gente poco seria e fanatica, questi ambientalisti. Peccato che Mieli non citi il panel internazionale IPCC costituito da centinaia di scienziati del clima, recentemente insignito del premio Nobel. Quando hanno iniziato a lavorare sui dati del clima hanno detto che era possibile che la colpa fosse nostra, poi han detto che era probabile. Nell’ultimo rapporto non hanno più alcun dubbio: siamo noi. Al congresso della società mondiale di geologia gli studiosi della storia del pianeta, quelli che danno il nome alle ere geologiche (scienziati!) hanno riconosciuto che siamo oramai nell’Antropocene, una nuova era geologica segnata in modo indelebile dalla nostra traccia.

Come mai Mieli in un caso difende a spada tratta gli scienziati che vogliono abbattere gli ulivi e dall’altra non cita gli scienziati che dicono che il clima cambia per colpa nostra? Come mai parla solo di scienziati dubbiosi (che di mestiere non studiano il clima) e di attori dalle incrollabili certezze? Quale potrebbe essere il motivo di questa asimmetria nei confronti della scienza?

E’ lo stesso che spinge il neo presidente Trump a negare che ci siano problemi ambientali? Ma Mieli è una persona colta e raffinata, l’opposto di Trump. Come mai questa convergenza, questo comune sentire? Possibile che Mieli sappia di Di Caprio e Swartzenegger e ignori l’IPCC? E se questo è poco probabile, come mai allora tace sugli scienziati se si tratta di cambiamento climatico? A dir la verità a contestare le tesi di alcuni scienziati che volevano tagliare tutti gli olivi c’erano anche altri scienziati che chiedevano maggiore cautela. E questi non sono stati menzionati. Ci saranno forse motivi psicologici? Tendiamo a cercare conferme di quello di cui siamo già convinti e scartiamo quello che dovrebbe smentire le nostre convinzioni. Lo faccio anche io e il mio mestiere mi impone di fare violenza al mio sentire e di accettare le sconfitte logiche, le smentite ai miei convincimenti. Mi brucia un po’, all’inizio. Ma poi sto bene, perché cambiare idea avendo capito di avere torto mi permette… di avere di nuovo ragione! E si sta meglio con se stessi se si è convinti di avere ragione, piuttosto che aver capito di avere torto e non volerlo ammettere.

Non posso pensare che Mieli sia al soldo di chi vuol tagliare gli olivi, magari per fare speculazioni edilizie o per imporre altre piante di cui già detiene un brevetto. E non credo che sia al soldo di petrolieri e inquinatori che vogliono continuare a distruggere gli ecosistemi planetari per trarre guadagni da attività non sostenibili. Forse lo so cosa lo spinge. La folla che protesta. Sia nel caso degli olivi sia nel caso del cambiamento climatico ci sono “esaltati” che protestano. E questo non sta bene. Gli attori, poi. Ma su! Già noi abbiamo un comico che si permette di scoprire scandali tipo Parmalat, o Cirio, o banche varie (che i seri giornalisti non avevano denunciato), e ora ci si mettono anche loro. E’ impossibile che possano avere ragione. Sono certo che se Mieli invita qualcuno a pranzo lo invita a colazione. Se lo facesse con me, mi presenterei alle otto, per prendere un cappuccino e un cornetto. Gentaglia. Peccato che ora si trova in compagnia di Trump. E il mondo? anche quest’anno siamo nell’anno più caldo di sempre, come lo era stato il 2015, e l’anno precedente. Ogni anno è più caldo dell’anno precedente. Lo dicono anche quei matti che firmano gli accordi sul clima. Ma ora finalmente arriverà Trump e rimetterà le cose a posto, e Mieli sarà in prima fila a battere le mani. Con moderazione.

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La Natura chiede il conto, chi lo paga?

