di Franco Melissano
Fu un attimo di debolezza quel suo abbandonarsi all’onda dei ricordi.
Di colpo il sapore dolcemente triste della nostalgia impregnò di sé quel suadente sciabordio di vicende sepolte da anni nei recessi più oscuri della sua mente. All’improvviso, quasi a tradimento.
Poi una fitta dolorosa al ventre, come il morso di un cane rabbioso che si ostinasse a non mollare la presa. Il dolore durò soltanto pochi minuti.
Ecco, adesso riandava agli anni della sua giovinezza. Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria. Chi l’aveva detto? Ah, sì. Dante Alighieri. Francesca da Rimini. Quanto le piaceva quel canto a Chiara! E quante volte glielo aveva recitato lui, con la sua calda voce baritonale, nelle sere d’estate, quando si appartavano negli angoli più bui dei giardini pubblici, per restare un po’ soli a sbaciucchiarsi, sussurrandosi le solite frasi d’amore che si dicono tutti gli innamorati del mondo.
Chiara. Bella, intelligente, semplice, solare. Nomina sunt consequentia rerum. Maledetta cultura classica! Che tormento! Tornava sempre a galla, inesorabile, con il cipiglio severo degli antichi eroi… Socrate, gli stoici, Catone l’Uticense… per ricordargli quello che avrebbe potuto fare e non aveva fatto. Anzi, peggio ancora, quello che avrebbe potuto essere e non era stato.
Anche con Chiara era andata a finire così. Le piaceva molto, ne era innamorato, ma l’aveva lasciata.
Un lontano brusio, quasi impercettibile, ma che lui avvertiva con stizzoso fastidio, interruppe il corso dei suoi pensieri. Non doveva distrarsi! Dov’era rimasto? Ah sì, Chiara. L’aveva conosciuta a scuola. Dopo le ginnasiali di soli maschi, finalmente in prima liceo erano arrivate le classi miste. Gli anni del liceo erano stati i più belli. Avevano filato d’amore e d’accordo. Insieme in classe, negli scioperi, nelle manifestazioni, nel giornalino della scuola. Praticamente inseparabili.