Scritti ecologici. Anno 2013

I politici che dovremo scegliere sono il frutto di scelte fatte dai partiti. Le liste sono decise, più o meno. Voterò per chi mi dimostrerà di avere a cuore, e di aver capito, la gravità della situazione ambientale, dalla scala di comune a quella planetaria. Ma aver capito non basta, bisogna anche proporre una politica adeguata per cambiare la situazione. Prima che gli scandali travolgessero il San Raffaele, la proposta di risolvere i problemi di salute dei tarantini, a seguito della presenza dell’ILVA, era di fare un bell’ospedale per la cura delle malattie polmonari. In medicina, una scelta del genere significa curare il sintomo senza rimuovere la causa. Chi ha portato avanti, per un po’, quella proposta aveva almeno capito che c’era qualcosa che non va, solo che proponeva una soluzione di basso profilo. Gli altri proprio negavano il problema. 
La visione scellerata della crescita economica ha rovinato l’economia perché abbiamo seguito ciecamente i dettami degli economisti (chi studia la natura è stato ignorato completamente) e… eccoci qua. Oltre ad aver rovinato l’economia, questa visione ha rovinato l’ambiente. Oggi, se dovessimo sanare i danni fatti da questo “modello di sviluppo”, non basterebbe tutto quello che abbiamo guadagnato perseguendolo. 
La politica ambientale deve essere al primo posto nell’agenda di un partito serio. Anche perché dovremo trovare lì le risorse per rilanciare l’economia. L’Europa è molto sensibile ai problemi ambientali. Ci sono grandissimi investimenti che di solito perdiamo per insipienza progettuale e che potrebbero essere utilizzati per mettere in sicurezza il nostro territorio. Innescare questo processo, utilizzando al meglio i fondi europei, darebbe un vigoroso rilancio all’economia. Invece siamo maestri nelle truffe per gli incentivi per le rinnovabili. E anche la questione ambientale viene strumentalizzata per fini spregevoli. Scegliere una strada rispettosa della natura dovrà portare innovazione tecnologica, rinaturalizzazione dei territori, risanamento edilizio, razionalizzazione delle infrastrutture, nuove politiche energetiche e di produzione alimentare, e molte altre politiche che non prevedono ristrettezze e disagi. Prevedono solo serietà e lungimiranza. 
Chiedete queste cose ai partiti che vi chiederanno il voto. Cercate nei loro programmi e guardate se queste cose sono nelle agende, e quale rilievo viene dato loro. Per il momento vedo che questi temi non sono trattati con la serietà che meritano. Ma c’è ancora tempo… vedremo.

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Democrazia, scienza e tecnologia

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 20 gennaio 2013]

Una breve ma intensissima presenza a Lecce di Mario Capanna (presidente della Fondazione per i Diritti Genetici) ha innescato una serie di dibattiti su scienza e democrazia a cui hanno partecipato diversi esponenti della scena culturale salentina, da Mario Signore a Alberto Basset a Nicola Grasso. Uno dei temi centrali è stata la discussione sul valore della scienza nell’interpretare e determinare la nostra realtà. In senso negativo, la pervasività della scienza viene etichettata scientismo. Ci sono diverse definizioni di scientismo, basta cercare in rete. Una postula l’indebita estensione di metodi scientifici ai più diversi aspetti della realtà. Un’altra definisce lo scientismo come una tendenza ad attribuire alle scienze fisiche e sperimentali e ai loro metodi, la capacità di soddisfare i nostri bisogni.