[“Il Secolo XIX” del 26 novembre 2016]

L’articolo 44 della Costituzione dice: “la legge … promuove ed impone la bonifica delle terre”. La bonifica delle terre ha cancellato le paludi, la valvola di sfogo delle inondazioni. In passato, si pensava che fossero un bene, le bonifiche. Come pure si pensava che fossero un bene le centrali nucleari. Risolviamo problemi e ne creiamo altri, e ragioniamo sempre a spanne. L’Italia ha detto due volte no al nucleare. Di pancia. Dopo i disastri di Chernobyl e Fukushima la risposta fu emotiva. Dopo, Giulio Tremonti disse:  «È stata fatta davvero una contabilità del nucleare? Sono stati contabilizzati i costi del decommissioning? Esiste il calcolo del rischio radioattivo? Sappiamo che i benefici ci sono e sono locali, ma i malefici sono generali». Era il 2011. La previsione di Tremonti si sta avverando. Le centrali francesi sono obsolete e devono essere smantellate, ma i costi e le modalità sono un’incognita. Quando le hanno fatte, negli anni settanta, hanno pensato: tra quarant’anni il problema tecnico sarà risolto. Proprio come le bonifiche. I costi economici per affrontare i problemi creati dalle soluzioni sono a carico di chi è venuto dopo.

Anche la semplice economia dei soldi dice che sono stati cattivi affari. Grandi vantaggi a breve termine, enormi svantaggi a lungo termine. Keynes disse che il lungo termine non è molto importante: tanto tra cent’anni saremo tutti morti. E’ stato preso alla lettera (anche se il suo ragionamento era molto meno semplicistico di come appare). E ora abbiamo dissesto idrogeologico, cambiamento climatico, smantellamento delle centrali nucleari, e altre amenità. Le scelte effettuate hanno garantito un allungamento della vita, un miglioramento medio delle condizioni economiche e sociali per grandi fasce che prima erano escluse. Ma il conto sta arrivando, e non possiamo chiedere ulteriori prestiti. Abbiamo dilapidato il capitale naturale per far crescere quello economico, ma il valore, anche economico, del capitale naturale è superiore a quello del capitale economico. Senza aria da respirare non si vive. Le alluvioni non si fermano con i soldi. E i soldi guadagnati non bastano per coprire le spese che derivano da come li abbiamo guadagnati. Questa è cattiva economia. E i problemi creati dalla cattiva economia non possono essere risolti da chi l’ha messa in atto. Chi ha messo in guardia da questi rischi è stato tacciato di essere contro il progresso. Bene, ora sappiamo che non era progresso. Abbiamo vissuto benissimo ma ora siamo nelle mani di uno strozzino implacabile. Si chiama Natura. Rivuole indietro quello che le abbiamo tolto, e gli interessi sono enormi. C’è bisogno di un New Deal, un nuovo patto con la Natura. Abbiamo bisogno di una nuova economia e di una nuova tecnologia. Scienza e tecnologia ci devono servire per risolvere i problemi, ce la possiamo fare. Ma ogni volta ci dobbiamo chiedere: quali problemi porteranno, domani, le soluzioni di oggi? Natta ha vinto il premio Nobel: ha inventato la plastica. Oggi il problema numero uno per la salute degli oceani è la plastica. Non sappiamo come toglierla e sta alterando il funzionamento degli ecosistemi. Allora non lo sapevamo, Natta non ha colpe. Ma oggi lo sappiamo, e non si può più dire che chi pone problemi di sostenibilità “frena il progresso”. Chi mostra le soluzioni senza evidenziare i problemi che genereranno è un truffatore che vende speranze illusorie di progresso. La rotta deve essere cambiata, e sarà un volano economico non indifferente. Le dichiarazioni politiche ci sono: la decarbonizzazione e l’economia circolare sembrano una via obbligata. Però nei nostri mari è previsto che si cerchino altri combustibili fossili. Da una parte diciamo che li dobbiamo abbandonare, però trivelliamo i fondali per estrarne sempre di più. La truffa continua.  Inondazioni, nucleare, clima sono tutte conseguenze di una visione scellerata di progresso. La strada è un’altra.

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