Scritti ecologici. Anno 2015

E’ vero, confermo. E non solo il CERN, tutta la scienza, culturalmente, lavora per la pace. Si potrebbe obiettare che proprio i fisici dovrebbero avere il pudore di tacere, quando si parla di pace. Sono i fisici ad aver inventato la bomba atomica a partire da scoperte fondamentali. Però Gianotti ha ragione. La scienza unisce chi la fa. La comunità scientifica non ha connotazioni nazionali, religiose, politiche e quant’altro. Se viene praticata con onestà intellettuale, la scienza ha un obiettivo unificante: cerca l’ignoranza e poi tenta di ridurla. Ogni riduzione di ignoranza porta a scoprire altra ignoranza e rende attuale il pensiero socratico di chi più sa e più diventa consapevole della propria ignoranza. La ricerca della conoscenza porta ad un sapere unificante, alla vera cultura, quella con la C maiuscola. Tutto il contrario di quel che di solito si pensa. Abbiamo istituito la settimana della cultura scientifica per dare un pochino di dignità anche alla scienza. Per una settimana. Poi la cultura torna ad essere umanistica, e non c’è la settimana della cultura umanistica: le restanti 51 settimane sono sue. Ma se chiedo come sia organizzata la materia vivente, la risposta è una sola: in cellule. Se chiedo cosa la tenga in uno stato di organizzazione, la risposta è una sola: un codice chimico a base di RNA-DNA. Mi risponderà così qualunque persona con un decente bagaglio di conoscenze, indipendentemente dal paese di origine. Ma se chiedo chi sia il più grande poeta di tutti i tempi, un italiano dirà Dante, un inglese dirà Shakespeare, un francese magari citerà Rimbaud. Ma ci viene in mente un poeta rumeno? O della Sierra Leone? Ogni paese ha la sua risposta. E lo stesso vale con tutte le arti. Con la scienza c’è una risposta sola, se la conoscenza è stata acquisita. La scienza è l’elemento unificante della cultura umana. Poi ci sono le peculiarità, le differenze che dividono. Dalla religione alle squadre di calcio, con tutto quello che c’è in mezzo.

Purtroppo, e l’intervista epifanica ci rivela quel che già sappiamo, la nostra cultura non ha molto spazio per la scienza. Chiedere a Gianotti di spiegare in un minuto cosa sia il bosone di Higgs, e far finta di aver capito una spiegazione forzatamente incomprensibile, rivela proprio la poca considerazione che persone molto colte hanno della scienza. Alla fine, Gianotti sembrava quasi il bambino che recita la poesia di Natale, in piedi sulla sedia. Dicci se sei religiosa: sono religiosa! Che brava, vedi? Come lo ha detto bene. E i due intervistatori la guardavano estasiati. Sinceramente estasiati. Anche gli scienziati sono umani, dopotutto. Che bello. E in un minuto ci spiegano quel che fanno. Controllato con il cronometro dal buon Beppe.

Non è colpa dei giornalisti, proprio come Jessica Rabbit sono disegnati così. Gianotti ha fatto il liceo classico. Grandissima soddisfazione. Vedi che è formativo il liceo classico? Poi si diventa scienziati. Confermo, il liceo classico serve, è una base importante. Ma se uno non fa quel che ha fatto Gianotti, DOPO il liceo, la sua ignoranza in campo scientifico rimane abissale. Ci sono le fondamenta ma non c’è la casa. A Gianotti è anche stato chiesto come mai le stelle non ci cascano in testa. Ottima domanda, perché identifica la nostra ignoranza: moltissimi non lo sanno. Moltissimi non sanno che strada fa l’acqua che beviamo e che poi eliminiamo sotto forma di pipì. Renzi vuol mettere mano alla formazione. C’è tanto da fare e speriamo che sia abolita la settimana della cultura scientifica e che alla via scientifica alla conoscenza sia data l’importanza che merita. Non basta un minuto e neppure una settimana.

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Tutti al mare

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 30 gennaio 2015]

Ho vissuto tre anni a Porto Cesareo, nella località Le Dune. In una di quelle case sulla spiaggia. Esci e sei al mare. Un vero paradiso. Credo fosse abusiva, ma questa è un’altra storia (ero in affitto e ancora non sapevo niente dell’uso del territorio lungo le nostre coste). Con sorpresa, mi resi conto che, a partire da settembre, lì non ci andava nessuno. I primi tornarono a Pasqua, per aprire le case, ma poi scomparvero di nuovo. Per ricomparire tutti assieme a metà luglio e rimanere sino a metà agosto, o poco più. In piena estate, la quantità di persone su quella spiaggia diventava intollerabile. Passata l’estate: un paradiso. Insomma, per i salentini, sembrava che il mare esistesse solo un mese all’anno e che poi se ne dimenticassero.

Erano gli anni ottanta. Ora leggo che i balneari chiedono di poter prolungare la stagione sino ad ottobre. E sento molti amici che sono entusiasti del mare d’inverno. Piano piano le cose cambiano. Allentare la pressione sul mare in quel solo maledetto mese, e goderne invece per tutto il resto dell’anno è sintomo di amore per il mare, per la bellezza del proprio territorio. Aver costruito tutte quelle case per poi abbandonarle a se stesse per gran parte dell’anno non è una buona cosa, credo. Neppure per il patrimonio immobiliare. Non parliamo dell’ambiente devastato. Avere una casa al mare e non usarla come si fa in molti altri posti d’Italia è uno spreco di risorse, e di bellezza. Se abbiamo liberalizzato le aperture dei negozi, perché non liberalizzare le aperture degli stabilimenti balneari?

I balneari, se fanno bene il loro mestiere, e non cementificano le spiagge, sono i primi custodi del litorale. Se le infrastrutture sono aperte, si può andare al mare non solo per fare il bagno. Anche se un mio amico (uno di quelli via computer) sfotte tutti facendo vedere che lui fa il bagno tutti i giorni, a Marina di Novaglie (che invidia). Passeggiare sulle nostre spiagge è bellissimo. Guardare le mareggiate è entusiasmante. Mettersi in costume e prendere il sole, cercando la mantagnata (i posti al riparo) rende euforici. E, in certe condizioni, ci può scappare anche un bagno (veloce) a gennaio. Sono tutte cose che si possono fare, da noi.

Gli “altri”, quelli che hanno la sfortuna di vivere in posti grigi, nebbiosi e tristi, pensano con invidia a chi, come noi, ha la possibilità di andare al mare ogni volta che può (se vuole). Non ci sono posti, in Salento, che distino più di una decina di chilometri dal mare. Un percorso urbano, in una città di grandi dimensioni. E poi, il nostro territorio ci permette di andare su diversi versanti, e trovare sempre posti con mare calmo, se ci piace calmo, o posti con mare mosso, se ci sono le condizioni per le mareggiate. Respirare il mare durante una mareggiata è come guardare un bel tramonto. Non stanca mai.

Penso che i balneari vadano assecondati nelle loro richieste. Il loro lavoro aiuta il progresso culturale per quel che riguarda i rapporti con il mare. Devono essere aiutati a smantellare alcuni orrori che hanno costruito. Ci deve essere una sorta di soprintendenza balneare che metta regole su come gli impianti debbano essere costruiti e gestiti. Forse c’è, ma l’eclettismo degli impianti non lo dà molto a vedere. Ci devono essere norme sulla responsabilità della pulizia della spiaggia e anche sugli accessi al mare. Penso che la costa debba restare pubblica, ma possiamo pensare che la sua custodia possa essere affidata ai privati, con certe regole.

La nostra costa è un patrimonio di bellezza che non ha grandi paragoni nel resto d’Italia. Ci sono falesie strapiombanti, piene di grotte marine, e ci sono spiagge gialle, con dune altissime. Ci sono coste rocciose basse, piene di insenature e piccole spiagge, laghi costieri. E ci sono fondali magnifici. Questo patrimonio deve “fruttare” tutto l’anno. E deve essere custodito con amore, rispettato. In quegli anni ottanta a Porto Cesareo i salentini mangiavano datteri di mare. E per prenderli stavano distruggendo tutti i loro fondali rocciosi. Oggi solo pochi semianalfabeti continuano questa pratica, ma gran parte della popolazione ha capito. Dal capire che non si deve distruggere il patrimonio naturale marino (e lì ci siamo arrivati) a capire che la bellezza di questo patrimonio va fruita tutto l’anno, in tutte le sue sfaccettature (e ci stiamo arrivando) il passo non è breve. E’ un grande passo. E il Salento lo sta facendo. Concedetemi un pochino di orgoglio nel dire che l’Università del Salento ha dato un piccolo (ma significativo) contributo a creare questo cambiamento culturale.

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E il mare?

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 9 febbraio 2015]

Sono nell’hangar di Bicocca, a uno dei quaranta e più tavoli dove, in vista di EXPO 2015 si lavora per redigere la carta di Milano. Ha parlato il Papa, e noi, nel nostro piccolo, stiamo cercando di fare tesoro del suo messaggio. Il “mio” tavolo si chiama Mare Magnum, e tratta del mare e degli oceani. Poi ci sono altri quaranta tavoli dove il mare non c’è. Trovo amici, in un tavolo vicino. Il tavolo biodiversità. Chi c’è che parla di biodiversità marina? chiedo. Eh, ma voi avete il vostro tavolo sul mare. Ah. Quindi solo biodiversità terrestre. Poi c’è il tavolo agricoltura. Anche lì c’è un amico. E la parte mare chi la fa? chiedo anche a lui. Mare? Sì, mare. L’agricoltura è la produzione di cibo, e c’è la pesca, c’è l’acquacoltura, no? Ah, vabbè, ma c’è il tavolo del mare. Ah, quindi parliamo solo di terra. Noi, una decina, dobbiamo affrontare i problemi del mare. Poi ci sono quattrocento persone che si occupano della terra. Peccato che il nostro pianeta sia coperto per il 70% dal mare, peccato che l’ossigeno venga in gran parte da lì, e che l’anidride carbonica sia assorbita proprio dal mare, che il mare sia il regolatore del clima. Peccato che tutto quello che facciamo, prima o poi, finisca in mare.

Ma, apparentemente, per un paese con quasi ottomila chilometri di mare, il mare sia giusto una spiaggia su cui giocare a racchettoni e prendere la tintarella.

Ci proveremo, ma la fatica è improba.

Il Papa, intanto, ricorda la differenza tra urgenze e priorità. Per affrontare le urgenze (dobbiamo dare da mangiare a miliardi di persone) stiamo perdendo di vista le priorità (dobbiamo salvaguardare il creato, come lo chiama Francesco). Non ci può essere sviluppo se il capitale naturale viene distrutto in nome del capitale economico, della crescita economica e finanziaria.

Stiamo mettendo assieme i principi, ma ci daranno retta? I pescatori sono gli ultimi cacciatori, sono loro le spie della salute dei mari. Fin quando ci saranno pescatori, la natura sarà in buono stato. Quando saremo passati all’acquacoltura avremo fatto al mare quel che abbiamo fatto alla terra, dove nessuna popolazione naturale è più in grado di fornirci risorse. La Natura viene spremuta con l’agricoltura. In mare no, la natura ancora ci dà i suoi beni. Ma non per molto ancora, se non rispetteremo le sue caratteristiche, i suoi ritmi. Questo lo possiamo fare solo con la conoscenza. Non si può rispettare quel che non si conosce. Nessuno sa che i principali produttori di nuova materia organica, con la fotosintesi, sono organismi microscopici (il fitoplancton) e che i principali brucatori sono i copepodi (ma chi li ha mai sentiti nominare? sono solo gli animali funzionalmente più importanti del pianeta). Questa profondissima ignoranza si traduce in mancato rispetto per la natura nella sua componente principale: il mare, gli oceani.

