Una crescita incontrollata del debito, infatti, può rendere necessari incrementi di tassazione, che, nel disegno tributario vigente, finiscono per gravare soprattutto sui ceti più deboli. L’incremento di tassazione dei salari avrebbe come effetto la caduta dei consumi e, a parità di investimenti privati – la caduta della domanda interna e del tasso di crescita.
Il fondo europeo per la ripresa, di cui si discute in queste settimane, è un’aggiunta alle risorse già messe in campo e dovrebbe aggirarsi fra i 300 e i 500 miliardi di euro. Dovrebbe essere un primo passo – ci si augura – vero uno spazio fiscale europeo con titoli di Stato emessi dall’Eurozona e sostitutivi di quelli dei singoli Paesi. Si ripropone il problema delle contrapposte visioni del funzionamento dell’Unione monetaria europea, con un Nord che spinge verso il consolidamento fiscale e una periferia (i Paesi della sponda mediterranea) che invocano più spesa pubblica.
A ben vedere, la scarsa attenzione per la ricerca scientifica è un topos delle politiche economiche messe in atto in Italia negli ultimi decenni. Si è preferito scommettere non sulla crescita trainata dalle innovazioni, ma sulla crescita trainata da moderazione salariale e conseguente aumento (presunto) delle esportazioni nette. Per questa ragione, l’Italia arriva già in crisi alla crisi sanitaria. Una crisi – quella specifica del Paese – che si trascina da circa venti anni, con una continua caduta del tasso di crescita della produttività del lavoro.
Nel decreto rilancio c’è poco per ribaltare questo circolo vizioso. E c’è da rilevare che non è una novità, dal momento che da molti decenni le politiche economiche messe in atto nel nostro Paese hanno gravemente sottostimato l’impatto che la ricerca scientifica ha sulla crescita economica. Non appare casuale il dato per il quale alla riduzione dei fondi per la ricerca ha sistematicamente fatto seguito una significativa caduta del tasso di crescita della produttività del lavoro.
Scommettere sulla ricerca scientifica significa avere una ‘visione’ di lungo periodo del modello di sviluppo da dare al Paese, evitando di riprodurre gli errori del passato, ovvero di confidare sull’austerità e sulla moderazione salariale per generare crescita.
E’ ampiamente noto, nella letteratura specialistica, che la ricerca deve essere finanziata con soldi pubblici dal momento che i suoi effetti sono incerti e di lungo periodo: non a caso, soprattutto in Italia e ancora più nel Mezzogiorno, la quota spesa dal settore privato per ricerca e sviluppo è inferiore all’1% del totale delle spese sostenute.
In tal senso, il decreto rilancio avrebbe potuto segnare una sostanziale discontinuità rispetto al passato, con maggiore dotazione di innovazioni: più spesa pubblica nel settore della ricerca (anche) per la crescita della domanda interna e, nel lungo periodo, per la crescita della produttività del lavoro.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 21 maggio 2020]