di Antonio Errico
Che cosa dire, dunque. Cosa scrivere. L’istinto è quello di non dire, di non scrivere. Però lo so che tocca a me. Mi hanno detto: tu lo conosci bene. Ma lui lo conoscevano bene tutti. Bastavano pochi minuti per conoscerlo bene. Aveva la trasparenza nel sorriso, la trasparente sincerità della parola, la trasparente lealtà della sua vita. Forse queste espressioni di trasparenza erano il risultato di quella condizione che rappresentava la connotazione della personalità di Piero Manni. La semplicità. Era un uomo semplice come può essere semplice un uomo dalla complessità e dalla profondità elaborate attraverso esperienze esistenziali, politiche, sociali. Era semplice come può esserlo colui che sa bene in che modo va la vita, quali sono le cose che contano e quali quelle che non hanno importanza, quali quelle profonde e quelle superficiali, quali sono le bandiere sotto le quali vale la pena di impegnarsi e di lottare, quali sono le cause giuste e quali sono quelle sbagliate. E sapeva bene, sapeva molto bene, Pierino Manni, che le bandiere da tenere alte, le cause giuste, quelle per le quali vale la pena di lottare, sono quelle che recano come simbolo la fisionomia dell’Altro: dell’altro che comunica, urlando o silenziosamente, un bisogno più forte, un bisogno essenziale.
Intellettuale lucidissimo, disincantato dopo aver vissuto gli incanti di quelle stagioni in cui si supponeva, si sperava di poter raddrizzare tutto quello che andava in giro storto. Con questa configurazione di pensiero, Piero Manni ha fatto l’editore, che non avrebbe fatto mai se non avesse avuto accanto il pensiero razionale, sistematico, organizzato, metodico, critico di quella donna straordinaria che si chiama Anna Grazia D’Oria. Senza di lei avrebbe fatto il politico l’insegnante, lo scrittore, ma non l’editore.