Di mestiere faccio il linguista 4. La didattica a distanza nell’epoca del coronavirus

Decidere non è semplice. Né si tratta di una questione interna al mondo dell’istruzione, non coinvolge solo gli addetti ai lavori, i professori, gli studenti, al massimo le famiglie di questi ultimi. Come sempre, tutto quel che avviene nell’universo scolastico  si riflette nella società. Anche qui si confrontano differenti punti di vista, le posizioni a volte si radicalizzano in direzioni opposte. Secondo alcuni il digitale rappresenta la nuova ricchezza che sgorga all’improvviso, bene inaspettato da mettere a disposizione di tutti, passe-partout strategico che permette il flusso della formazione ad ogni livello scolastico, dalla primaria fino all’università. Qualcuno esulta. Si colgono, appena  accennati, segnali di entusiasmo per l’efficienza tecnologica che permette di superare le  distanze e di abbattere i pericoli del contagio, si inneggia alla trasmissione agile dei saperi, alle modalità telematiche della didattica. Se ne auspica la diffusione il più che sia possibile. Altri obiettano che la DaD può andar bene solo in momenti di emergenza e temono che, superata l’attuale fase di crisi, i proclami si trasformino in decisioni e in fatti concreti, che ne venga stravolta la natura stessa dell’insegnamento. La didattica telematica dell’emergenza non può diventare quella definitiva del futuro, panacea e toccasana per ogni situazione, strumento salvifico e tendenzialmente ottimale per ogni tempo.

Come spesso capita, il mondo  corre il rischio di dividersi tra innovatori e passatisti. Ce lo ricorda la storia dell’uomo. Al momento dell’avvio delle linee ferroviarie, si svolsero gare di velocità  tra locomotive su rotaia e carrozze a cavalli allo scopo di stabilire il mezzo migliore di trasporto. Nell’Inghilterra del 19° secolo il movimento luddista (dal nome dall’operaio Ned Ludd, che nel 1779 ruppe per protesta un telaio meccanico) reagì violentemente all’introduzione delle macchine nell’industria, ritenute causa di disoccupazione e di bassi salari. Quando tra quattro e cinquecento la stampa cominciò a diffondersi non tutti rinunziarono alla pratica di ricopiare con la penna i libri; anzi ci furono anche casi inversi, interi libri a stampa furono trascritti a mano, ad alcuni l’operazione pareva conveniente anche dal punto di vista economico.

Di fronte a problemi complessi i tagli netti non aiutano a capire. Per scongiurare il rischio di contrapposizioni aprioristiche, proviamo a fissare alcuni punti di possibile convergenza. La presenza in classe di docenti e studenti (a tutti i livelli del percorso scolastico)  è fondamentale: va salvaguardata la funzione socializzante dell’insegnamento in presenza. Formazione in presenza e formazione telematica non sono equivalenti. La scuola è un’aula, non è un video, è scritto in un appello pubblico lanciato da Crusca Scuola e da ASLI Scuola. Ma l’insufficiente preparazione di molti studenti non nasce oggi, a causa del digitale. Tante volte anche su questo giornale abbiamo parlato del declino nel possesso dell’italiano, della carenza di nozioni matematiche e scientifiche, della scarsa conoscenza delle lingue straniere da cui è afflitta una parte non trascurabile della popolazione scolastica e universitaria.  Molti studenti per varie ragioni, non solo per le condizioni di tipo socio-economico,  faticano a stare al passo e sono a rischio di abbandono scolastico. Forse è il caso di riflettere sulla possibilità che il digitale (integrativo, non sostitutivo della scuola tradizionale) contribuisca a superare (almeno in parte) precedenti e consolidate insufficienze.

Molti dicono che, alla fine della pandemia, nulla sarà come prima. Il passato non è un luogo a cui cercare di tornare a tutti i costi, ma è quel luogo da cui partire per andare verso il futuro, ha scritto un professore. Forse la storia ci offre un’occasione per ripensare la nostra organizzazione scolastica, senza rinunziare all’esperienza che abbiamo maturato nei decenni precedenti di scuola di massa e senza  demonizzare quanto in questi mesi abbiamo imparato dalla DaD. Sul Corriere della Sera ho letto un appello di tre rettori di atenei lombardi (Milano, Milano Bicocca e Pavia) intitolato «La sfida dell’innovazione negli atenei del dopo-crisi». Scrivono tra l’altro: «è richiesto un rapido cambio di mentalità. E i problemi che in questi giorni si affacciano lo debbono favorire come mai in passato. In questa prospettiva, il patrimonio rappresentato dalla molteplicità di competenze multidisciplinari  è cruciale per la ricerca e l’innovazione nei tempi non facili che ci attendono». L’appello a innovare e a modificare abitudini radicate viene da una martoriata regione del nord ma vale per tutti. Tanto più che in questi mesi di emergenza atenei del sud, atenei della nostra regione, hanno dimostrato di essere all’altezza dei tempi, hanno manifestato capacità di fronteggiare l’emergenza in modo adeguato. In un servizio di Canale 5 le università  di Milano Bicocca e di Foggia sono state indicate come esempio virtuoso per l’erogazione della didattica a distanza.

L’Italia è in ritardo sul digitale,  non ha investito, deve recuperare; ma, per uno di quei miracoli difficili da spiegare razionalmente, al declino del Paese nel settore delle telecomunicazioni curiosamente si affianca una notevole capacità del sistema complessivo dell’istruzione. Non siamo privi di risorse in termini di competenza. Certo, non tutti i professori sono ideologicamente disponibili a sfruttare il digitale per la didattica, in parte anche per ragioni anagrafiche; una dirigente sostiene che verrebbe violata la riservatezza (figuriamoci…). Certo, non tutte le scuole e non tutte le università sono egualmente attrezzate per affiancare ai vantaggi della scuola in presenza le potenzialità del digitale.  È meritoria l’intenzione governativa di dotare i ragazzi più poveri degli strumenti minimi necessari; vedremo se alle parole seguiranno i fatti. Un terzo delle famiglie italiane non ha in casa un computer o un tablet. Tutti hanno il cellulare, ma questa è un’altra cosa. Al di là delle apparenze, due terzi dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni hanno basse competenze digitali, usano il telefonino per chattare o per gli sms, in sostanza solo per giocare o per divertirsi, spesso isolati in una realtà circoscritta, distante e in contrasto con le potenzialità della vita reale. Ma, opportunamente guidati, con una didattica che sfrutti interattivamente certe opportunità, i ragazzi potrebbero usare  computer e  tablet per accrescere le conoscenze e per migliorare l’apprendimento, per raggiungere siti dove informarsi con profitto, per assumere informazioni altrimenti inattingibili, per visitare biblioteche e musei dove fisicamente non sono mai potuti entrare, per far convivere in maniera sapiente passato, presente e futuro.

Mi ha colpito la dichiarazione di una ragazza che  si accinge agli esami di maturità: avrebbe voluto affrontare la difficile prova senza beneficiare delle facilitazioni che, a dispetto delle affermazioni  della ministra, le commissioni giudicatrici saranno invogliate ad elargire, considerate le condizioni eccezionali. Quella ragazza ha capito che la scuola può essere stupenda, non è una prigione.

                                                [“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 9 maggio 2020]

Questa voce è stata pubblicata in Di mestiere faccio il linguista (quarta serie) di Rosario Coluccia, Linguistica, Pandemia Covid-19 e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *