“Nelle biblioteche polacche ci sono almeno tre copie del libro di Agostino Donio […], due a Cracovia e una a Wrocław. L’esemplare di Wrocław possiede una dedica autografa del Donio al medico del re, un certo Buccella e sopra, sullo stesso frontespizio, c’è una osservazione autografa di un anonimo sul fatto che Buccella e Simone Simonio di Lucca erano nemici (come medici concorrenti), ma quando capirono che per il loro posto c’era un terzo pretendente […] agirono insieme per impedirglielo […].
“Lei certamente conosce il saggio di Cantimori su Simone Simoni da Lucca. Qualche tempo fa ho pubblicato la traduzione polacca del libello di M[arcello] S[quarcialupi]: Simonis Simonii Lucensis primum Romani, tum Calviniani, deinde Lutherani, denuo Romani, semper autem Athei summa religio, Cracoviae 1588, con la mia introduzione” (“Euhemer”, 1965, nr. 4/47)
A questa mia lettera devo aggiungere che a Simone Simoni ho dedicato un capitolo del mio libro “Wykłady o krytyce religii w Polsce” (Lezioni sulla critica della religione in Polonia), Warzawa 1965, pagg. 46-48) ed ho riprodotto il frontespizio di questo curioso libello, altro esempio della spietata lotta di concorrenza fra gli esuli italiani nella Polonia cinquecentesca.
Per la maggioranza dei Polacchi Doni fu lo “straniero” e l’ “eretico”. Solo pochissimi, che appartenevano alla sopranazionale e soprareligiosa “repubblica letteraria”, sono stati capaci di scorgere, apprezzare ed ammirare la sua u n i c i t à intellettuale. Di questi pochissimi conosciamo solo il nome (o piuttosto lo pseudonimo umanista) di un vecchio Catone Oreste “del quale non sappiamo nulla” (pag. 31).
Chi conosce la vita di Giulio Cesare Vanini sa bene che la Chiesa Cattolica controllava ogni passo degli eretici e liberi pensatori scappati dall’Inquisizione all’estero. Anche Agostino Doni fu sempre sottoposto a stretta sorveglianza” (pag. 29).
Lo sapeva pure lo stesso Doni, il quale, nella lettera scritta da Francoforte il 17 settembre del 1581 a Teodoro Zwinger, osserva: “io non ho trovato nessun albergo e nessuna cittadina in cui non ci fossero degli uomini che si occupavano di me” (pag. 29).
In Polonia il compito di sorvegliare Agostino Doni fu imposto al supremo rappresentante del Papato, cioè al nunzio dell’epoca, monsignor Alberto Bolognetti, che inviava sistematicamente i rapporti alla Segreteria di Stato a Roma su ogni eretico. In uno di questi rapporti, scritto verso la fine del 1583, troviamo l’ultima notizia sulla sua vita.
Non potendo ricevere né il posto a corte reale né l’incarico all’Università di Cracovia e non avendo i mezzi finanziari per vivere, Doni, “moralmente distrutto”, “entrò nel seno della Chiesa cattolica” e fu accolto “al servizio del vescovo di Cracovia, Piotr Myszkowski (c. 1510-1591). Si può aggiungere che questo vescovo fu protettore del grande poeta polacco Jan Kochanowski (1530-1584).
Per lo storico della filosofia ci sono tre “presenze” di Doni da investigare: vita, opere, vita delle opere. La prima, cioè la ricostruzione della sua vita, è più che modesta. Pochissime informazioni sicure e solo su tre anni della sua vita, dal 1580 al 1583, vita di un eretico, carcerato, costretto ad espatriare e alla fine distrutto. Dopo una tale vita Doni morì, ma – come De Franco giustamente sostiene – “non è morto del tutto”, perché “ci resta il frutto cospicuo del suo ingegno, il De Natura Hominis” (pag. 33).
Il libro nacque in una tipografia di Basilea nell’estate del 1581. Non conosciamo la sua tiratura, ma sappiamo che almeno tre esemplari esistono ancora, tra i quali due con sue dediche autografe ad amici, e dal 1973 – grazie a De Franco – esiste una seconda edizione ed anche una traduzione italiana. Come oggetto ergantropico, il libro contiene in sé una “presenza reale” del suo autore, il quale da quattrocento anni ci aspetta. Vale la pena ripetere: ci aspetta!
La “vita eterna” dell’autore nella sua opera è, purtroppo, solo una “vita potenziale” che diviene “vita reale” solo grazie agli incontri, cioè quando è letta (e intesa dai lettori). Bisogna distinguere i “veri incontri” dagli “incontri apparenti”. Il “vero incontro” avviene quando il libro può manifestare la sua forza di incidere sul lettore ed ha la potenza di modificare il suo mondo interno. Lo so dal 1962, dagli studi delle opere latine di Giordano Bruno, il quale ha spiegato che per modificare gli intelletti (per introdurre nelle loro menti nuovi pensieri) non basta una grande forza modificatrice posseduta dallo scrittore, ma è necessaria anche una capacità del lettore di modificarsi, di intendere e accogliere i pensieri dello scrittore, di sviluppare la propria sensibilità, l’intelligenza, l’umanità. Anche la bellezza di un palazzo, di un quadro, di una scultura, di un paesaggio o di una donna non basta per incantare gli uomini se essi non sono capaci di essere incantati da quella bellezza.
In altre parole: oltre ad essere scritto e pubblicato il libro deve trovare un suo lettore destinato ad incontrarsi appunto con questo libro (e in un determinato momento). Anche il lettore, oltre a saper leggere, deve sentire quel libro indirizzato alla propria ragione ed al proprio cuore. Lo sapeva Nicola Vacca, un umanista leccese, il quale una volta mi disse che si scrive un libro per tre o quattro persone, spesso senza la certezza che esse già esistano. Tale fu il caso di Agostino Doni.
[“Presenza taurisanese” a XXXVIII n. 5-6, maggio/giugno 2020, p. 11]