Chiara era molto brava in tutto. Le riuscivano benissimo soprattutto le interviste e gli articoli che trattavano le vicende politiche del momento. Lui, invece, era più portato per la letteratura.
– Complimenti, Polimeno! – gli aveva detto il vecchio professore di italiano – L’ultima tua poesia sul giornalino del liceo è veramente bella.
Quel complimento da parte del professor De Minutoli, uomo severo e non certo incline agli apprezzamenti positivi, valeva davvero molto.
D’altra parte, lui aveva già pubblicato un pugno di poesie che erano state salutate entusiasticamente da diversi docenti e persino da un noto critico letterario. Scriveva anche dei bei racconti. Insomma, era quel che si suol dire una giovane promessa.
Chiara, saputo del giudizio del professor De Minutoli, non stava più nella pelle per la gioia.
– Matteo, non ti fermare mai. Continua a scrivere. Il tuo è un dono del Signore: non lo devi sciupare.
Era profondamente convinta che lui potesse diventare un poeta o uno scrittore di fama. E non perché ne era innamorata né per quanto aveva detto il professor De Minutoli. No. La sicurezza che in Matteo ci fosse dell’ottima stoffa le veniva dalle emozioni intense che le suscitava immancabilmente la lettura dei suoi versi e dei suoi racconti. Per lei era quella la prova del nove.
Dopo l’esame di stato, il prof. De Minutoli gli aveva consigliato di iscriversi a lettere. Un suggerimento che senza dubbio rispondeva alle sue inclinazioni. Ma che poteva offrirgli quella strada? L’insegnamento in qualche liceo, con uno stipendio da impiegatuccio. Qualche libro di poesie. Capirai! Carmina non dant panem. L’aveva già detto,venti secoli prima, Orazio.
Così aveva buttato alle ortiche la misera tunica del poeta e si era iscritto a medicina. Chiara, invece, aveva scelto scienze politiche.
Anche durante gli anni dell’università avevano continuato a stare insieme. Tutti gli amici e i parenti erano pronti a scommettere sul loro matrimonio. E invece non ci fu nessun matrimonio.
Lui l’aveva lasciata di colpo, in maniera indegna, senza neanche uno straccio di spiegazione, quando aveva conosciuto Patrizia Beccaris. Eppure l’aveva amata davvero. Ma lui era fatto così.
– Matteo, ti presento Patrizia Beccaris.
Rodolfo Fortis Anguillara, nobile rampollo fuori corso, conosceva mezzo mondo.
– Fortunatissimo. Matteo Polimeno. Posso offrirle qualcosa da bere?
Era stata la svolta della sua vita. L’occasione che aspettava da tanto tempo.
Patrizia era la figlia unica del celebre professor Fulvio Beccaris, titolare di una delle più famose cliniche di chirurgia estetica d’Italia, un’autentica miniera d’oro. Palazzo del Quattrocento in pieno centro storico, ville in campagna e al mare, tenute, tomba di famiglia e palco al teatro lirico di città.
Non era bella come Chiara, non amava le poesie d’amore di Neruda o di Prévert, aveva alle spalle un passato burrascoso che non ne faceva certo un esempio di virtù; ma che importava? Era ricchissima! Era la figlia del prof. Beccaris. L’occasione, più unica che rara, per entrare nel grande giro, nei salotti buoni. Il trampolino di lancio ideale per la sua scalata al successo. Non ci aveva pensato su due volte.
Quella sera non l’aveva mollata un attimo. Alto, aitante, lineamenti regolari, sorriso da simpatica canaglia, aveva nello sguardo magnetico una strana malia, un fascino particolare che in altri tempi si sarebbe detto slavo.
Fare innamorare Patrizia non era stato difficile. Poi il fidanzamento e finalmente l’agognata presentazione ai suoi.
– Ho saputo che studia medicina, giovanotto. Bravo. A quando la laurea?
– Mi mancano solo due esami, professore. E con la tesi sono quasi alla fine.
– Bene, bene. Vedremo il da farsi.
Non era uomo di molte parole, il professor Beccaris.
Patrizia aveva perduto completamente la testa per Matteo. Volle sposarlo ancor prima della laurea. I suoi, dopo una breve quanto disperata resistenza, finirono col cedere. Imposero, però, la scelta della separazione dei beni.
Il matrimonio fu ovviamente pari alla condizione sociale di Patrizia. Abito bianco preziosissimo, fasto principesco e la presenza di tutto il bel mondo.
La luce pioveva dalle ampie finestre della cattedrale sulle statuine dell’altare, sui banchi degli invitati pavesati di gardenie e rose, sugli sposi inginocchiati davanti alla balaustra, avvolgendoli in un’atmosfera trasognata che dava al rito un tocco di favola antica.
La laurea arrivò con una sessione di anticipo e, subito dopo la specialità, anche l’assunzione nella clinica del suocero.
Ancora quell’irritante mormorio che tornava a farsi sentire! Non riusciva a capire da dove venisse. Ma non si poteva distrarre: voleva, doveva ricordare. Ricordare tutto.
Chiara. Non l’aveva più rivista. Sapeva che scriveva per diversi giornali e aveva al suo attivo numerosi saggi storico-politici.
Alcuni mesi prima aveva incontrato per caso un vecchio amico di liceo.
– Matteo. Matteo Polimeno, sei proprio tu? Non ti ricordi di me? Sono Gianni Panico. Quello del primo banco.
Aveva faticato molto a ricordare quel vecchio compagno di scuola che non aveva mai brillato né per intelligenza né per preparazione.
– Eh, che bei tempi quelli del liceo! Io faccio l’agente immobiliare e sono rimasto in paese. Tu sei medico, non è vero?
– Sì, chirurgo plastico.
– Ti ricordi Antonio Campano, quello che parlava sempre in tutte le assemblee? Adesso è sindaco. In paese siamo rimasti solo noi due e Chiara Bellini. Eravate fidanzati allora voi due, no?
Chiara. Un tuffo al cuore.
– Ah, sì, Chiara. Che fa?
– È giornalista, sai? Vive con la vecchia zia. È single.
E così non si era mai sposata!
Lui invece, sposato e divorziato. Ma quello era un altro discorso.
Le cose non erano andate affatto come pensava lui. I Beccaris si erano acconciati a quel matrimonio per l’irremovibile ostinazione di Patrizia, ma non lo avevano mai accettato veramente.
Fredda ed altezzosa, Maria Sofia Veronica Filomarini Torralta, ostentava le sue nobili origini con la stessa superba alterigia con la quale sfoggiava abiti di alta moda e gioielli costosissimi. Con il genero non perdeva occasione per rimarcare le differenze sociali e tenerlo a distanza, come fosse un domestico.
Quando lui si azzardò a chiamarla mamma, lo interruppe immediatamente con il suo stridulo insopportabile tono di voce: – Puoi chiamarmi contessa.
Né mancava mai di metterlo a disagio con gli ospiti. Fingendo con falsa bonomia di scusarne le gaffe, le metteva in evidenza con un piacere perfido e sottile che, almeno momentaneamente, seppure in misura minima, appagava il suo desiderio di vendetta nei confronti di quel genero così orribilmente ordinario e inadeguato.
Con il suocero non era andata meglio. Il professore lo aveva sì assunto nella sua clinica, ma lo trattava sempre come l’ultimo dei suoi dipendenti.
Non solo non gli aveva mai affidato alcun incarico di responsabilità, ma continuava ad ignorarlo completamente. Sempre, in ogni circostanza, come se fosse invisibile. Si rivolgeva immancabilmente a qualcun altro e soprattutto al suo fidato braccio destro, il dottor Antonio De Robertis.
