Quale modello di sviluppo post-pandemia?

Queste criticità – alle quali occorrerà porre rimedio appena possibile – si sommano a quelle rinvenibili nell’architettura istituzionale europea. Anche nel caso della crisi sanitaria in corso, in quella sede si è riproposto il dibattito (già avviatosi negli anni della crisi del debito sovrano, fra il 2010 e il 2012) fra la posizione tedesca – e dei Paesi satelliti – e la posizione dei Paesi della sponda mediterranea dell’Europa. Questi ultimi rivendicano maggiore spesa pubblica nelle fasi di crisi, mentre i primi esprimono una posizione di rigoroso rispetto dei Trattati dell’Unione. Si tratta comunque di due posizioni antitetiche, che si radicalizzano in fase di crisi e che non riescono a trovare un ragionevole punto di incontro. Non hanno molto senso, in questa prospettiva, né la posizione sovranista né le teorie del complotto. In base alla prima, l’Unione monetaria europea sarebbe una gabbia per l’Italia e solo il ritorno alla valuta nazionale garantirebbe la ripresa di un percorso di crescita. Questa tesi non tiene conto degli effetti nefasti ai quali andrebbe incontro la nostra economia a seguito di un ritorno alla lira, in primo luogo per gli attacchi speculativi a nostro danno che inevitabilmente si produrrebbero. Ma soprattutto non tiene conto dell’elevato grado di integrazione industriale delle economie europee (Italia inclusa, soprattutto con riferimento alle imprese del Nord) e della partecipazione dell’industria italiana a catene globali del valore che, se spezzate, potrebbero accentuare il profilo recessivo della nostra economia. La visione complottista considera l’UME come un dispositivo finalizzato a far acquisire a buon prezzo le nostre migliori imprese. Non vi è dubbio che ciò sia in parte vero, almeno nel senso che, così come è costruita, l’UME tende a generare crescenti squilibri regionali, con la Germania e i Paesi satelliti che acquisiscono crescenti vantaggi e i Paesi periferici che ne traggono crescenti danni.  Il vulnus di questo approccio risiede nel considerare i processi di acquisizione di imprese italiane da parte di imprese estere come frutto di un complotto organizzato su scala sovranazionale. Il fatto che vi siano dei centri decisionali che si pongono al di sopra della scala nazionale non implica che vi sia una volontà politica univocamente finalizzata a indebolire uno Stato (e, del resto, non si capirebbe perché indebolire proprio l’Italia).

Se ha un senso interrogare la Storia per comprendere il presente, va ricordato che, nel caso italiano, il cosiddetto miracolo economico degli anni sessanta fu anche dovuto a una politica industriale nella quale la grande impresa, prevalentemente pubblica, guidava lo sviluppo del paese, creando una sinergia feconda con le piccole e medie imprese private. La conclusione di questa fase storica, segnata dal processo di privatizzazione dell’industria di Stato negli anni Novanta, ha contribuito al logoramento della capacità del sistema produttivo italiano di produrre beni ad alto valore aggiunto. Questa considerazione dovrebbe indurci a guardare con interesse alla cosiddetta nuova programmazione economica e alla riproposizione di una nuova IRI. Le imprese pubbliche che operavano negli anni nei quali l’IRI era maggiormente attiva producevano gran parte delle innovazioni generate dal nostro sistema produttivo e, a distanza di un paio di decenni dal suo smantellamento, occorrerebbe forse ripensare a un modello di sviluppo post-pandemia nel quale lo Stato si faccia carico di ciò che il settore privato, almeno in Italia, non fa: generare posti di lavoro con elevata specializzazione e innovare.

Si tratta di proposte che non sono centrali nel dibattito di politica economica in Italia e in Europa, fondamentalmente a ragione del fatto che gran parte di politici ed economisti è impegnata nel tentativo di ipotizzare una fase di uscita dall’emergenza e dunque fa i conti con una prospettiva di brevissimo periodo. 

                                              [“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 12 maggio 2020]

Questa voce è stata pubblicata in Economia, Pandemia Covid-19 e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *