Taranto, l’acciaio e le tre sfere

In effetti le produzioni inquinanti, che danneggiano ambiente e salute, vengono delocalizzate in paesi dove la sfera sociale accetta le minacce alla salute ambientale e umana, sacrificate in nome dell’aumento del capitale economico. Le tre sfere si potrebbero anche chiamare “capitali”: il capitale naturale, il capitale umano, il capitale economico. Spostare produzioni inquinanti dove l’inquinamento è legale sposta solo il problema e, alla fine, gli effetti negativi si ritorcono contro di noi in termini di cambiamento globale. Ma se produciamo l’acciaio in modo sostenibile ecologicamente, viene meno la sostenibilità economica, visto che la merce prodotta contravvenendo alle leggi è più “conveniente”. La produzione “pulita” non conviene. Già, non conviene se il prezzo della distruzione dell’ambiente e delle vite umane non viene pagato da chi produce l’acciaio. Se si monetizzassero i danni (ma quale è il prezzo delle vite umane?) si scoprirebbe che i guadagni economici non bastano a coprire le spese che hanno comportato. Un’economia gestita in questo modo prima o poi collassa. Collassa in termini sociali e ambientali e, alla fine, in termini economici. L’Italia ha bisogno di acciaio per le sue produzioni. E lo compra al prezzo più conveniente. Ma come si calcola questo prezzo? Se il prezzo più conveniente comporta danni irreparabili all’ambiente e alla vita delle persone (di qualunque paese esse siano) allora il prezzo richiesto è troppo basso, la concorrenza si basa sulla contravvenzione alle leggi naturali e sociali. Il prezzo potrebbe essere aumentato, con opportuni dazi, fino a compensare i danni arrecati. Se ogni stato dovesse imporre questi dazi, ecco che ogni sistema produttivo troverebbe conveniente comprare acciaio prodotto in modo ecologicamente e socialmente sostenibile. Invece, per essere competitivi con i nostri concorrenti, abbiamo infranto anche noi le leggi della natura e dell’uomo, obbedendo solo alle leggi di un’economia globalizzata, che contravviene alle leggi naturali e sociali. Noi non possiamo obbligare il rispetto delle leggi naturali e sociali (quelle interne al paese di produzione) nei paesi che producono i beni che ci potrebbero servire. Ma possiamo decidere di non comprare quei beni da chi contravviene a leggi che noi riteniamo non negoziabili in termini sociali e che non sono assolutamente negoziabili in termini naturali. Chi contravviene a leggi naturali e sociali deve essere messo fuori mercato. Con le delocalizzazioni abbiamo invece aggirato queste leggi. Per non parlare dello spostamento dei centri amministrativi in convenienti paradisi fiscali. Lo stato deve emanare leggi che non permettano queste elusioni. 

Produciamo noi il nostro acciaio e facciamolo in modo ecologicamente e socialmente sostenibile. Lo stato deve essere garante del rispetto della legge. E le leggi dello stato (di competenza della sfera sociale) non possono contravvenire alle leggi naturali. L’economia deve adeguare le sue leggi a queste leggi. Se questa scala di priorità venisse attuata a livello europeo, con la messa fuorilegge di beni prodotti in modo illegale, potremmo organizzare un’economia sostenibile. Il principio guida è semplice: se una merce viene prodotta infrangendo le leggi di un paese compratore, allora non può essere venduta in quel paese, anche se le leggi del paese produttore permettono quelle modalità di produzione.

[“Buonasera” del 20 maggio 2020, p. 5]

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