Marti è stato prima d’ogni cosa professore di Letteratura italiana nella Facoltà di Lettere, praticamente fin dalla fondazione dell’università; nella gemella Facoltà di Magistero, a pochi metri di distanza, Aldo Vallone professava la stessa disciplina. Alla scuola di Marti per oltre un trentennio si sono formati centinaia, forse migliaia, di professori che hanno insegnato nelle scuole salentine e nelle scuole di tutt’Italia (considerato il flusso migratorio che ha portato i nostri laureati nelle regioni del nord), formando a loro volta intere generazioni di studenti. Gli inizi sono stati difficili per l’università di Lecce, tutto doveva essere costruito: mancavano aule, biblioteche, professori; i ragazzi non avevano ERASMUS né occasioni di viaggi all’estero, l’ambiente era chiuso e piuttosto provinciale. Ma c’era una differenza fondamentale rispetto all’oggi: in quegli anni il mondo giovanile era percorso da una continua fibrillazione che si manifestava in assemblee, appassionate discussioni ideologiche e politiche, voglia di progettare. Il clima era diversissimo rispetto alla rassegnazione e alla sfiducia che (comprensibilmente) ai nostri giorni troppo spesso albergano nel cuore e nel cervello dei giovani, che debbono fare i conti con gli esiti nefasti delle cosiddette ripetute «riforme dell’università» e con le enormi difficoltà legate all’inserimento nel mondo del lavoro.
Anche la piccola cronaca può aiutare a capire i movimenti della storia. Marti, che ha occupato costantemente ruoli di prestigio e di primissimo piano nella gestione dell’università di Lecce (fino alla carica di rettore), per tutti quegli anni si è confrontato con giovani inquieti e cupidi del nuovo, a volte esuberanti ma costantemente desiderosi di imparare. Il nostro ateneo è cresciuto grazie al confronto continuo, spesso vivace (come è fisiologico quando vengono a confronto ideologie e visioni del mondo), tra professori seri e bravi e studenti capaci e interessati. Il progresso vero nasce dal dialogo.
Negli anni del suo magistero nell’ateneo leccese l’attività scientifica di Marti si è sviluppata con ritmo incessante: capitali sono le sue ricerche sui poeti minori del tempo di Dante, sugli Stilnovisti, su Dante, su Boccaccio, su Ariosto, su Bembo, su Leopardi; ha fondato e diretto la «Biblioteca salentina di cultura», i cui volumi hanno avuto un ruolo fondamentale per la conoscenza e per lo studio del patrimonio letterario che la nostra terra ha prodotto nei secoli. È condirettore del «Giornale storico della letteratura italiana» e dell’«Alighieri»; fa parte del comitato editoriale di numerose collane scientifiche e di serie editoriali numerose, che è impossibile citare per esteso. Nei suoi studi di argomento locale non vi è traccia di provincialismo (che purtroppo spesso affiora nei lavori di epigoni maldestri): Marti punta costantemente a collegare la storia culturale della piccola patria salentina ai movimenti che attraversano la scena nazionale. L’amore per la terra d’origine si vede anche da gesti concreti: ha donato i libri, circa settemila e cinquecento, al convento dei Cistercensi di Martano; ha donato le lettere ricevute da studiosi italiani e stranieri, circa quattromila, alla Biblioteca comunale di Mesagne. Patrimonio bibliografico e documentario prezioso, da custodire gelosamente e consegnare alle generazioni future; questo vale ancor più per il Salento, che non sempre ha saputo salvaguardare le testimonianze culturali del proprio passato.
Nel sessantennio di vita dalla sua fondazione l’università di Lecce è enormemente cresciuta. Si pensa quasi con incredulità che da quei pochi e spogli locali dei primi anni sono nati gli edifici, i laboratori, le biblioteche, la rete informatizzata della fase odierna. Tanti studenti sono diventati a loro volta bravi professori; alcuni di essi hanno raggiunto risultati di prestigio e fama che travalica i confini nazionali.
Tutto nasce dai semi che Mario Marti e pochi altri piantarono in anni lontani. All’illustre centenario le genti del Salento devono riconoscenza.
[“Il Galatino” XLVII n. 9 del 16 maggio 2014, p. 4]
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Ricordo di Mario Marti
Adattando a questa occasione le parole che sono state talvolta utilizzate per commemorare altri grandi della nostra cultura si può dire che Mario Marti ha avuto la meritata e rara fortuna di serbare fino all’ultimo il vigore della mente, di essere da vecchio (al di là di ogni liturgia accademica) riverito e affettuosamente accompagnato da riconoscimenti e da attenzioni generali.
