Sembra di capire che proprio a causa di questo stato di cose l’A. ha concepito la “sfida” (p. XII) di trattare “alcune particolarità del greco antico” in modo meno pedante e repulsivo di quello adottato nelle scuole. Per raggiungere questo obiettivo l’A. ha adottato un metodo ben preciso, quello della semplificazione del linguaggio e della attualizzazione dei contenuti. Un primo esempio di questo secondo procedimento è costituito dalla storiella che l’A. sceglie per illustrare l’aspetto verbale (p. 8): quella di due giovani che nel 487 a.C. in un bar (?) del Pireo bevono vino e si ubriacano e, per non pagare il conto, fuggono via. L’aspetto verbale è illustrato dalle tre possibili modalità con cui l’oste, utilizzando tre temi diversi del verbo φεύγειν, potrebbe esprimere il suo disappunto per la fuga degli avventori. Come l’A. esemplifica, egli potebbe usare l’aspetto e il tema del presente, φεύγουσιν, “stanno scappando”, oppure l’aspetto e il tema dell’aoristo, ἔφυγον, “non gli verrà mica in mente di fuggire”, oppure l’aspetto e il tema del perfetto, πεφεύγασιν, “sono scappati”. In questa esemplificazione lascia perplessi il modo in cui è resa la forma dell’aoristo, anche se subito dopo si precisa che “l’azione di fuggire è considerata come un fatto in sé, senza alcun riferimento alla durata”. Allora sarebbe stata più chiara una traduzione quale “sono fuggiti in un battibaleno (tanto che io non me ne sono accorto)”. Per fortuna, il valore aspettuale dei temi è chiarito nelle pagine successive (pp. 12-13) dove si dice che il tema del presente esprime l’azione durativa, il tema dell’aoristo l’azione momentanea e il tema del perfetto l’azione compiuta, di cui restano le conseguenze. Ma anche qui, inspiegabilmente, della forma dell’aoristo ἐκάλεσα si dice che “esprime l’idea” di chiamare. Forse una eccessiva semplificazione ha nociuto alla necessaria precisione.
Tuttavia, su un punto l’A. ha pienamente ragione, che all’aspetto verbale, una “precisa categoria grammaticale” del greco antico (p. 10), è riservato poco spazio nei manuali scolastici di uso corrente. (Si presume che questa lacuna sia stata colmata nel corso degli studi universitari). Quindi bene ha fatto l’A. a dedicare un capitolo specifico ed ampio ad illustrare il fenomeno. L’A. condanna senza appello la prassi scolastica di fare imparare a memoria lunghi elenchi di verbi “senza nemmeno capirne il senso” (p. 7). Non so se le cose stiano effettivamente in questi termini, ma, pur non giustificando tale prassi, occorre dire che, senza una conoscenza sicura delle forme verbali (e dei loro significati!) un discorso sull’aspetto che esse esprimono è piuttosto aleatorio.
L’A. osserva, con rammarico, che noi non capiamo più il valore dell’aspetto greco “perché da oltre un paio di millenni il nostro sentimento linguistico – cioè il nostro modo di vedere il mondo e di esprimerlo a parole – ne è sprovvisto. Anzi, peggio: l’ha abbandonato, perduto da una tasca bucata” (p. 12). Anche se, come rileva poco sopra la stessa A., l’italiano non ha perduto il senso dell’aspetto, ma lo esprime in altri modi, il fenomeno non è dovuto ad una oscuro processo storico, ma ad una causa ben precisa: il fatto che il sistema verbale italiano è strutturato su quello latino, in cui i valori temporali prevalgono su quelli aspettuali, mentre, come risulta dal libro in oggetto, in greco l’aspetto verbale prevale sul tempo.
Il capitolo sull’aspetto verbale è quello in cui si nota uno sforzo maggiore di originalità forse perché l’A. ha voluto riscattare questo argomento dall’ingiusto silenzio a cui lo hanno condannato le grammatiche tradizionali. I capitoli successivi hanno un carattere più manualistico, nel senso che riferiscono nozioni largamente presenti nei manuali di vario livello. Essi sono dedicati, in successione, agli spiriti ed agli accenti delle parole, ai generi ed ai numeri della declinazione e della coniugazione, ai casi della declinazione, ai modi del verbo (con particolare attenzione all’ottativo).
Il metodo di trattazione è sempre lo stesso: la semplificazione del linguaggio e l’attualizzazione dei contenuti. Con la prima si intende la rinuncia ad ogni terminologia tecnica; con la seconda si intende l’adozione di una maniera espositiva che presenti i problemi come se fossero vivi, attuali. In tal modo l’A. pensa di raggiungere l’obiettivo di rendere facile la materia, ma soprattutto di farla amare al lettore; un obiettivo, questo, che la scuola, a parere dell’A., ha mancato.
Per fare qualche esempio di semplificazione, così l’A. espone la legge relativa agli accenti (p. 40): “Riguardo agli accenti…ci sono molte leggi da imparare, tutte difficilissime, forse riservate a chi possiede un forte senso del ritmo di cui io sono evidentemente sprovvista (del resto non so ballare nemmeno latinoamericano), essendo il greco una lingua musicale. La più comune – e la più sicura àncora di salvezza – è la legge del trisillabismo, detta anche legge di limitazione, poiché procede per esclusione: se l’ultima sillaba della parola è breve, l’accento può risalire fino alla terzultima sillaba (quindi tre possibilità). Se invece l’ultima sillaba è lunga, l’accento può risalire fino alla penultima (due possibilità)”. Senza alcuna precisazione relativa agli accenti (acuto, grave, circonflesso) di cui ha parlato a p. 35.
Per quanto riguarda l’attualizzazione dei contenuti, l’A. cerca di illustrare la perdita di percezione della pronuncia del greco portando l’esempio della fonetica dell’italiano (pp. 29-30): “Considerate, per un attimo, tutte le varianti dialettali dell’italiano esistenti oggi. Se dovessero scomparire improvvisamente, se non dovesse più esistere un solo parlante di friulano o di pugliese e se nessuno ne avesse conservato accurata testimonianza scritta, come potremmo tramandare i suoni delle nostre parole? Se un giorno si perdesse memoria dell’accento toscano, ad esempio, ma restassero solo i testi in lingua italiana, come risalire alla tipica aspirazione della ‘c’, la cosiddetta ‘gorgia toscana’ ?”.
Sono solo alcuni esempi tra tanti. In alcuni casi l’A. fa riferimento a situazioni personali, come quando parla del suo nome, Andrea, nome maschile, per spiegare l”arbitrarietà’ dei generi in greco (p. 54), oppure quando espone la sua disavventura nella traduzione di un brano intitolato “Il ratto delle Sabine”, in cui il termine “ratto” è stato inteso come sinonimo di “topo”, con tutti i fraintendimenti che ne sono conseguiti (pp. 111 sgg.).
L’intento dell’A. è quello di evidenziare, più che le regole grammaticali, la capacità espressiva del greco; per questo ella esprime il rammarico per la perdita di importanti categorie grammaticali come ad es., oltre all’aspetto verbale, il duale e l’ottativo, “il modo del desiderio”.
Tuttavia, proprio questo sforzo di semplificazione e di attualizzazione può portare alla perdita di precisione e, in qualche caso, anche alla banalizzazione. Di questi fatti si fa qui qualche esempio.
P. 18 “Θνήσκω [meglio θνῄσκω], ‘muoio’, ha solo il tema dell’aoristo…”: l’osservazione è contraddetta proprio dalla forma citata, e da quanto l’A. dice a p. 146: “sebbene…il verbo greco θνήσκω, ‘morire’, ammetta solo l’antico aspetto presente, perché o sei vivo o non lo sei più”.
P. 42 dire che “tragedia e commedia (preferivano)…i metri eolici per il coro” è del tutto fuorviante rispetto alla varietà metrica dei testi tragici e comici. Comunque, insistere eccessivamente sulla impossibilità di comprendere la poesia quantitatibva greca, come si fa in queste pagine, è un errore; bisogna dire che la filologia classica ha trovato una serie di criteri, attinti alle fonti antiche, per studiare la metrica dei testi poetici, criteri che ci consentono di entrare nel “silenzio della lingua” costituito dagli schemi metrici quale quello pubblicato a p. 43.
P. 52 “Ὁ λύχνος è ‘la fiaccola’, maschile, ma ‘la luce’ è neutro, τὰ λύχνα”: no, al plurale significa ancora ‘le fiaccole’.
P. 71 ” moto a luogo (τὰς Δελφιάς, ‘verso Delfi’): il sostantivo non risulta attestato in greco antico.
P. 72 n. 1 “il verbo πάσχειν che indica ‘ricevere qualcosa in sorte’: è il significato di λαγχάνω.
P. 79 a proposito delle accezioni locali dei casi (genitivo, moto da luogo, dativo, stato in luogo, accusativo, moto a luogo) andrebbe precisato che nella prosa questi casi sono accompagnati da preposizione (rispettivamente ἀπό ed ἐκ, ἐν, εἰς o ἐς).
PP. 86-87 occorrerebbe chiarire, nella esposizione o nello schema, che il valore di possibilità o irrealtà con l’ottativo e l’indicativo, è ottenuto con l’uso della particella ἄν.
Gli ultimi due capitoli non sono dedicati a fenomeni grammaticali, ma a problemi più generali, la traduzione e l’evoluzione storica del greco.
Per quanto riguarda la traduzione, l’A. cerca di immedesimarsi nelle difficoltà dello studente liceale (di cui lei stessa è stata partecipe) e di suggerire tutte le strategie utili per tradurre una pagina di greco (la principale è, a suo parere, quella di “sentire ciò che il testo sta dicendo per poi dirlo nella nostra lingua”: p. 106). Senza condannare i sotterfugi consigliati, forse bisognerebbe dire che per tradurre un brano di greco lo studente deve possedere un vocabolario di base da cui attingere i termini che possono orientare nella individuazione del senso generale del brano, che poi condizionano la definizione dei singoli termini. Ma bisogna aggiungere che la cura di questo particolare aspetto della conoscenza della lingua non è abbastanza curata dalla scuola (almeno in generale) che, forse per necessità, insiste di più sulle regole e sulle particolarità grammaticali.
L’A. lamenta giustamente che le versioni proposte sono spesso criptiche nei loro contenuti, non sempre sufficientemente noti. E non si tratta solo di contenuti storici, ma anche più largamente antropologici, relativi alle istituzioni materiali, pubbliche e private, dei Greci. Ma si possono dare informazioni su questi argomenti nei tempi che sono riservati all’insegnamento del greco nell’orario scolastico? Forse la soluzione sta nella prassi di far precedere i brani proposti da una breve introduzione che li contestualizzi nei suoi contenuti, che lo studente può o no conoscere.
Nello stesso capitolo l’A. mette in opposizione la “traduzione scolastica” (o letterale) e la “traduzione libera”, dandone un esempio concreto. Senza entrare nel merito del problema generale della traduzione (uno dei più delicati relativi al nostro rapporto con i testi classici), mi sento di poter dire che le due modalità di traduzione debbono essere considerate nella loro funzionalità reciproca: la traduzione letterale è la base di una traduzione libera che voglia essere rispettosa del testo di partenza e non una arbitraria manipolazione. E comunque, nella prassi scolastica la traduzione ‘letterale’ è preferibile perché consente di verificare meglio il possesso della lingua (se è questo che si vuole verificare) da parte dell’alunno.
Il capitolo finale è un excursus sulla storia della lingua greca quale si può incontrare in un buon manuale (in particolare in quello di Meillet, che l’A. dimostra di apprezzare particolarmente).
Ma anche in questi ultimi capitoli lo sforzo di semplificazione e di attualizzazione può portare a risultati problematici. Ecco qualche esempio.
P. 120 “‘telefono’ significa ‘chiamare da lontano’, dal sostantivo φωνή (voce) e dal verbo φωνάζω (chiamare)”: l’etimologia è piuttosto confusa e comunque il verbo φωνάζω non è implicato.
P. 133 “Ogni verbo possiede due diatesi, attiva e media/passiva…”: le diatesi sono tre, attiva, media e passiva.
P. 141 “Di questo nuovo passo avanti dell’evoluzione del greco (scil. della κοινή) si hanno poche notizie, per lo più papiri di scarso valore e le opere del Nuovo testamento, tutte scritte nel greco della κοινή”: viene trascurato il contributo di autori quali Polibio, Plutarco, giustamente citati a p. 144 (ma anche di altri).
Non si darebbe un resoconto completo del libro se non si aggiungesse che l’esposizione è completata da alcuni box che trattano dei più svariati argomenti, linguistici, storici, antropologici, ed anche didattici. Ma anche in questi spazi si lascia desiderare una maggiore accuratezza. Ecco qualche esempio.
P. 11 non si provoca nessun danno se si cita il testo esatto del passo di Alceo che è οἶνος…καὶ ἀλάθεα.
P. 21 va detto che dell’ Intermediate Greek-English Lexicon è stata fatta una traduzione italiana a cura di Q. Cataudella, M. Manfredi e F. Di Benedetto, pubblicata da Le Monnier nel 1975, che, inspiegabilmente, non ha avuto molta fortuna.
P. 93 i Nostoi non sono “un insieme di poemi epici greci”, ma un poema diviso dagli Alessandrini in 5 libri; più sotto, il titolo esatto è Etiopide, non Etiope.
P. 95 “Omero ed Esiodo facevano epica e non poesia”: in questi termini l’affermazione è fuorviante.
P. 96 “…o, come Alceo, canti il suo spiccato alcolismo”: se non vuole essere una battuta ad effetto, l’affermazione rientra nei più vieti pregiudizi sul poeta, che fraintendono il carattere simposiale dei suoi componimenti.
P. 96 ” E perché Pindaro fu poi tanto celebrato e tramandato come vate della purezza poetica senza tener conto anche dell’occasiome e della specifica professione?
Io ho una mia personalissima teoria: perché non si capiva nulla di quello che scriveva, nonostante la bellezza indiscussa di ogni singola parola utilizzata. Cosa sono i famosi voli pindarici se non le parti in cui si capisce meno del solito? Mai conosciuto uno che l’abbia capito a fondo, Pindaro. Giudizio che condivido con Voltaire, che scrisse: «Pindaro, che tutti esaltano e che nessuno comprese»”.
Il giudizio, del tutto sommario, rivela una totale estraneità dell’A. rispetto al testo di Pindaro ed offende i numerosi sforzi, anche italiani, di chiarire i suoi componimenti con commenti analitici. In questi si trovano anche osservazioni utili per comprendere i cosiddetti ‘voli pindarici’, che non sono punti in cui si capisce poco, ma punti in cui si verificano i passaggi tra i vari temi che compongono il testo (attualità, mito, gnome).
Infine, si rilevano alcune sviste, da ricondurre probabilmente ad errori tipografici:
p. 56 τὼ ἀδελφώ, non τὼ ἀδελφῶ;
p. 149 Ῥωμαῖοι, non Ῥωμαίοι.
In
definitiva, pur con i limiti sopra evidenziati, l’A. ha voluto offrire un
panorama sintetico delle questioni fondamentali della lingua greca. Esso
costituisce una prima informazione che però deve essere approfondita in sede
più specifica. L’A. vuole attrarre nuovi lettori ai testi in lingua greca. Se
questo valga anche per coloro che sono del tutto ignari della lingua, come la
stessa A. auspica (p. X), è discutibile. Le nozioni che ella illustra sembrano
richiedere una conoscenza preventiva della lingua. Tuttavia va lodato l’intento
di fondo: far amare il greco. Al quale ci si può accostare proficuamente anche attraverso
le buone traduzioni che l’editoria italiana offre e che possono far conoscere
ai lettori interessati la ricchezza di una letteratura che a buon diritto è
alla radice delle letterature europee.
[1] Il libro ha conosciuto nel 2018 una ristampa distribuita con il quotidiano La Repubblica.