– Antonio, predisponi l’occorrente. Oggi voglio sperimentare la nuova tecnica messa a punto dagli americani per il rifacimento degli zigomi.
– Antonio, sarò assente per tre giorni. Non posso esimermi dal partecipare al congresso di Bologna, dove, come ben sai, dovrò tenere una relazione. Ti affido la clinica.
– Antonio, la signora De Michelis è un po’ sofistica, ma è ricchissima e paga molto bene. Mi raccomando: guanti bianchi, come sai fare tu.
Mai una volta che si rivolgesse a lui, se non per incombenze di poco conto. Compiti che anche un semplice infermiere avrebbe potuto agevolmente sbrigare.
Quante umiliazioni aveva dovuto sopportare! Che frustrazione! Altro che carriera fulminea e brillante!
Ma i guai peggiori erano venuti da Patrizia. Passata l’infatuazione che l’aveva spinta a sposarlo, dopo pochi mesi aveva ripreso la solita vita vacua e dissipata. Festini, discoteche fino all’alba e flirt a non finire.
Le prime notti l’aveva attesa in piedi.
– Tesoro, ma che fai ancora sveglio?! Tra qualche ora dovrai andare in clinica!
Dai, fai il bravo: non mi aspettare. Lo sai che faccio sempre un pochino tardi.
Dopo due mesi dalle nozze aveva ripreso a dormire in camera sua.
– Sai, amore, è più comodo per entrambi. Così non ci daremo fastidio l’un l’altra e riposeremo meglio.
Quanto l’aveva odiata in quei momenti! Quando, invece di chiamarlo semplicemente per nome, gli si rivolgeva con quegli epiteti melensi e stereotipati che per lei – ne era ben certo – non avevano assolutamente alcun significato.
Durante i primi mesi di matrimonio aveva provato a stabilire un minimo di dialogo; ma Patrizia era incapace di sostenere un discorso serio per più di cinque minuti.
– Caro, lo sai che queste cose intellettuali mi fanno venire un fortissimo mal di testa. Tu non mi ami. Se mi volessi veramente bene, me li risparmieresti questi discorsi.
Quando le aveva chiesto di parlare con suo padre per convincerlo a dargli un po’ più di spazio in clinica, cosa gli aveva risposto?
– Gioia, ma lo sai che non ci capisco nulla di queste cose. E poi papà non permette nemmeno a mia madre di intromettersi nel suo lavoro: figurati se dà ascolto a me.
Alla fine si era rassegnato. Aveva finito per consolarsi con altre donne. Era pur sempre un bell’uomo e nell’ambiente dei Beccaris le donnine facili si sprecavano.
Ancora quel dolore all’addome! Stavolta era durato di più. E si sentiva di nuovo quel misterioso borboglio. Ma i ricordi si accavallavano nella mente con forza inarrestabile.
A Patrizia non importava nulla delle sue avventure. Poi, all’improvviso, il patatrac! Fu quando scoprì che da quasi un anno aveva un’amante fissa, molto più giovane di lei: la figlia della sua migliore amica, Beatrice Orsini. Eh, no. Questo non poteva sopportarlo. E non certo perché lo amasse. Non poteva tollerarlo perché quella relazione con una donna più giovane di lei, e per giunta figlia di Beatrice, la esponeva ai lazzi e alle frecciatine velenose delle sue amiche. Si era rivolta a maman, la quale, pur essendo perfettamente a conoscenza di tutto, finse di cadere dalle nuvole per dare alla vicenda un tocco scandalistico che le avrebbe consentito di intervenire in maniera drastica e definitiva.
-Povera piccola, chissà quanto soffri. Quel miserabile cialtrone! Che vergogna per il nostro casato! Ma tu non preoccuparti. Ci penserà maman a sistemare tutto, una volta per sempre.
L’ineffabile Maria Sofia Veronica aveva incaricato la migliore agenzia investigativa della città. Le prove dell’adulterio raccolte dai segugi erano numerose e schiaccianti.