Il mio primo incontro con lo studioso non avvenne di persona, ma attraverso i libri. Frequentavo le aule del Liceo “Colonna” di Galatina. Dal mio insegnante di letteratura, il compianto professor Luigi Manna, sentii citare per la prima volta il nome di Mario Marti, a proposito dei suoi scritti ariosteschi: con gli scarsi strumenti bibliografici a mia disposizione cercai di saperne di più e riuscii a leggere la voce «Ludovico Ariosto» nei Maggiori di Marzorati (1956); da lì, all’indietro, con l’aiuto dello stesso mio professore di Liceo, per qualche giorno potei avere tra le mani l’edizione dell’Orlando Furioso dello stesso Marti. Ebbi per tale vie una prima idea della statura dello studioso, ma poi non continuai sulla strada di quelle letture, distolto da altre incombenze e da altri avvenimenti, anche di carattere personale. Solo due anni dopo, con rispetto misto a un po’ di trepidazione, mi accinsi a frequentare i corsi di «Letteratura italiana» all’università, tenuti proprio da quel professor Marti che cessava così di essere una firma in calce a un saggio e diventava un uomo in carne ed ossa. Feci gli esami di letteratura, poi presi la tesi di laurea con Francesco Sabatini, un altro dei maestri di cui la nostra università poteva andare fiera in quegli anni; forse in me prevale la lente deformante della nostalgia ma rimpiango quel periodo fervido e ne traggo motivi di rammarico a paragone della diffusa atonia del presente. Torniamo al tema principale. I miei studi si orientavano sempre più verso le fasi medioevali e prerinascimentali della nostra storia linguistica: in tal modo, senza averlo programmato, familiarizzavo con gli studi di Marti sulla letteratura antica. Poco per volta imparavo a conoscere i lavori che ogni studioso di testi antichi deve ancor oggi consultare, a distanza di vari decenni dalla prima apparizione: i Poeti giocosi del tempo di Dante; il volume sulla Prosa del Duecento, nella “Letteratura italiana. Storia e testi” di Ricciardi, il capitolo con lo stesso titolo nella Storia della letteratura italiana di Garzanti, la silloge dei Poeti del Dolce stil nuovo, la monumentale Storia dello stil nuovo, tanti studi che riguardano Boccaccio, Bembo, i prediletti Dante e Leopardi, i tantissimi altri temi e personalità trattati in una bibliografia straripante, che supera le mille voci. Frequentando le sue opere cresceva il contatto con Marti, che però a lungo, un po’ paradossalmente, avveniva più attraverso i libri e gli scritti, non nella realtà quotidiana, nonostante la contiguità delle sedi di lavoro.
Poi la svolta nel rapporto personale. Gli sottoposi un mio saggio per il «Giornale storico della letteratura italiana», la più importante rivista di italianistica che lui ha diretto fino all’ultimo giorno di vita. Lesse il mio dattiloscritto, mi invitò a discuterne nella sua casa di v. Capitano Ritucci; entrai così per la prima volta in quella casa che poi mi sarebbe divenuta familiare, ci sedemmo sulle poltrone del salotto, poggiò i fogli sul tavolino basso, dove tante altre volte in séguito la signora Franca avrebbe offerto tè e pasticcini.
Quella casa mi è divenuta familiare. Andavo abbastanza spesso trovarlo. Lui ascoltava, si informava del lavoro, dava consigli, a volte sosteneva di aver un po’ rallentato nel ritmo degli studi, con un po’ di civetteria dichiarava che quello che stava scrivendo era davvero il suo ultimo libro. Poi il libro usciva, e uscivano nuovi articoli, e progettava un nuovo libro che invariabilmente dopo un po’ era a stampa. Negli ultimi tempi le sue condizioni di salute lentamente peggioravano, una candela che si spegne lentamente. Ma, una volta avviata la conversazione, la debolezza del fisico veniva sconfitta dalla brillantezza della mente e ritornavano i temi delle mille ricerche già fatte, di quelle ancora da fare, l’età era dimenticata.
Negli ultimi decenni di vita Marti ha studiato a fondo, accanto ai grandi della letteratura che ho prima ricordato, autori e testi della cultura salentina, suoi ultimi grandissimi amori. Negli studi di argomento locale non vi è traccia di provincialismo (che purtroppo spesso affiora nei lavori di epigoni maldestri): egli punta costantemente a collegare la storia culturale del Salento ai movimenti che attraversano la scena nazionale, anche in questo rivelandosi esempio da seguire. Il Maestro studia Dante e il neretino Rogeri de Pacienza con la stessa cura, le ricerche approdano in sedi e iniziative editoriali prestigiose. La piccola patria e la nazione esigono lo stesso rispetto.
Mi sono concentrato sulla figura di studioso, ma l’università del Salento gli deve moltissimo anche sotto il profilo amministrativo e gestionale. Nell’ateneo Marti ha ricoperto cariche importanti, fino a quella di Rettore, agendo sempre con probità e dirittura morale.
Aborro le agiografie, questo ritratto non deve diventare un elenco dei riconoscimenti ricevuti da Mario Marti nella sua vita lunga e operosa. Ma voglio ricordare almeno che il numero 31 (2013) degli «Annali d’Italianistica», importante rivista di Letteratura italiana pubblicata dall’Università del North Carolina, reca in una delle pagine iniziali la seguente epigrafe: «This 31st volume of Annali d’Italianistica is offered in Homage to Mario Marti, scholar and mentor, The Dean of all Italianists Worldwide». È bello, quasi commovente, che una rivista americana abbia deciso di rendere un così diretto omaggio al nostro professore. Noi lo ricorderemo come studioso eminente e guida scientifica, continueremo a leggere i suoi libri da cui molto continueremo a imparare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 5 Febbraio 2015]