E’ impossibile inventare politiche che dovranno essere impiantate in un substrato di ignoranza. La strada è lunga, e l’Unione Europea la chiama “alfabetizzazione marina”. Siamo analfabeti per quel che riguarda l’ambiente e quel poco che crediamo di sapere è limitato agli ambienti terrestri. La regola (il mare) diventa un’eccezione, e l’eccezione (la terra) diventa la regola.

Il che ci porterà a ulteriori disastri dovuti a cattive gestioni, a cattive politiche.

Il nostro tavolo, capitanato da Donatella Bianchi, presidente del WWF Italia, con la presenza del sottosegretario all’Ambiente, l’Onorevole Silvia Velo, cercherà di far sentire la sua voce. Gli argomenti che abbiamo sono forti, fortissimi, sono i più importanti di tutti. Ma ci ascolteranno? Abbiamo sufficiente cultura ambientale per capire il messaggio del Papa, identificando le priorità senza inseguire SOLO le urgenze? Noi diciamo la stessa cosa che predica Francesco, e la diciamo da tanti, tanti troppi anni. Tutti ci danno ragione, riconoscono i principi, ma poi corrono dietro alle urgenze. E il pianeta, anzi no, il Creato, va a farsi benedire. Sempre Francesco ci ha ricordato che Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la Natura mai.

Cosa abbiamo noi da offrire a EXPO? Il Salento è una penisola nella penisola, circondato dal mare, ed è grande produttore di cibo e natura. L’EXPO 2015 è una grande occasione per noi. Giro per l’Hangar per “vedere chi c’è” e trovo molti colleghi di altre Università, ma un solo altro salentino che conosco: il sindaco Perrone.  Lo ritrovo sull’aereo della sera e mi conferma (ma forse abbiamo cercato poco) che gli unici a rappresentare la nostra terra eravamo noi due. Ci dobbiamo impegnare di più, se vogliamo prendere questa occasione di lancio del nostro territorio.

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Anniversari dimenticati, ma sempre attuali: Darwin e Malthus

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 15 febbraio 2015]

Il 12 e 13 febbraio sono passati. Gli eventi più importanti coperti dalla stampa sono i litigi in parlamento, le guerre di religione con relativi massacri, le fughe dalle guerre di religione, con relativi massacri, il festival di Sanremo e altre amenità. Non mi risulta che i media abbiano dato notizia delle (poche) celebrazioni di due ricorrenze. Il 12 febbraio è il compleanno di Darwin, e il 13 febbraio è il compleanno di Malthus. Perché festeggiare questi due tipi? Perché loro e non tanti altri? Malthus (nato nel 1766) era un economista. Teorizzò una cosa molto attuale ancora oggi: disse che la popolazione tende a crescere più rapidamente del tasso di ricostituzione delle risorse che la sostengono e, quindi, preconizzò limiti alla crescita. Malthus fu anche il primo che teorizzò il salario di sussistenza, con la predizione che al di sotto di una certa soglia salariale non si fanno figli e non ci si sposa. Malthus individuò nel controllo della natalità il modo migliore per non arrivare a situazioni estreme, che avrebbero portato a guerre, carestie ed epidemie. Darwin (nato nel 1809), lo sappiamo tutti, è lo scienziato che ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo. L’Origine delle Specie e l’Origine dell’Uomo hanno finalmente dato risposta a quesiti che avevano portato i filosofi non scienziati a lambiccarsi il cervello per secoli. La teoria darwiniana è una teoria scientifica e filosofica, ed è la chiave di volta della ricerca su come funzioni e sia organizzata la materia vivente, inclusi noi stessi. Darwin introdusse il concetto di Selezione Naturale su ispirazione dai lavori di Malthus. La competizione per le risorse porta alla sopravvivenza di chi è più adatto ad acquisirle. La natura funziona così. E richiede molto tempo. A volte può prevalere un adattamento “bellicoso” e si possono trovare giustificazioni darwiniane a comportamenti molto disdicevoli, tipo l’eliminazione (per selezione artificiale) di “razze” considerate inferiori. Ma queste sono distorsioni che possono avvenire nell’applicare il pensiero di qualunque filosofo (o di qualunque divinità).

Malthus e Darwin ci insegnano che siamo parte della natura. Che la natura produce molti beni e ci offre molti servizi, ma questi non sono in quantità infinita, e si riciclano a tassi che non permettono consumi a tassi superiori rispetto al riciclo naturale. Insomma, ci dicono che ci sono limiti naturali e noi, essendo un prodotto della natura, dobbiamo porre limiti alle nostre aspettative di crescita. Se lo avessimo capito non ci sarebbe bisogno di celebrare il 12 e il 13 febbraio, ma purtroppo non lo abbiamo capito. Tutti vogliono crescere. Se ci fermiamo di crescere di numero ci dicono che è male, che la popolazione invecchia. Se l’economia smette di crescere è male, le curve devono sempre andare in su, crescere. Malthus e Darwin ci ricordano che se qualcosa cresce, qualcos’altro decresce. Decresce il patrimonio naturale, decresce il funzionamento degli ecosistemi che ci sostengono e, alla fine, decresce anche la nostra possibilità di cavarcela. Quando le risorse diventano limitate inizia la competizione: guerre, carestie, epidemie. Questo hanno predetto Malthus e Darwin, e questo sta avvenendo. Le aree del mondo dove la crescita demografica è incontrollata sono anche aree di conflitti e di massacri. E i disperati stanno arrivando.

Da noi i giovani disoccupati e sottoccupati non possono farsi una famiglia e fare figli, perché si aspettano di vivere come i loro genitori, e la situazione ora non lo permette più. Abbiamo esagerato, non abbiamo capito le lezioni di Malthus e Darwin e ora ci chiediamo come mai le cose stiano andando come vanno.

Papa Francesco lo sta capendo. Intanto dice che non possiamo far figli come conigli. E quindi ci dice che la natalità deve essere controllata. Lo dice di ritorno dalle Filippine, dove i tassi di crescita demografica sono spaventosi. E parla anche di uso responsabile delle risorse naturali. Ma guarda un po’. Il bello è che i commentatori sono sorpresi da queste novità. In effetti sono quasi novità per un Papa, ma sono le cose che Malthus e Darwin ci dicono da secoli. E noi, zucconi, non vogliamo capire e ci ostiniamo a preconizzare crescite impossibili, invece di costruire un’economia che sia in armonia con la natura e con i bisogni degli umani. Il bello è che questa economia è un fallimento economico. Produce qualche effetto benefico nel breve termine, ma è un disastro nel lungo termine. E il lungo termine sta arrivando. Buon compleanno Charles Robert Darwin, buon compleanno Thomas Robert Malthus, ci siamo dimenticati del vostro anniversario (e delle vostre lezioni). Charles e Thomas ci perdoneranno di sicuro, ma la Natura temo che no, non ci perdonerà di essere così stolidamente stupidi.

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Cultura senza natura, disastro sicuro

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 19 febbraio 2015]

Ho letto con grande interesse l’appassionata difesa del Liceo Classico (e Scientifico) da parte del matematico Giorgio Israel. Io ho fatto lo scientifico, mia moglie e mia figlia il classico. Ci sono tutti i pro di cui parla Israel, ma ci sono anche dei “contro”. Nella scuola disegnata da Croce e Gentile, pur essendoci tante bellissime cose, manca la Natura. Come manca nella nostra Costituzione. Si dimentica che, nella Bibbia, il Creatore affida un solo incarico ad Adamo: dare il nome agli animali. Si dimentica che la nostra cultura nasce con le pitture rupestri, dove sono raffigurati gli animali da cacciare. Maschi cacciatori e femmine raccoglitrici (assieme ai bimbi) devono conoscere la zoologia e la botanica. Da lì abbiamo iniziato a catalogare le cose, a inventare “categorie” molto prima di Kant. La genesi della nostra cultura si sviluppa a partire da queste osservazioni e dalla loro catalogazione. Il ragionamento base costituito da “se”…. “allora” inizia in quel periodo. Se mangio questo frutto mi sento male e allora non ne mangio più. Se mi morde questo animale muoio, e allora me ne tengo alla larga. Ha ragione Israel a parlare di priorità della teoria sulla pratica, citando Einstein. Ma non dimentichiamo che Darwin sviluppò la sua teoria della selezione naturale, seguita da quella sull’origine dell’uomo, in base alle sue esperienze giovanili a bordo del Beagle e alle osservazioni che continuò a fare per tutta la vita. Saper osservare è importantissimo. Tanto quanto declinare a memoria i verbi latini, o imparare le dimostrazioni dei teoremi. Non mi sogno neppure di sminuire l’importanza di queste attività, però una scuola che dia solo questo, con buona pace di Israel, non è una buona scuola. I bambini escono da scuola e non riconoscono gli alberi che incontrano nel tragitto fino a casa. Non conoscono le specie esotiche rispetto a quelle native. Non parliamo di riconoscere gli animali. Non sanno come funziona un ecosistema e la riduzione della complessità a un insieme di piccoli fatti di minore complessità (il riduzionismo della fisica) li porta a non sapere neppure come funziona il loro corpo. Chi esce dal liceo non sa il processo con cui si forma la pipì. Per saperlo deve conoscere l’apparato digerente, quello circolatorio, quello respiratorio, il metabolismo cellulare e l’apparato escretore. Tutti questi apparati e il loro funzionamento sono parte del programma, ma sono in capitoli separati e non vengono mai fatti funzionare tutti assieme. Un fisico, a Che Tempo che Fa, ha detto che la fisica è come l’alta montagna. Si sale, scompare tutto, restano solo le rocce e, da lassù, si vede tutto. Dalle particelle alle galassie (cioè i due estremi dimensionali di organizzazione della materia studiati dalla fisica). Peccato che noi viviamo per tutto quello che sta in mezzo a questi due estremi. E con le nostre scellerate attività stiamo distruggendo la Natura che ci sostiene, mentre il nostro impatto su particelle e galassie è nullo. E particelle e galassie non hanno gran che da offrirci, in termini di beni e servizi.

Sarei un imbecille a dire che questo tipo di studi “non serve”. Ma quanto è stato imbecille togliere l’evoluzione dai programmi della scuola dell’obbligo? E vi assicuro che, anche se è stata reintrodotta, viene insegnata poco e male.

Gli ultimi tre Papi si sono resi conto di queste carenze. Benedetto XVI ha detto esplicitamente che l’ecologia deve diventare oggetto di studio nelle scuole. E non nella caricatura attuale. Giovanni Paolo II ha detto che la Natura si ribellerà a quel che le stiamo facendo. Purtroppo ci troviamo tra i due fuochi di chi rimpiange il bel Liceo dei tempi che furono e chi vuole Informatica, Inglese, e Impresa. Entrambe le visioni sono estratte dalla Natura, su una brulla montagna. E’ questa crassa ignoranza che porta a preconizzare la crescita economica infinita, senza ancora aver capito che i sistemi ecologici che ci sostengono sono finiti, e non ce la fanno più a sostenerci. L’incremento del capitale economico porta all’erosione del capitale naturale. Ma come si fa ad apprezzare la Natura se non fa parte della nostra Cultura? Mi vanno benissimo latino, greco, teoremi, fisica e chimica, anche i nucleotidi del DNA imparati a memoria come il Passero Solitario. Mi va bene l’informatica, l’inglese, persino l’impresa. Ma non mi va bene l’esclusione della Natura, dell’osservazione. Tra parentesi, il Passero Solitario è Monticula solitarius, mentre il Passero è Passer domesticus. Ma lo sapranno quelli che studiano come pappagalli parlanti (Psittacus erithacus) la poesia di Leopardi? Scommettiamo che tutti pensano che parli di un passero domestico che se ne sta solo sulla vetta della torre antica? Le informazioni stipate nei giovani cervelli sono davvero basate su conoscenza? Darwin ha cambiato la nostra visione del mondo e di noi stessi e ha mostrato la pervasività dell’evoluzione. Forse per la nostra scuola è venuto il momento di un po’ di evoluzione ma, proprio come don Abbondio con il coraggio, chi non ha la Natura nella propria cultura mica se la può dare da solo! L’uso delle maiuscole e delle minuscole è intenzionale. Rendiamoci conto che certi percorsi di formazione, infarciti di latinorum, possono originare Fabiole Gianotti ma anche pseudo-intellettuali che parlano in politichese astruso, senza sapere quel che dicono, come fanno quelli che recitano il Passero Solitario pensando che sia un passero domestico.

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Non solo hooligans, è colpa del testosterone

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 22 febbraio 2015]

Siamo tutti scandalizzati: i tifosi di non so quale squadra olandese, nel corso di una visita a Roma in occasione di una partita di calcio, sono scesi in massa e, non avendo di meglio da fare, si sono prima ubriacati e poi hanno cercato la rissa. I tifosi romanisti erano pronti, ma la polizia li ha fermati e poi ha fronteggiato un’orda di giovani maschi ubriachi, in vena di menare le mani. I video li ritraggono mentre orinano sui muri, e poi mentre lanciano bottiglie contro i poliziotti, avanzando e indietreggiando. Hanno devastato Piazza di Spagna, scheggiando la fontana a forma di barca che adorna la base della scalinata di Trinità dei Monti. Un posto magico, uno dei luoghi cittadini più belli del mondo. Il questore, il giorno dopo, ha detto che la polizia si è comportata bene e che non ci sono stati morti, ma solo qualche ferito lieve. Concordo con lui, e esprimo solidarietà ai poliziotti. Ne hanno presi 28, mi pare, di quei neo-vichinghi. Giustamente l’Olanda non ha nessuna intenzione di pagare i danni. Le responsabilità sono individuali: fate pagare i colpevoli, che c’entra l’Olanda? In effetti l’Olanda è uno dei paesi più civili e ordinati d’Europa. Ma gli imbecilli sono dappertutto.

La moglie di Roger Rabbit, la splendida Jessica Rabbit, giustificava le sue sembianze e il suo comportamento con la famosa frase: non sono cattiva… mi disegnano così.

Questi ragazzi non sono cattivi, è il testosterone che li rende così. I giovani maschi della nostra specie sono bellicosi. L’Europa non conosce guerre da più di 70 anni. In molti paesi non c’è neppure più la leva obbligatoria. Le continue guerre del passato trovavano sempre orde di volontari che andavano a combattere per i motivi più vari. Anche oggi, al cinema e nei videogiochi, ci sono continue scene di scontro fisico, di solito tra maschi. Oppure c’è un eroe femmina che è un eroe proprio perché si comporta esattamente come un maschio.

Le femmine sono meno inclini a queste cose. Il motivo è semplice, si chiama testosterone. I giovani maschi ne producono in quantità industriali. E’ l’ormone della mascolinità. In teoria dovrebbe servire per prendere il coraggio a due mani e proporsi a qualche femmina, con l’intento di avere rapporti sessuali con lei. Il sesso serve per far figli e, biologicamente, la voglia di fare sesso ha il fine ultimo della procreazione. Non ha importanza che ce ne rendiamo conto o no, il fine è questo. I maschi competono per il territorio e per le femmine. Proprio come fanno i cani, e molti altri animali. Fanno branco, e si battono con altri branchi.

Queste tendenze un tempo si mitigavano con il servizio militare. Tutti i maschi erano costretti a prestare servizio militare per un anno. La sola cosa che si imparava era la disciplina. E la disciplina serviva per mitigare le bombe testosteroniche. La leggenda diceva che alla mensa i giovani aspiranti eroi venissero calmati col bromuro.

Nei momenti di battaglia, il coraggio veniva aumentato da droghe varie, prima di tutto alcol. Si perde controllo, e si compiono atrocità senza capire veramente quel che si sta facendo.

Gli europei hanno una lunga storia di pace a seguito di una lunghissima sequela di atrocità che non ha pari nella storia. Inutile ricordarle. Ci siamo scrollati di dosso quella storia, ma continuiamo a essere la stessa specie di prima, con gli stessi ormoni, con la stessa etologia.

Ho fatto la leva obbligatoria, in gioventù. Ripensandoci, probabilmente aveva proprio quello scopo: insegnare la disciplina ai maschi giovani, la parte più riottosa della popolazione.

Ogni giorno, in Salento, qualche giovane maschio perde la vita a causa dell’eccessiva velocità. Anche in questo caso la tendenza all’aggressività e a voler dimostrare la propria valenza sono la prima causa di fatalità. Spesso associati all’uso di droghe, incluso l’alcol.

Praticare sport e vivere all’aria aperta, a contatto con la natura, sono il primo modo per combattere la stupidità da testosterone. Un altro modo consiste nell’ avere rapporti con esemplari dell’altro sesso (ma va bene anche se sono dello stesso sesso, il risultato è identico), in modo da soddisfare gli istinti innescati dagli ormoni. Le femmine umane, però, sono molto più sagge dei maschi. Sono attratte dai temerari, questo è vero, ma poi si indirizzano verso individui più rassicuranti. I temerari, frustrati dall’insuccesso con l’altro sesso, si arrabbiano ancora di più. E spaccano tutto. Non è colpa loro, se sono sfigati. Di solito, questi sfigati non hanno molti soldi. Chi pagherà quei danni, allora? Ce li dovremmo tenere in carcere, fin quando qualcuno non pagherà per loro? Gli olandesi non sono mica scemi, e ci dicono: teneteli in galera finché non han pagato. Il bello è che se li teniamo in galera ci costano anche.

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Bocciati in scienza

[“La Stampa” del 7 aprile 2015]

Ogni tanto ci accorgiamo che l’Italia è un grande sostenitore della ricerca. Versiamo il 13% del totale investito in ricerca dai paesi membri dell’Unione Europea. Peccato che i progetti di ricerca presentati da italiani riportino a casa solo poco più dell’8% del totale. Insomma, il 5% che non prendiamo sostiene la ricerca degli altri. In questi giorni il fenomeno è molto commentato.

Sono uno dei troppo pochi italiani che coordinano un progetto europeo, e parlo per esperienza personale. Confezionarlo non è stato facile: le procedure sono molto complesse. Per un ricercatore il muro burocratico è invalicabile. Ci vogliono guide esperte che lo conducano attraverso i meandri di bilanci, mesi uomo, deliverables, milestones, overheads, costi diretti, costi indiretti, DOW, work packages, tasks, diagrammi di Gantt e altre diavolerie. Chiedo scusa per l’inglese, ma molte parole non hanno traduzione e fanno parte del gergo dei progetti. I ricercatori “normali” parlano un inglese che neppure i madrelingua capiscono: l’inglese tecnico. Ma sono analfabeti di inglese burocratico. Molti progetti sono bocciati non per cattiva scienza ma per confezionamento scorretto. I ricercatori sono costretti a cimentarsi in imprese che non li vedono preparati. Senza amministrativi preparatissimi e volenterosi, l’insuccesso è quasi assicurato. Inutile dire che in molte amministrazioni italiche se un documento è in inglese ti chiedono di tradurlo! Le procedure europee sono astruse, ma poi si sommano con le follie burocratiche nostrane. Da noi, una volta vinto un progetto, rispettare le procedure per spendere i soldi è un lavoro più complicato della ricerca stessa.

A monte delle chiamate progettuali esiste, inoltre, una sorta di competizione e di negoziato tra i vari stati per suggerire temi di interesse per la propria comunità scientifica. Ogni stato ha i suoi lobbisti che operano nelle commissioni. I paesi “furbi” prima identificano i loro migliori ricercatori, i temi che trattano, e poi suggeriscono proprio quei temi, ottenendo maggiori probabilità di vincere. Spesso, nelle strategie italiane, chi può suggerire suggerisce i propri temi, o quelli di qualche amico, e poi non vince. Nelle competizioni nazionali è matematico che l’amico del potente vinca, ma in quelle europee no. Non basta essere amici di qualcuno.

Abbiamo fatto la valutazione del sistema della ricerca italiana, sappiamo chi ha le carte in regola per vincere progetti. Dovremmo lavorare per suggerire i temi in cui esprimiamo forti competenze. Ma pensare che debba essere favorito chi più merita, da noi è uno scandalo. Così può capitare che a decidere ci siano persone che hanno ricevuto valutazioni negative o che non sono neppure state valutate. Potranno prendere posizioni che non li avvantaggeranno? Ovviamente il vantaggio di veder proposto il proprio tema svanisce se non si riesce a vincere la competizione con gli altri paesi. E noi non vinciamo.

Ma non basta vincere i progetti e avere i soldi. Dipende anche come sono investiti. Ho visto le tematiche privilegiate nei nuovi piani, sia nazionali sia europei. Riguardano quasi esclusivamente le scienze applicate, mirate a produrre ricchezza e, ovviamente, posti di lavoro. Manca totalmente la ricerca di base. La ricerca e lo sviluppo hanno risvolti esclusivamente tecnologici o medici.

La ricerca di base è, per definizione, la base della scienza. E l’innovazione è per definizione inaspettata: non si prevede, e si ottiene battendo strade inesplorate. Per il semplice gusto di identificare aree di ignoranza e di lavorare per ridurla, senza pensare alle possibili applicazioni, semplicemente per aumentare la conoscenza. L’innovazione che ha portato alle conquiste odierne si basa su elaborazione di conoscenze di base.  Nel nostro paese questa ricerca è stata annichilita e si è pensato solo alla scienza applicata. Il motivo? La scienza non è considerata cultura, e non a caso abbiamo pensato di darle un pochino di dignità istituendo il ghetto della settimana della cultura scientifica. La scienza di base è la base culturale della scienza. E’ quella che distingue la scienza dalla tecnica e, di conseguenza, gli scienziati dai tecnici (con tutto il rispetto per i tecnici).

Dato che le applicazioni tecnologiche derivano dalla scienza applicata, si è pensato bene di investire tutto in quella direzione, considerando la scienza di base un lusso che non ci possiamo permettere.

Come sempre avviene in sistemi complessi, le cause del degrado scientifico del paese sono molteplici. Dietro a tutto sta, comunque, una atavica diffidenza nei confronti della scienza da parte degli “uomini di cultura” che la considerano un’attività di serie B e le chiedono solo di risolvere problemi contingenti. Come se la conoscenza si potesse acquisire per altre strade. Inutile dire che i soldi non bastano per costruire una buona comunità scientifica. Prima ci vuole la cultura.

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La dinamica dei litorali salva l’estate

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 7 aprile 2015]

La disciplina che studia la costa marina si chiama dinamica dei litorali. La parola dinamica dice tutto: la costa non è un’entità statica. La costa cambia, in modo dinamico. Cambiano le coste rocciose, con i crolli che portano alle cadute di massi, e cambiano le coste sabbiose. Lungo la costa, tra un capo e l’altro, si definiscono le celle di sedimentazione. La sabbia rimane all’interno delle celle, ma può essere trasportata da una parte all’altra, a seconda delle mareggiate e dei venti. Le spiagge avanzano, poi arretrano. Ma poi avanzano di nuovo. Questa è la dinamica. Se si costruisce col cemento, e ci si attende che la spiaggia resti dove si trovava quando abbiamo costruito, si va incontro a “disastri” catastrofici. Se ci si adatta alla dinamica, tutto rientra nel gioco della natura. Ora siamo contenti: la sabbia è tornata. E l’ha riportata la furia del mare che prima l’aveva portata via. Le spiagge sono anche piene di foglie di posidonia (che non è un’alga) e speriamo che non venga l’idea di ripulirle. Oppure che si usi quella massa vegetale per il ripascimento delle dune, come già è stato fatto in passato lungo nelle marine leccesi. La posidonia spiaggiata protegge il litorale e le grandi masse di foglie indicano che la prateria sommersa è in buona salute. Tutto bene allora? Quasi. Aumenta a dismisura il problema della spazzatura marina. L’Unione Europea ha emanato una Direttiva in cui identifica undici descrittori di buono stato ambientale. Il descrittore numero dieci è proprio la spazzatura marina. E la costa adriatica salentina è in cattivissime condizioni, per quel che riguarda questo descrittore. In questo caso non è colpa delle amministrazioni locali. Il basso Adriatico è caratterizzato da una corrente parallela alla costa che scende da nord e fluisce verso lo Ionio.

Inoltre la circolazione è spesso caratterizzata da un grande vortice che connette le nostre coste con quelle albanesi. Il risultato è che la spazzatura del nord Adriatico e anche quella della costa orientale del bacino confluiscono sulla nostra costa. Arriva di tutto: grandi alberi, boe, reti, involucri per le cozze, e poi plastica di tutti i tipi, scarpe, vetro, sedili di auto, a volte persino qualche cadavere! Il legno naturale è bellissimo, e fa parte della natura. Non lo considererei spazzatura marina. Ma il resto sì. Le amministrazioni locali sono costrette a sobbarcarsi la spesa della pulizia  dello sporco prodotto da altri. Spesso lo fanno in modo scorretto. I mezzi pesanti mandati sulle spiagge per raccogliere la spazzatura hanno una azione negativa sul litorale e, inoltre, spesso rimuovono sabbia assieme alla spazzatura, favorendo i fenomeni erosivi. E poi non c’è solo la spazzatura sulle spiagge. Molta spazzatura affonda e si accumula sui fondali. Lo sanno bene i pescatori. Va smaltita in modo adeguato e spesso viene rigettata in mare da chi la “pesca”.

Non dico che si tratti di una calamità naturale, però è chiaro che l’onere di pulizia non dovrebbe ricadere sulle amministrazioni locali che, una volta tanto, non sono colpevoli di cattiva gestione. Da ricercatore che si occupa di ambiente, inoltre, una volta tanto mi identifico completamente nella figura dell’operatore ecologico, un neologismo per definire in modo aulico lo spazzino di un tempo. Lo studio della spazzatura marina è di grande attualità. Definirne le tipologie, stabilirne i flussi e le dinamiche, escogitare possibili modi per rimuoverla e anche un possibile utilizzo, e tentare di proporre una legislazione che tuteli le amministrazioni locali rappresenta un tema di ricerca molto innovativo, con tutto un mondo da esplorare.

Prima di essere smaltita, la spazzatura marina dovrebbe essere studiata. E già è stata fatta una tesi di laurea magistrale in Coastal and Marine Biology and Ecology, presso l’Università del Salento. Francesca Licchelli ha studiato la dinamica della spazzatura marina lungo il litorale delle Cesine e ha quantificato i flussi e le tipologie nel corso di un anno. Ma la situazione dei litorali, lo sappiamo bene, è dinamica. Quel che abbiamo verificato nel corso di un anno potrebbe non valere negli anni successivi. E poi, proprio come con le foglie spiaggiate di posidonia, si potrebbe utilizzare la spazzatura marina per ripristinare le dune e difenderle dalle mareggiate. Già ci sono artisti che la raccolgono e la compongono, traendone opere di grande valore. Insomma, il problema potrebbe persino diventare soluzione, magari impegnando i pescatori nelle operazioni di recupero e studio, soprattutto per quel che riguarda la spazzatura sui fondali. In effetti, se il recupero sulle spiagge fosse fatto con le barche, senza uso di mezzi terrestri, si salvaguarderebbe la spiaggia. E artisti e ingegneri costieri potrebbero essere coinvolti nella ideazione di opere di difesa realizzate con la spazzatura marina, in modo esteticamente valido. Sarebbe un’azione pilota da esportare in tutta Europa. E magari verrà il tempo in cui ci si lamenterà perché il mare non porta più la spazzatura “nobile”, quella dei tronchi e del legno in generale, sulle nostre coste! Chissà cosa ne dicono i candidati alle elezioni regionali. Chissà se conoscono gli undici descrittori di buono stato ambientale della Direttiva Marina dell’Unione Europea! Valgono anche da noi, e sono quelli che in futuro qualificheranno il nostro mare agli occhi di tutt’Europa.

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Paesaggio non è natura, cultura non è coltura, ma tutto si unisce nell’olivo

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 1° maggio 2015]

C’è una bella differenza tra natura e paesaggio, ma in Italia non è percepita. Mi fa sorridere il Parco Nazionale delle Cinque Terre. Un posto bellissimo, ma tutto coltivato. I terrazzamenti e le viti a strapiombo sul mare formano un paesaggio unico al mondo, ma non sono motivo sufficiente per istituire un parco naturale. Un parco naturale protegge la natura dalle contaminazioni prodotte dall’uomo, anche quelle a fin di bene. Il paesaggio è un bel giardino, la natura è una foresta vergine: c’è una bella differenza! L’articolo 9 della nostra Costituzione, che salvaguarda il paesaggio ma non la natura, è dimostrazione di carenza culturale. Ci vorrebbero i parchi paesaggistici e i parchi naturali. Gli olivi del Salento sono una delle componenti più nobili del paesaggio italiano, sono una forma di cultura, la cultura di chi li ha piantati secoli e secoli fa e che ancora ci parla attraverso i suoi alberi, i suoi muri a secco: tagliarli significa sradicare una cultura, qualcosa di molto diverso da una semplice coltura. Gli olivi coltivati vivono oltre duemila anni e, quando raggiungono le età e le dimensioni degli olivi del Salento, non sono più alberi, sono monumenti viventi. Al taglio di un albero di seicento anni non si rimedia piantandone un altro, come si potrebbe fare con altri alberi da frutto. Si distrugge la storia. Lo abbiamo già fatto, con le foreste di lecci, e quella era la storia naturale, ora passiamo a distruggere la nostra stessa storia, la nostra cultura.

Il Salento ha attirato molte attenzioni, in questi ultimi anni. E quando si è sotto i riflettori si esaltano le qualità (come il museo Faggiano, finito sulla prima pagina del New York Times) ma anche i problemi. E, oggi, il problema dei problemi si chiama Xylella, un batterio che ha attaccato gli olivi del Salento. Non ci sono molti specialisti di Xylella come patogeno dell’olivo: la sua presenza negli olivi è una novità. Le informazioni e le conoscenze sono poche, e discordanti. Nel dubbio, si fermano tutte le importazioni dal Salento e in Salento, per far vedere che si fa qualcosa, si inizia a sradicare un po’ di alberi.

Non abbiamo mai visto morire un olivo, ho sentito dire da un olivicoltore. E’ una frase che mi ha colpito molto. Gli olivi si possono uccidere, certo, basta sradicarli. Ma non muoiono. Hanno centinaia di anni, continuano a crescere, e non li uccide il fuoco, se si tagliano poi ricrescono. Un patogeno che li uccide è una novità assoluta… non abbiamo mai visto morire un olivo! Non so cosa consigliare, ovviamente. Ma mi impensierisco a vedere quante versioni differenti stiano scaturendo dalla fantasia di tutti quelli che si attribuiscono le competenze di prendersi cura di queste faccende. Posso dire che non mi fido? Ci sono già troppe esperienze pregresse di gente che “ha marciato” sulle emergenze. Ricordate l’influenza aviaria? Abbiamo preparato milioni di dosi di vaccino. Sembrava che dovessero morire decine di migliaia di persone se non si arginava la cosa. Il vaccino è stato prodotto (e pagato con fondi pubblici) ma mai distribuito: la bolla si è presto sgonfiata. Quest’anno l’influenza ha ucciso molte più persone di quante ne abbia ucciso l’aviaria (da noi). Se ne sono andati in molti, e nessuno ha detto niente. Forse non c’era una macchina simile a quella dell’aviaria, pronta per trar vantaggio dalla situazione.

Qualcuno dice che Xylella è stata portata in Salento durante un convegno e poi è fuggita… cose del genere si dicono anche dell’AIDS e di molte altre malattie. Gli untori manzoniani ovviamente spargevano la peste. Si vuol sempre dare la colpa a qualcuno, quando arriva qualche calamità. Ma se nessuno ha mai visto morire un olivo significa che i patogeni che li fanno morire non si erano mai visti.

Tendo a diffidare di chi ha bell’e pronta una soluzione miracolosa. Anche nel mondo scientifico, nelle aree di frontiera, quelle dove ancora la conoscenza non è ben stabilita, si possono fare gravi errori. E chi non ha dubbi e propone i miracoli, anche se è uno scienziato, forse non va preso troppo sul serio. Prima di sradicare migliaia di alberi secolari o addirittura millenari bisogna essere ben certi che sia questa la soluzione. Non credo che ci sia questa certezza. L’eutanasia degli olivi, soprattutto quelli pluricenteneari, è un male. E non siamo certi che sia necessario. Gli olivi del Salento, essendo parte del paesaggio italiano, sono difesi dall’Articolo 9 della Costituzione. Abbatterli è anticostituzionale.

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I potenziali vettori di Xylella vanno eliminati ora

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 5 maggio 2015]

Andando a lezione al centro Ecotekne, la struttura universitaria dove lavoro, devo attraversare dei tratti di campagna: guardo le erbe che rigogliose ornano tutti gli spazi verdi, dove crescono anche molti olivi, e vedo una sputacchina. E poi un’altra, e un’altra ancora, mi guardo attorno e su molte piante c’è la firma inequivocabile della presenza delle neanidi e ninfe di questi insetti. Si tratta di stadi di sviluppo che non sono ancora potenziali vettori di Xylella, ma presto passeranno allo stadio adulto e, presumibilmente, potranno succhiare la linfa di piante malate, infettarsi a loro volta, e poi trasmettere il batterio ad altre piante. La temperatura si sta alzando rapidamente, e magari velocizzerà la crescita degli stadi pre-adulti in stadi adulti. Non sono esperto di entomologia agraria, né tanto meno di fitopatologia, sono uno zoologo. Posso dire che eliminare questi vettori animali con gli insetticidi porterebbe a uccidere anche molti altri insetti, ad esempio le api. Ci sono insetti nocivi e ci sono insetti essenziali per il benessere della vegetazione, come, appunto, le api e gli altri impollinatori. La zoologia è una disciplina chiave anche per le pratiche agricole!

Le pratiche tradizionali di manutenzione della campagna prevedono che queste erbe siano tagliate e, un tempo, i contadini le bruciavano, stando bene attenti a non dar fuoco al resto della vegetazione. Le sputacchine potrebbero ancora sopravvivere al taglio delle erbe su cui crescono, ma non al fuoco. Forse le “buone pratiche” tradizionali potrebbero  arginare e prevenire l’infezione. Ma bisogna metterle in atto ora. E’ ora che le sputacchine si preparano a fare la loro involontaria opera di infezione, come testimonia la semplice osservazione delle campagne. Molte parti di campagna sono state trascurate e le antiche pratiche non sono più attuate su larga scala. E forse anche questa potrebbe essere la causa della presenza di Xylella nei nostri olivi. Le sputacchine ci sono sempre state, ma sempre, in passato, i contadini pulivano le loro campagne, e bruciavano le erbe. I contadini ancora attivi lo stanno facendo nei loro terreni. Ma che si fa nei terreni abbandonati? O negli spazi pubblici? Se, magari per macchinosità procedurali nell’affidamento degli appalti, le erbe saranno tagliate dopo l’emersione degli insetti adulti, sarà troppo tardi. Così, invece di tagliare le erbe su cui crescono le sputacchine, taglieremo gli olivi.  Oppure spargeremo insetticidi dovunque, con effetti negativi su il resto della fauna, dagli insetti “buoni” ai predatori degli insetti “cattivi”.

La  calamità innescata dall’infezione dei nostri olivi sta scatenando la corsa alla proposta di misure di contenimento, molto spesso da parte di personaggi che (come me, del resto) non hanno grande esperienza su questi temi. Siamo di fronte a un fenomeno mai visto prima. E’ normale che non ci siano esperti con una storia di competenze alle spalle. Ed è altrettanto normale che si vada per tentativi. La proposta di pulire le campagne non è nuova, in molti casi si sta mettendo in atto. Ma in molti altri casi no, come ho potuto verificare personalmente oggi. Prima, a quanto mi dicono, era pratica comune. Le sputacchine, lo voglio ripetere, ci sono sempre state, e forse, in uno stadio meno virulento, era presente anche Xylella. Il cambiamento nelle pratiche di manutenzione delle campagne forse è una delle cause (perché ce ne potrebbero essere molte, concomitanti) di questa calamità. Giustamente ci chiedono di contenerla. Magari eradicando gli olivi che formano il paesaggio rurale che caratterizza il Salento. Prima di tagliare un patrimonio culturale e naturale insostituibile (ci vogliono secoli per fare un olivo monumentale) e prima di cospargere di insetticidi i nostri territori, forse varrebbe la pena di cercare di contenere la proliferazione dei vettori. Lo so che si sta facendo, ma forse non basta. Un altro animale, il punteruolo rosso, ha ucciso le palme. Il punteruolo rosso non è un insetto delle nostre parti. La pratica di piantare specie esotiche importate da altri paesi sta introducendo nel nostro territorio organismi che qui di solito non vivono. Assieme alle piante arrivano i patogeni e gli insetti. Insetti che non hanno predatori, e le loro vittime non hanno difese. Dobbiamo usare le nostre specie, non quelle asiatiche o australiane, per far belli i nostri giardini. Non si tratta soltanto di estetica. Queste pratiche stanno minacciando in modo grave il nostro paesaggio e con una maggiore conoscenza della natura certi problemi, forse, sarebbero stati evitati. Non mi sto proponendo come esperto per risolvere il problema Xylella. Ho fatto la mia parte quando si è trattato di trivellazioni per estrarre petrolio dal nostro mare, e ho parlato di argomenti su cui ho qualche competenza, comprovata dalla mia produzione scientifica. In questo caso sto parlando da cittadino che, comunque, qualcosina di natura sa.

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Il degrado trofico dei mari: poi non resterà più nulla per noi

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 19 maggio 2015]

La comunità scientifica denuncia da tempo l’emergenza del degrado trofico del pianeta terra. In che cosa consiste? Gli ecosistemi che realizzano i processi necessari alla nostra sopravvivenza si basano su reti alimentari in cui la materia degli organismi morti viene continuamente riciclata dai batteri e dai funghi, ad essa viene data nuova vita da parte degli organismi fotosintetici (le piante e il fitoplancton) che, a loro volta, sono mangiati dagli erbivori, e poi da predatori di erbivori e da altri predatori di livelli trofici (alimentari) superiori. A terra le reti trofiche sono abbastanza corte (sono rari i carnivori che mangiano altri carnivori) ma negli oceani sono molto lunghe. Un grande squalo mangia pesci di grandi dimensioni che hanno mangiato pesci di medie dimensioni che, a loro volta, hanno mangiato pesci di piccole dimensioni che si sono nutriti di plancton carnivoro o erbivoro. I passaggi sono molti, e complessi. Non si parla di catene alimentari ma di reti.

A terra gli ecosistemi sono oramai compromessi. Con l’agricoltura li abbiamo semplificati oltre ogni limite, concedendo spazio solo alle poche specie che ci interessano direttamente: le specie coltivate e allevate. Ora stiamo facendo la stessa cosa anche al mare. E il segnale più importante è proprio il degrado trofico. Lo sfruttamento delle risorse marine, con la pesca industriale, e la distruzione degli habitat, con moltissime attività distruttive da parte nostra, stanno scardinando questi sistemi e le prime vittime sono i grandi predatori. In alcuni casi li peschiamo attivamente, come avviene per gli squali, decimati per soddisfare il mercato cinese delle pinne. Ma a molti altri togliamo le risorse, adoperando sistemi di pesca sempre più efficienti, e distruggendo gli habitat. Prima tocca agli squali, poi ai tonni e, via via, agli animali di dimensioni decrescenti. I più grandi, le balene, mangiano organismi piccoli, alla base delle reti trofiche. Ma i grandi carnivori stanno scomparendo. E’ un segnale di allarme che ci deve preoccupare moltissimo, perché la salute dell’ambiente è una precondizione per la nostra salute. L’acquacoltura non è una soluzione: alleviamo carnivori e li nutriamo con farina di pesce prodotta a partire da piccoli pesci pescati da popolazioni naturali: alleviamo leoni e li cibiamo con le zebre, poi li mangiamo. Una vera follia.

Sta per iniziare la stagione balneare. E già i cittadini, attraverso la campagna Meteomeduse (http://meteomeduse.focus.it/), e i giornali locali stanno registrando intensa presenza di organismi gelatinosi nei nostri mari. Prima il prevalere delle meduse avveniva episodicamente, ma sono dieci anni e più che gli animali gelatinosi sono dominanti nei mari e negli oceani di tutto il pianeta. Assieme alla scomparsa dei grandi predatori, ecco quindi i gelatinosi. Le meduse mangiano piccoli animali, oppure mangiano i grandi animali quando sono ancora piccoli: uova e larve. Agiscono quindi ai livelli bassi delle reti trofiche. Stanno scomparendo i livelli alti, i grandi predatori, e al loro posto ci sono gli organismi dei livelli bassi, come le meduse. Il degrado trofico rappresenta una semplificazione degli ecosistemi, e li sta riportando alle condizioni di centinaia di milioni di anni fa: 650 milioni di anni fa gli oceani erano dominati dagli organismi gelatinosi. Poi sono arrivati i vertebrati e le reti alimentari sono diventate sempre più complesse. Noi siamo il prodotto di questa complessità. Se la distruggiamo, eliminiamo le premesse per la nostra sopravvivenza.

Il degrado trofico è conseguenza dell’erosione della biodiversità causata dal nostro comportamento dissennato. Fino ad ora abbiamo concentrato la nostra attenzione su singole specie in pericolo, e tutti vogliono salvare le balene, i delfini, le tartarughe e persino gli squali. Ma la vera emergenza non è rappresentata dalla scomparsa di singole specie. E’ la semplificazione degli ecosistemi, evidenziata dal degrado trofico, che ci deve preoccupare. La testimonianza di questo non è solo la scomparsa dei grandi predatori; l’allarme è rinforzato in modo inequivocabile dalla prevalenza dei rappresentanti dei livelli trofici inferiori, come le meduse. Non possiamo vivere in ecosistemi troppo semplici, siamo troppo complicati per far fronte a questi cambi di paradigma, a queste catastrofi verso la semplicità. Il vero progresso consiste nel capire questi messaggi che la natura ci sta lanciando, e agire di conseguenza. Perché la causa di tutto questo siamo proprio noi e, purtroppo, non siamo attrezzati culturalmente per capirlo. Guardiamo il nostro ombelico (il PIL) e non ci accorgiamo che stiamo distruggendo il mondo attorno a noi.

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Biodiversità ignorata

[“La Stampa” del 25 maggio 2015]

Povera biodiversità: venerdì 22 maggio era la giornata mondiale dedicata a lei. Ma non se ne è parlato moltissimo, neppure nella sua giornata! Figuriamoci le altre. Forse il motivo è che le notizie sulla biodiversità sono deprimenti e allarmistiche. A rischio una specie su cinque, si legge da qualche parte. In altri posti trovo che si estinguono tantissime specie, tutti i giorni. Ora vi svelo un segreto: non è vero. O meglio, se sentite queste affermazioni provate a chiedere: ah, dimmene cinque, marine, che si siano estinte negli ultimi 20 anni. Cinque. Non minacciate… dimmi quelle estinte! Vedrete che non ve le sapranno dire. E quindi tutto a posto? Ma no, significa solo che, anche se ne parliamo tantissimo, e sempre con toni catastrofici (le estinzioni di massa), non ne sappiamo gran che. Fino ad ora abbiamo descritto circa due milioni di specie. Tenetevi forte: si calcola che il pianeta ne ospiti otto milioni. Significa che ci sono sei milioni di specie (più o meno: è una stima) che ancora non abbiamo scoperto. E sapete perché non le stiamo scoprendo? Perché lo sforzo (in termini di finanziamento alla ricerca) per rispondere alla domanda “quante specie ci sono sul pianeta?” è minimo. La scienza di base per esplorare la biodiversità è la tassonomia: sta scomparendo dalla comunità scientifica. Da una parte ci sono dichiarazioni altisonanti che denunciano il disastro della biodiversità, dall’altra non spendiamo quasi niente non dico per salvarla, ma almeno per fare l’inventario. Il capitale naturale è fatto dalle specie che, assieme, costituiscono la biodiversità. Come si fa a gestire e salvaguardare ciò che non si conosce? Non si può. Appunto! E quindi, a causa di crassa ignoranza, stiamo dilapidando il capitale naturale. Ora, immaginate il nostro pianeta senza il resto delle specie viventi. Pensate che potremmo viverci? No, non potremmo. Ogni specie che se ne va è una piccola badilata in più nello scavo della nostra fossa. Non riusciremo a distruggere la biodiversità, distruggeremo solo quel tanto che basta per rendere impossibile la nostra sopravvivenza. Il resto andrà avanti. Non riusciamo a far estinguere i batteri patogeni, o gli scarafaggi. Di solito siamo bravissimi a distruggere quello che ci serve di più. Con gli insetticidi abbiamo distrutto (quasi) le popolazioni di insetti nocivi, ma abbiamo anche distrutto gli impollinatori. Il bello è che quelle carogne di insetti nocivi sviluppano resistenza (proprio come i batteri patogeni) mentre le api no. Così vinciamo qualche battaglia contro gli insetti nocivi, ma perdiamo la guerra e, nel frattempo, facciamo fuori gli insetti utili. Ogni mio intervento si conclude sempre nello stesso modo: non siamo preparati culturalmente per comprendere questi argomenti e, nella nostra ignoranza, ci lanciamo allegramente, in nome della crescita economica, verso la catastrofe. Quando si dice: beata ignoranza! Ma poi no, non è vero che non sappiamo. Volete il nome di una specie marina che si è estinta in Mediterraneo? Eccovi serviti: Tricyclusa singularis. Mai sentita, vero? E pensare che è l’unico rappresentante del genere Tricyclusa ed è anche l’unico rappresentante della famiglia Tricyclusidae. Estinta lei, si estinguono anche un genere e una famiglia! Non sappiamo quale sia stato il ruolo ecologico di Tricyclusa singularis, sappiamo a malapena che più di cento anni fa era rigogliosa nel golfo di Trieste, ma sono cento anni che non se ne trovano più, né lì né altrove. Forse il motivo è che c’è sempre meno gente che studia gli animali. Ma poi no, ancora qualcuno c’è. L’anno scorso, sempre nel golfo di Trieste, con alcuni colleghi, ho descritto una specie che non era mai stata vista prima, l’abbiamo battezzata Pelagia benovici. E’ una medusa e appartiene agli cnidari, lo stesso phylum a cui appartiene Tricyclusa singularis. Probabilmente è arrivata da noi come clandestina su qualche nave, nelle acque di zavorra, e ha trovato un ambiente favorevole.

Non voglio scatenare guerre tra scienziati. Non sto chiedendo che si taglino i fondi alla ricerca. Mi chiedo però: come mai si trovano i soldi per contare le stelle, e si mandano razzi in aree remote dell’universo (con spese immani) e non ci sono i soldi per sapere quante specie ci sono sul pianeta? E anche per capire quali ruoli giocano nel far funzionare gli ecosistemi che ci sostengono? Se fossimo mediamente intelligenti, dedicheremmo altrettanti sforzi a studiare la biodiversità. E invece no. I soldi per costruire razzi per esplorare il cosmo ci sono, quelli per studiare la diversità della vita no. Il bello è che quelle stelle non sono affatto influenzate dai nostri impatti, e non hanno alcuna influenza sulle nostre possibilità di benessere, mentre la biodiversità è in corso di distruzione da parte nostra ed è essenziale per il nostro benessere. Nessuno nega l’importanza della biodiversità. Eppure questi comportamenti schizofrenici persistono. Forse perché le spese per studiare la biodiversità non possono nascondere spese dedicate a sviluppare armamenti sempre più sofisticati.

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Attenti al cane

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 6 giugno 2015]

Ci risiamo. Un pitbull azzanna una bambina di tre anni e le spappola una gamba. Hanno dovuto tagliargliela. E’ la nipotina del proprietario del cane, una persona di famiglia. E l’aggressione è avvenuta in casa. Avete mai letto di ladri e malintenzionati ridotti in fin di vita da un cane da guardia? Abbiamo appena letto che un proprietario di cane, difeso dal suo animale fedele, lo ha visto uccidere dai suoi aggressori. Cosa ci raccontano questi due episodi? Di solito le vittime dei cani potenti e potenzialmente aggressivi sono i figli dei padroni, o di amici o parenti dei padroni. I delinquenti non si spaventano più di tanto, e se attaccano semplicemente li uccidono. I predatori rivolgono molto spesso le loro attenzioni ai cuccioli, perché sono più lenti, reagiscono poco, e sono quindi facili prede. Si corrono meno rischi ad attaccare un cucciolo che un adulto che potrebbe reagire e rendere pan per focaccia. E’ un fenomeno naturalissimo. La colpa non è del cane. Il cane fa il suo mestiere di predatore. Certo, se il predatore è un barboncino e in un attimo di disattenzione dimentica la lunga storia di coevoluzione con noi e fa riemergere il suo istinto di cacciatore e di difensore del territorio, le conseguenze fanno sorridere. E non corre rischi di essere ucciso a fucilate un barboncino che difenda il suo padrone, tutt’al più prende una pedata. Se si tratta di un pitbull no, purtroppo bisogna sparargli, per farlo smettere. Questi cani sono come armi. Le armi non uccidono, sono le persone che le usano che uccidono. Se un tale prende a martellate il migliore amico perché ha sbagliato a calare l’asso durante la partita a scopone, la colpa non è del martello.

Bisogna essere consci che questi animali sono potenzialmente pericolosi, ed hanno un’attrezzatura biologica (i muscoli, le ossa) che li rende perfette macchine per aggredire. Lo so, lo so, se allevati con dolcezza e se non esposti a stimoli che li rendono aggressivi, sono anche loro cani dolcissimi. Ma anche le persone più dolci e docili, a volte, possono reagire in modi inattesi. Lo facciamo noi, figuriamoci un cane. La casistica di questi attacchi è sconfinata. Quando ci scappa il morto, la notizia finisce nei notiziari nazionali. Se le ferite sono gravi, come in questo caso, finisce sui notiziari regionali. Se non sono gravi finisce nel dimenticatoio. E’ una regola d’oro del giornalismo che il morso di un cane a un bambino non faccia notizia, mentre è una notizia se un bambino morde un cane. Lo so, lo so, il bambino lo avrà disturbato, magari gli ha rotto le scatole tutta la mattina. Magari è apparso nella stanza all’improvviso, correndo. Qualche squilibrato potrebbe persino pensare che il bambino se la sia cercata. Mi è capitato di assistere a scenette in cui il proprietario di un cane accusava una persona sanguinante di aver disturbato il suo cane che, ovviamente, lo aveva morso. La colpa era della persona, non del cane. Chi glielo ha detto di passare di qui correndo? Ovviamente non sono cose che ho visto in un giardino privato, invaso da un intruso, sono discorsi che ho sentito per strada.

Certo, in questi casi si rimpiangono i tempi in cui uno poteva circolare tranquillamente con una katana giapponese affilatissima, in modo da far valere le proprie ragioni. Eh sì, ho tagliato in due il suo cane perché ho paura. Quando ho paura reagisco così, che ci vuol fare? Chi glielo ha detto di farlo passare di qui? Anzi, anche lei mi sta facendo paura, ora che ci penso. Anche una 357 magnum potrebbe aiutare, in queste conversazioni. E chi si comporta in questo modo? Ma è chiaro: il delinquente che gira con un fucile a canne mozze. Il cane tenta di aggredirlo? Che problema c’è? una bella fucilata e il fastidio è tolto.

Sto ragionando per assurdo, ovviamente. La soluzione non è girare armati così se un cane ci aggredisce lo sistemiamo per le feste. Se tutti fossimo armati fino ai denti finirebbe che ci uccideremmo per un nonnulla. Senza armi micidiali siamo come barboncini. Magari abbaiamo un pochino, diamo un morsetto, e tutto finisce lì. Con le armi siamo come un pitbull. Un momento di rabbia e si fanno cose che non vorremmo aver mai fatto.

Questi cani sono armi. Non si possono dare a tutti. Non mi sento minacciato se vedo poliziotti o carabinieri girare con un mitra. Mi sento protetto dalla loro presenza. Se vedo un tipo in borghese girare con un mitra mi preoccupo. Il mitra è sempre lui. Ma la differenza sta in chi lo porta. Queste razze canine sono state selezionate per essere micidiali. Chi le possiede deve avere una sorta di porto d’armi e una seria motivazione che ne giustifichi il possesso. Altrimenti, se è solo perché piacciono tanto i cani, che si prendano un bel barboncino o un piccolo meticcio.

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Aggiunta per l’Università Popolare di Galatina: dopo che l’articolo è stato pubblicato, un amico mi informa che avevamo incontrato quel pitbull, sulla spiaggia delle Cesine. Col suo padrone. Eravamo andati a fare una passeggiata e, lungo la spiaggia, li avevamo incontrati. Un cane bellissimo. Dato che il mio amico ha un barboncino, ha chiesto al padrone del pitbull di tenerlo perché, lungo la spiaggia, lo avrebbe incontrato. Gentilissimo e civilissimo il proprietario del cane lo ha preso al guinzaglio e lo ha tenuto. Però ci ha assicurato che il suo cane non era affatto aggressivo. E’ stato preso da piccolo, educato a stare con gli altri, trattato con dolcezza, mai istigato a combattere o a svolgere atti violenti. Il cane era tenuto benissimo, pelo lucido, sguardo intelligente, muscolatura definita e evidentemente potente. Rispondeva anche in modo istantaneo ai comandi del proprietario. Pare che fosse su un divano, a riposare, e che si fosse allontanato un momento, magari per bere da una ciotola, e la bambina si era messa al posto che aveva occupato lui sino a un momento prima. Questo ha scatenato una reazione di difesa del territorio. In quel momento pare che il proprietario non fosse presente nella stanza, e pare che le grida della bambina abbiano ulteriormente eccitato il cane.

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Depuratori e condotte: non ci sono alternative

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 27 giugno 2015]

Vedo che sempre più spesso le comunità costiere si oppongono alle condotte fognarie sottomarine. Sarei d’accordo con loro, se ci fossero alternative valide. Il riuso in agricoltura, che molti portano come panacea a tutti i mali, non è così facilmente praticabile. Ci sono problemi di costi da sostenere, e anche di possibilità di smaltimento. Gli scarichi in falda, uno dei modi più comuni per liberarsi delle acque reflue, sono semplicemente criminali. E infatti sono oramai vietati. Chi costruisce case abusive sulla costa spesso ha adottato un sistema infallibile: butta tutto in mare. La logica è stringente: costruisco una casa in un bel posto, con un bel mare, poi metto un bel tubo che butta in mare le mie deiezioni e poi ci vado a fare il bagno. E magari mi lamento perché l’acqua è sporca. In Salento ci sono molti pozzi neri. Dovrebbero essere impermeabili. E andrebbero svuotati di tanto in tanto. Gli autospurghi dovrebbero scaricare nei depuratori, ma l’operazione costa. Così i reflui sono scaricati in mare, o nei campi. La leggenda dice che dei pescatori che stavano uscendo, di notte, dall’insenatura del Ciolo furono investiti da una pioggia di m…da proveniente da un autospurgo che stava “spurgando” dal ponte. L’autista era particolarmente romantico. Molti proprietari di abitazioni con pozzo nero adottano lo stratagemma di rompere lo strato impermeabilizzante, in modo che l’acqua (e tutto quello che contiene) esca dal contenitore in cui viene conferita (mi piace molto la terminologia tecnica che riguarda questi fenomeni: conferita) e finisca nel terreno e poi in falda. A volte questa pratica non è neppure così criminale come pare, e il filtro del terreno potrebbe anche salvare la falda acquifera dall’inquinamento fecale. Ma anche no.

Il problema del Salento, per quel che riguarda lo smaltimento dei reflui, consiste nella differenza tra le presenze normali e quelle estive. Porto Cesareo, per esempio, passa da quattromila abitanti stabili a centomila presenze nel mese di agosto. Più o meno. Un depuratore non ce la fa a passare da quattromila a centomila. Quando riesce ad andare a regime i centomila se ne vanno e tornano ad essere quattromila. Lo stesso succede a Otranto, e in tutti gli altri posti baciati dalla temporanea fortuna delle presenze stagionali. Le condotte sottomarine, ovviamente collegate ad un depuratore, sono il male minore. Altrettanto ovviamente vanno fatte bene. Per esempio il tubo non deve passare attraverso habitat di importanza comunitaria, come le praterie sottomarine di Posidonia o i fondi a coralligeno. Non si può scavare una bella trincea in una prateria di Posidonia e farvi passare il famigerato tubo. Chi lo fa è un criminale. Bisogna trovare i tracciati giusti, oppure bisogna scavare dei tunnel sotto le praterie sottomarine. Inoltre il tubo deve portare i reflui lontano dalla costa e lo sbocco deve raggiungere una profondità maggiore di quella dello strato di acqua riscaldata dalle alte temperature estive. Mi spiego: d’estate l’acqua marina superficiale si scalda e si forma uno strato caldo che può raggiungere anche 20 o più metri di profondità. Questa stratificazione, acqua calda su, acqua più fredda giù, ha un punto di transizione, quello dove la temperatura cambia in modo quasi repentino. Chi va sott’acqua lo chiama “taglio”. Le acque reflue sono dolci, e l’acqua dolce sale (con quello che contiene). Se il tubo sbocca sotto al “taglio”, l’acqua dolce sale, incontra la barriera del “taglio” e si disperde, diluendosi rapidamente con l’acqua di mare. Gli effetti dei reflui depurati sono così mantenuti entro limiti accettabili.

La soluzione del problema è quindi di costruire depuratori che funzionano e di costruire condotte sottomarine che portino i reflui al di sotto del “taglio” (io consiglierei almeno 50 m di profondità) senza passare attraverso habitat di importanza comunitaria (cosa peraltro vietata dalla Direttiva Habitat dell’Unione Europea). Non ci sono soluzioni miracolose e alternative a questa. Se le case sono molto disperse sul territorio, la cosa migliore è il pozzo nero, l’autospurgo, il conferimento nel depuratore, la condotta sottomarina.

Un altro problema di gestione dei reflui riguarda l’atteggiamento dei paesi costieri che non vogliono i reflui dei paesi che stanno nell’interno. Gli escrementi di chi abita a una certa distanza dalla costa sono trattati come Salvini tratta gli immigrati. Teneteveli a casa vostra! Non li vogliamo! Razzismo fecale. Come tutto il razzismo, del resto.

La cosa più divertente è di vedere persone che hanno devastato gli ambienti costieri con migliaia di case abusive direttamente sulla linea di costa diventare improvvisamente ambientaliste e scagliarsi contro la condotta sottomarina. Se gli fai notare che hanno costruito in modo folle ti dicono: che c’entra? Non riescono a capire il nesso. Se volessimo davvero proteggere e salvaguardare i nostri ambienti costieri dovremmo iniziare una serie di demolizioni a tappeto, con ripristino delle condizioni iniziali e, magari, con ricostruzioni a debita distanza dal mare. Questa volta con rigorosi criteri architettonici e urbanistici che tengano conto anche della bellezza di ciò che si costruisce. Fatto questo resterebbe il problema dei reflui, e la soluzione sarebbe ancora una volta un bel depuratore e una condotta sottomarina.

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Acqua e condotte

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’ 1 luglio 2015]

Rispondo a Agostino Indennitate che, sul Quotidiano, mi sollecita sull’argomento condotta di Nardò. Le sue perplessità sono anche le mie. Nessuno ci garantisce che gli impianti, una volta costruiti, funzioneranno a meraviglia, che saranno costruiti a regola d’arte, che la manutenzione sarà effettuata. Questo è vero per qualunque attività, soprattutto in Italia. Non posso certo fornire io queste garanzie. So che l’attuale gestione delle acque reflue mette a rischio l’integrità ambientale. E so che l’amministrazione di Nardò, d’accordo con quella di Porto Cesareo, ha ottenuto un finanziamento per costruire un sistema di smaltimento che prevede anche una condotta a mare. Per quel che ne so, se tutto sarà fatto come si deve, la situazione migliorerà. Il termoclino, o “taglio”, è una temporanea stratificazione dell’acqua, nel periodo più caldo dell’anno. Di solito è sui 20 m, ma può arrivare a 30. Ho scritto, in linea generale, che si sarebbe completamente al di sotto facendo sboccare la condotta a 50 m. Per arrivare a quella profondità, nel caso di Nardò, bisogna prolungare la condotta di dieci chilometri. Non ne vale la pena. E una possibile criticità (neppure paragonabile, comunque, alla situazione attuale) sarebbe limitata nel tempo (il tempo del permanere del termoclino a grande profondità).

Ho letto le argomentazioni del prof. Del Prete, un esperto di frane a quanto dice la sua produzione scientifica. Basta andare sui siti governativi britannici per trovare documenti ufficiali che mostrano come gli scarichi di acque depurate vengano fatti in mare, o nei fiumi se si è molto distanti dalla costa. Con terminologia tecnica il prof. Del Prete ci informa che il “riuso” delle acque depurate di Londra consiste nell’immissione dei reflui nell’acquifero di Londra. Ma guarda un po’! Le acque depurate vengono immesse nel Tamigi (quello è l’acquifero di Londra). Se ci fosse il mare, a Londra, chissà dove le conferirebbero (usando terminologie adatte alla situazione)!

Quando dialogano gli “esperti” succede che uno dica bianco e l’altro dica nero. Così chi legge o ascolta può restare fermo della propria opinione. Ma c’è la possibilità di controllare. Basta andare sui siti governativi britannici (se si conosce l’inglese) e verificare. Lo scarico delle acque reflue opportunamente depurate avviene nei fiumi o in mare.

Non c’è una volontà malvagia di Acquedotto Pugliese di inquinare il nostro mare evitando il riuso in agricoltura, si tratta di argomentazioni assurde. Abbiamo salvato l’Acquedotto dalla privatizzazione, e rappresenta un patrimonio pubblico di inestimabile valore. Lo scarico in falda è proibito dalle normative europee. Ma di che stiamo parlando?

Nelle argomentazioni dei No Tub ho trovato molte affermazioni di rigetto dei liquami di Porto Cesareo nel sistema di depurazione di Nardò, e a questi ho riferito l’epiteto di razzisti fecali. Chi non ha mai fatto queste dichiarazioni, non vedo come possa sentirsi tirato in causa.

Denuncio lo scempio del territorio tempo immemorabile. Lo scempio è stato perpetrato da chi ha costruito le case abusive, ha mangiato i datteri di mare, ha infranto ogni regola. I politici hanno avuto condiscendenza per questi comportamenti perché il loro elettorato chiedeva questo. Per Nardò ho lavorato, con colleghi più giovani, per valutare l’impatto del sistema attuale di smaltimento dei reflui urbani. C’è un forte impatto sulla biodiversità e lo studio, pubblicato su Marine Pollution Bulletin, suggerisce di spostare lo scarico in profondità. Abbiamo anche lavorato per il porto di Serra Cicora, dichiarandoci assolutamente negativi sull’opera e individuando siti alternativi. Per noi la questione “tubo” non ha senso, è una battaglia sterile, strumentalizzata da alcune parti politiche o da persone che in mare non hanno mai lavorato e ora cercano facile notorietà. Ha senso chiedere estrema vigilanza sulla gestione dell’appalto e sulla gestione dell’impianto. E’ anche giusto chiedere tutte le delucidazioni del caso, meglio essere al corrente, interessarsi. Ma a questo punto siamo in un altro campo, non in quello ambientale.

Ho partecipato, come esperto di ambiente marino, alla redazione del piano delle acque della Regione Puglia. Quando sono andato alla prima riunione avevo molte certezze: riuso in agricoltura, fitodepurazione, lagunaggio erano per me le magiche soluzioni del problema. No agli scarichi a mare, no agli scarichi in falda. Ma io non sono esperto di impianti di smaltimento di reflui urbani. Ho qualche esperienza in ecologia marina, così come il prof. Del Prete ha qualche esperienza in frane. Gli esperti mi hanno spiegato che quello che proponevo non era fattibile. Mi hanno convinto e ho cambiato idea. Mi fido di chi ne sa più di me, non ho alternative. Le attuali modalità di smaltimento sono insostenibili, e vanno modificate. Depuratore e condotta sono la soluzione, ovviamente se realizzata a regola d’arte. Se dovessero essere messi a punto sistemi alternativi e praticabili, sono certo che le amministrazioni si prodigheranno per metterli in atto. Ora non ci sono.

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L’Area Marina Protetta di Porto Cesareo prima in Italia

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 7 luglio 2015]

Ogni anno il Ministero dell’Ambiente dedica fondi alle gestione delle ventisette Aree Marine Protette (AMP) italiane. Per il 2015 sono stati adottati criteri di valutazione che hanno tenuto conto dei risultati nella tutela dell’area marina protetta, dell’efficienza gestionale, e nella riduzione dell’impatto antropico attraverso pareri per concessioni demaniali e per valutazioni di incidenza.

L’Area Marina Protetta che ha ottenuto il punteggio più alto, e che si è classificata prima assoluta, con più di 300.000 euro di assegnazione, è…. attimo di suspense…. Porto Cesareo!

E’ una notizia importante, che mostra come la professionalità, la dedizione e l’entusiasmo siano la chiave che apre le porte alla buona gestione. Il direttore dell’AMP, il dr Paolo D’Ambrosio, ha fatto il dottorato di ricerca presso l’Università del Salento, proprio sulle Aree Marine Protette e la mappatura dei fondali. Avrebbe avuto una carriera scientifica da intraprendere, viste le competenze acquisite, ma preferì dedicarsi alla gestione dell’ambiente, affrontando una missione quasi impossibile: gestire una delle più difficili AMP italiane. Difficile per i conflitti tra AMP e pescatori, per le deturpazioni dell’abusivismo, per l’eterna conflittualità tra Porto Cesareo e Nardò, visto che metà dell’AMP di Porto Cesareo cade proprio nel territorio di Nardò. Con l’aiuto di presidenti lungimiranti, Rocco Durante prima, e ora Remì Calasso, e con una squadra di collaboratori di elevata professionalità e dedizione, Paolo ha saputo mostrare, giorno dopo giorno, le opportunità che la presenza di un’AMP può offrire a un paese a forte vocazione turistica e peschereccia. Sono lontani i tempi in cui, assieme all’amico Cosimo Durante, affrontammo i pescatori che non volevano, con rare eccezioni, l’istituzione dell’AMP, arrivando a minacciarci fisicamente. Oggi la lungimiranza di uno dei decani dei pescatori di Porto Cesareo, Giuseppe Fanizza, è diventata patrimonio comune e la marineria di Porto Cesareo chiede all’Università del Salento di collaborare a progetti che salvaguardino le risorse ittiche, con limitazioni all’efficienza degli attrezzi in modo da non pescare pesci troppo piccoli.

Si è sviluppato il pescaturismo, sono intensificati i rapporti tra AMP e lo storico Museo di Biologia Marina “Pietro Parenzan”, presidio dell’Università del Salento in territorio cesarino, e si stanno mettendo a punto criteri innovativi di gestione dell’AMP, miranti alla definizione di obiettivi misurabili e non generici, il cui raggiungimento permetta di valutare l’efficienza delle attività. Da pecora nera delle AMP italiane, situata nel paese del record nazionale per abusivismo edilizio, Porto Cesareo è ora la prima della classe.

Ho dato il merito a Paolo D’Ambrosio, ai presidenti e allo staff. Ma se non ci fosse la collaborazione delle Amministrazioni comunali, delle cooperative di pescatori e di tutta la popolazione, non ci sarebbero risultati così consistenti.

E questo è forse il risultato più importante: far capire alla popolazione locale che la protezione dell’ambiente è un vantaggio per la collettività, che lo sviluppo vero si basa sulla gestione ottimale del capitale naturale. I pescatori di datteri ora fanno le guide per i sub, e i fondali in buono stato, bellissimi, sono per loro una risorsa inesauribile. Prima, invece, li devastavano in modo quasi irreparabile.

C’è stata un’evoluzione culturale senza precedenti. Ha richiesto quasi 30 anni, ma oggi il futuro di Porto Cesareo appare più roseo. Le case abusive ci sono ancora, purtroppo. E è in vigore una condanna che impone alla Regione di pagare salatissime sanzioni pecuniarie per l’assenza di sistema fognario a Porto Cesareo, con lo scarico del depuratore di Nardò direttamente in battigia e un’infinita conflittualità per la realizzazione di sistemi efficienti per il trattamento e lo smaltimento dei reflui in entrambi i centri urbani. Gli scarichi in falda sono illegali (anche se qualche “esperto” fuori dalla realtà si ostina a consigliarli) e il riuso in agricoltura risolve solo in parte il problema. Forse il successo della sensibilizzazione ambientale è stato troppo repentino. Prima c’è stata la corsa al saccheggio del territorio, con la distruzione di un imponente capitale naturale a causa del selvaggio abusivismo. Ora sorgono comitati spontanei contro qualunque azione che riguarda l’ambiente. Preferisco l’eccesso di oggi, non ci sono dubbi. Piano piano le sensibilità matureranno in pieno e le conoscenze si diffonderanno in tutta la popolazione, evitando crociate populiste che solo apparentemente salveranno l’ambiente. Congratulazioni all’AMP di Porto Cesareo e di Nardò e alle  Amministrazioni di entrambi i paesi che, finalmente, hanno iniziato a collaborare. Il riconoscimento ministeriale, basato su valutazioni oggettive, è un segno importante. Come professore universitario, mi sento gratificato nel vedere che gli investimenti in capitale umano in termini di alta formazione stanno dando risultati eccellenti. I nostri laureati si fanno valere, e offrono un servizio rilevante allo sviluppo e alla salvaguardia del territorio.

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L’Iran ha davvero così bisogno di energia nucleare?

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 16 luglio 2015]

Vedo che tutto il mondo esulta: si è raggiunto un accordo e le sanzioni all’Iran saranno rimosse. Noi compreremo il loro petrolio e loro svilupperanno le centrali nucleari, ma con l’impegno di non usare il nucleare come arma. Gli israeliani, che hanno la bomba, sono gli unici a non essere contenti. Non si fidano. A dir la verità a me piacerebbe che non l’avessero neanche loro. Ma il problema è un altro. Noi italiani dipendiamo dall’estero per gli approvvigionamenti di combustibili fossili e, in passato, abbiamo accarezzato l’idea di dotarci di centrali nucleari. Dopo due referendum abbiamo deciso che è meglio di no. Forse i referendum hanno espresso parere negativo sull’onda emotiva di due gravi incidenti, prima a Chernobil e poi a Fukushima. Ma i motivi per dire no al nucleare sono ben più solidi. Non sappiamo dove mettere le scorie. E non basta: non sappiamo come dismettere le centrali che, arrivate a fine vita, devono essere smantellate. Due problemini non da poco, che rimandiamo ai nostri posteri. L’energia nucleare conviene nel breve termine, ma è un’incognita pesantissima nel lungo termine e, prima o poi, la natura presenta il conto. Meglio cercare altre fonti energetiche, e non devono essere fossili perché bruciare combustibili fossili provoca il cambiamento climatico. Ora, con le trivellazioni, vogliamo andare a cercare il petrolio sul fondo del nostro mare; per me è un mistero. Dovremmo puntare tutto sulle energie rinnovabili. Ma questa è un’altra storia.

Gli iraniani hanno tanto petrolio che lo vendono. Non hanno alcun bisogno di energia, come si suol dire… ne hanno da vendere. E allora come mai questa smania di costruire centrali nucleari? Stanno assicurando al mondo che non useranno quelle tecnologie per fare armi, almeno per dieci anni. Ma dieci anni passano veloci. E poi? Siamo di nuovo all’equilibrio del terrore? Gli israeliani hanno la bomba, e gli iraniani hanno la bomba. Ci sarà qualche matto che penserà di buttarla sul vicino di casa? Le distanze tra i due stati sono talmente ravvicinate che, oltre a distruggere i vicini, distruggerebbero anche se stessi. Lo stesso stanno facendo pakistani e indiani. E per decenni i sovietici (che ora non ci sono più) hanno costruito bombe, per averne più degli americani. Che ne costruivano altre, man mano che i sovietici incrementavano i loro arsenali: la corsa agli armamenti, l’equilibrio del terrore. In questi giochi si sa come si inizia ma non si sa come si finisce. E queste bombe invecchiano, possono arrivare in mani “strane”, chi lo sa?

Sappiamo che non è saggio costruire armi di distruzione di massa. E gli Stati Uniti, con Bush jr., hanno fatto una guerra all’Iraq pensando che le avesse. Poi, oh oh, si sono accorti che non le aveva. Il problema di queste imprese può essere diviso in due porzioni. Ci sono i fenomeni acuti: le guerre. E, fino ad ora, solo due volte un paese (gli Stati Uniti) ha usato l’arma nucleare contro un altro paese (il Giappone). E poi ci sono i fenomeni cronici: l’inquinamento, il deterioramento delle strutture che contengono il materiale nucleare.  Forse non saremo tanto stupidi da ingaggiare duelli a suon di bombe atomiche, ma siamo abbastanza stupidi da mandare a quel paese gli ecosistemi globali con imprese azzardate. Ci spaventano le conseguenze acute, ma non ci preoccupiamo di quelle croniche. E, in questi giorni, siamo tutti contenti perché le sanzioni all’Iran sono state rimosse (e me ne rallegro moltissimo anche io) ma non ci preoccupiamo del fatto che si costruiranno altre centrali nucleari.

Intanto, noi italiani non sappiamo ancora dove mettere le scorie derivanti dalla nostra brevissima era nucleare. Sono da qualche parte, in contenitori che si stanno deteriorando, e dovremmo preoccuparci molto. Le centrali francesi sono arrivate a fine vita, e non sanno come fare a dismetterle. Non sanno neppure quanto costerà, come avvertì un convertito Tremonti sulla via di Cernobbio, quando mise in guardia sui costi della dismissione.

A queste persone, come al solito, non interessa nulla dell’ambiente. Nulla. Non fa parte della loro cultura. E l’entusiasmo totale per la svolta nucleare iraniana lo conferma. Le implicazioni ambientali di tutto questo sembra non interessino a nessuno. Io una spiegazione l’avrei. Siamo irrimediabilmente scemi. Dall’ignoranza si può guarire, ma la stupidità è inguaribile. Pare proprio che gli stupidi siano favoriti nella corsa al potere e quindi eccoci qua a rallegrarci per la costruzione di nuove centrali nucleari, quando dovrebbe essere chiaro che si tratta di una mossa poco saggia!

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La svolta di Bergoglio

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 10 settembre 2015]

Dopo l’Enciclica Laudato Sì, di Jorge Bergoglio, noto anche come Papa Francesco, l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’ambiente è cambiato. Leggendo l’Enciclica è chiaro che si tratta della continuazione di un percorso iniziato da molto tempo, visti i moltissimi richiami a documenti precedenti che, messi assieme, dicono bene o male quel che dice l’Enciclica. Bergoglio, però, va ancora più a fondo, con una mirabile sintesi. La parola “ecologia” è presente una trentina di volte, e sono evocati concetti ben familiari agli ecologi (come biodiversità, funzionamento degli ecosistemi, plancton e molti altri) ma che, purtroppo, non sono familiari ai cittadini comuni e che raramente vengono spiegati persino a scuola.  Alla scuola “umanista” di Renzi, Bergoglio quasi contrappone una scuola “ecologica”, “scientifica”. E mette al primo posto l’ambiente, ne fa il problema numero uno, e non trova un problema numero due.

I Vescovi lo seguono, finalmente, quando denunciano che è una follia perseguire il modello dei combustibili fossili e trivellare il nostro mare, fino a seguirlo nel richiamare alla pulizia delle città. Lo seguono anche politici di rilievo planetario, come Barak Obama, che dichiara di voler abbandonare il carbone, che sta deteriorando in modo grave l’ambiente globale (e non solo). Quando si usava il carbone per il riscaldamento, e c’erano gli spazzacamino cari a Mary Poppins, a Londra c’era lo smog, una crasi di smoke (fumo) e fog (nebbia). Il fumo era quello del carbone. Abbandonato il carbone, finito lo smog.

Ma poi si è ricominciato a usare il carbone per produrre energia elettrica e per fare andare gli impianti industriali, e noi che viviamo in Salento lo sappiamo bene.

I Vescovi denunciano queste situazioni. Non possiamo che rallegrarcene, noi che da sempre le denunciamo. Insperati compagni di strada, siamo fieri di averli al nostro fianco, non con generiche dichiarazioni di principio, ma con forti denunce e richiami alle responsabilità.

Anche la stampa sta cambiando. Non solo il Quotidiano. Mi capita di scrivere per altre testate nazionali, e spesso mi chiedono articoli su questioni ambientali, e li mettono in prima pagina. Prima non succedeva, e per molto tempo ho lamentato che gli editoriali fossero scritti sempre da economisti e mai da ecologi. Non posso più lamentarmene. Anche la Magistratura, lo vediamo quotidianamente, sta assumendo un diverso atteggiamento nei confronti dei reati ambientali. E lo stanno facendo anche molti politici. Altri meno. Non posso non ricordare i sindaci che accusarono l’assessore Barbanente di essere un “freno allo sviluppo” con il suo Piano delle Coste. Volevano continuare a cementificare la costa, ma si strappavano le vesti per un tubo che ci porta il gas.

La politica rappresenta la media della popolazione e credo che sia ancora in mezzo al guado. Manca una cultura ecologica che permetta di discernere e di valutare le situazioni. Stanno diventando sempre più spinti gli estremismi. Da una parte ci sono estremisti del no, che dicono no a tutto (ovviamente continuando ad utilizzare tutto quello di cui negano il valore) e dall’altra ci sono i negazionisti totali, che affermano che non ci siano problemi ambientali. Mi capita spesso di scontrarmi con entrambi. E i due estremi mi accusano invariabilmente di appartenere all’altro fronte estremo. Ora, magari, qualcuno mi accuserà di essere un clericale visto che lodo le posizioni della Chiesa sull’ambiente. Se critico l’affarismo di Comunione e Liberazione, invece, sono contro la libertà religiosa. Siamo ancora ai Guelfi e ai Ghibellini (si studiano ancora a scuola?).

Mi fa sorridere la polemica tra Sindaco e giornale della città. Con il Sindaco che si paragona a Marino e paragona il Quotidiano al Giornale, o a Libero o al Fatto Quotidiano. Non mi risulta che esista Mafia Lecce, e non mi risulta che il Sindaco abbia denunciato un sistema di malaffare che ha dissanguato la città. Certo, qualche scandaletto c’è stato e qualche impresa non proprio limpida è stata portata a termine, ma non ho visto lo scoperchiamento del “sistema”. Io stesso ho lodato il Sindaco per aver creduto a Lecce Capitale Europea della Cultura (e la sinistra mi ha accusato di essere in combutta con lui), e l’ho criticato per aver chiuso il centro storico al traffico solo nel giorno della visita della Commissione (ma allora è un nemico! avranno pensato). Non sono a favore o contro il Sindaco Perrone, mi permetto di valutare il suo operato caso per caso, da cittadino che sta a guardare. Se fa bene lo elogio, se fa male (secondo il mio parere) lo critico. Il vivere civile funziona in questo modo. Tornando all’ambiente, sarebbe bene approfondire le questioni anche da un punto di vista scientifico-culturale perché, purtroppo, nel nostro paese l’ignoranza ecologica è grande.  Sapere di che si sta parlando, in tutte le discussioni, aiuta.

Questa voce è stata pubblicata in Ecologia, Scritti ecologici (2009-2015) di Ferdinando Boero e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

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