– Tocca a te scegliere. O una separazione consensuale senza alcuna richiesta da parte tua o la causa in cui, a malincuore, saremmo costretti a tirare fuori le foto della tua indegna tresca con quella giovane cocotte.
Ah, sì. La sua era una “indegna tresca”. Invece, la vita che menava Patrizia, i suoi innumerevoli flirt, le corna di cui lo aveva adornato pubblicamente tante volte, erano esempi di muliebre virtù! Ma tant’è. Si era dovuto piegare, ancora una volta.
Non avrebbe mai potuto dimenticare il perfido sorrisetto di sua suocera e lo sguardo di sufficienza che gli aveva gettato. Traspariva chiaramente la maligna soddisfazione della nobildonna che finalmente aveva avuto ragione di quel miserabile arrampicatore sociale.
Separazione e licenziamento furono tutt’uno.
Era sprofondato di colpo in un abisso. In città le porte erano tutte sbarrate. Ci aveva pensato l’onnipotente professor Beccaris a fargli terra bruciata intorno.
Ma gliela avrebbe fatta vedere lui! Non sapevano di cos’era capace. Avrebbe ripreso a studiare, avrebbe partecipato ad un concorso a cattedra, avrebbe… E invece, no.
Aveva dovuto cambiare regione. Ricominciare tutto daccapo in un piccolo ospedale di provincia, come un giovane neolaureato.
Era riuscito a malapena a restare a galla: vice primario in un ospedale di provincia. Non era certo quello che aveva sognato.
Di nuovo quel confuso borbottio che lo distraeva. Ma da dove veniva? Cos’era? Non aveva importanza. Ora doveva ricordare. Solo questo contava.
Patrizia. Ma cosa aveva raccolto con quella sua scelta? Ben poco, rispetto alle sfrenate ambizioni giovanili.
Certo, se non avesse lasciato Chiara, la sua vita sarebbe stata completamente diversa. Avrebbe potuto vivere con una donna meravigliosa che lo amava profondamente. Avere dei figli. Una famiglia.
Avrebbe potuto insegnare, forse anche all’università. E pubblicare dei libri. Conoscere la fama. Lasciare una traccia di sé ai posteri, forse. E invece no. Ma poteva almeno diventare primario. Era ancora relativamente giovane e con un po’ di fortuna e la raccomandazione giusta poteva ancora farcela. Almeno, se non la ricchezza, una vita agiata. E, soprattutto, la possibilità di tiranneggiare a suo piacimento i medici del reparto. Rifarsi di tutte le umiliazioni che aveva subito. Prendersi la rivincita. Riscattarsi. Comandare il reparto. Comandare. Comandare. Comandare.
Per un attimo aveva assaporato l’acre sapore della vendetta. Poi, di colpo, aveva sentito confusamente che non ce l’avrebbe fatta. Perché? Non lo sapeva; ma sentiva che era così. Era così per un qualche motivo che al momento gli sfuggiva, che non riusciva a ricordare. Ricordava le vicende lontane, ma non i fatti più recenti. Come se li avesse dimenticati o volutamente rimossi.
Quel maledetto mormorio era diventato ancora più forte, veramente intollerabile.
– Per questa santa unzione e per la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore…
Ah, dannazione! Era troppo tardi. Ecco perché. Era troppo tardi. Glielo aveva detto chiaro il dottor Pelli.
– Metastasi. A stella, in tutto l’intestino. Ha aggredito anche il fegato. Inutile qualsiasi intervento.
Adesso ricordava tutto con estrema lucidità. I due mesi di chemioterapia, le dimissioni. Morire almeno nel proprio letto.
Già. Sai che bella soddisfazione! Morire con nelle orecchie quell’insopportabile brusio, circondato da parenti e colleghi che, del tutto indifferenti alla sua sorte, continuavano a chiacchierare amabilmente dei loro affari o degli ultimi pettegolezzi.