In un certo senso, quindi, viene messo in dubbio il valore assoluto della scienza e, per usare parole care ai papi, si propone invece di relativizzarne l’importanza. A volte ci affidiamo alla scienza, ma a volte c’è di meglio…

La prima cosa da chiarire è la distinzione tra scienza e tecnologia. La scienza è il modo con cui cerchiamo di diminuire l’ignoranza. La scienza identifica l’ignoranza e poi usa i suoi metodi per aumentare la conoscenza, in modo da diminuire l’ignoranza stessa. La tecnologia usa la conoscenza acquisita con la scienza al fine di modificare la realtà. I metodi che la scienza usa sono essenzialmente due: quello sperimentale e quello comparativo. Il metodo sperimentale permette di testare un’ipotesi scientifica ricostruendo la realtà in condizioni controllate, verificando se le situazioni create “in condizioni sperimentali” confermano o rigettano le ipotesi. Gli esperimenti di Galileo sui gravi lasciati cadere dalla torre di Pisa sono un paradigma del metodo sperimentale che, spesso, viene anche chiamato galileiano. Ci sono ambiti in cui non si possono fare esperimenti probanti, e, in questi casi, si ricorre al metodo comparativo: si confrontano porzioni di realtà in modo da giungere a conclusioni scientificamente coerenti. L’origine delle specie, per esempio, non è facilmente ottenibile in laboratorio, manipolando organismi complessi (con organismi semplici è più facile, ma poi bisogna trovare accordo su cosa sia una specie). Che domande mi posso fare sull’origine della nostra specie? Posso fare esperimenti in cui riesco, in laboratorio, a fare un uomo a partire da organismi non umani? Non si può, e non si può fare neppure con altre specie animali. Però posso confrontare l’architettura di un umano e confrontarla con quella di tutti gli altri animali. E si può anche confrontare il genoma umano con quello di tutti gli altri animali. Quando vediamo che il 98% della nostra informazione genetica è identico a quello dello scimpanzé, e che anche l’anatomia e la fisiologia sono molto simili, possiamo dedurre che uomo e scimpanzé hanno una storia evolutiva che si è disgiunta in tempi relativamente recenti. Se poi studiamo i fossili, e cerchiamo testimonianze di specie passate, possiamo trovare tracce di organismi che precedono la nostra specie. L’insieme di queste comparazioni (anatomiche, genetiche, paleontologiche) ci permettono di elaborare una teoria scientifica riguardo l’origine dell’uomo. Non potremo mai fare un esperimento che, in laboratorio, ci permetta di ottenere un umano a partire da una specie non umana. Se studiamo i fossili possiamo vedere che, in ere geologiche passate, l’uomo non era presente. Poi ci sono resti fossili simili a noi (ma non uguali) e poi arriviamo noi. Tutto questo ci dice, in modo comparativo, che noi deriviamo da altri organismi, diversi da noi. E tutti i viventi di oggi derivano da antenati diversi da loro, che oggi non ci sono più. Partendo da questi presupposti si costruisce la teoria dell’evoluzione, una teoria scientifica che, per il momento, ha molti più riscontri di tutte le altre teorie che vorrebbero spiegare la nostra esistenza e quella della altre specie che abitano il pianeta. Se ne troveremo una più solida, abbandoneremo l’attuale e abbracceremo quella con maggiori possibilità di rispondere alla domanda: da dove veniamo?
La tecnologia, vale la pena ripeterlo, usa la conoscenza acquisita con la scienza in modo da trasformare la realtà. Una volta che la scienza ci dice che i viventi sono codificati in base a un’informazione molecolare (il DNA) possiamo pensare di modificare il DNA dei viventi in modo che risponda a nostre esigenze. Oppure possiamo scoprire la struttura della materia (attraverso l’indagine scientifica) e poi, con la tecnologia, possiamo costruire bombe atomiche o centrali nucleari. E’ bene o è male conoscere? Mi sento di dire che è bene! Però divento molto più cauto quando mi si chiede se è bene o è male usare la tecnologia per modificare la realtà. Nel momento in cui si pongono queste domande entrano in campo altre discipline, eminentemente filosofiche, come la filosofia morale, inscrivibili poi all’interno di norme giuridiche. Accade, però, che chi pratica queste discipline confonda la scienza con la tecnologia, ed è oltremodo necessario che scienziati, tecnologi, filosofi, giuristi, economisti, storici, e tante altre figure, interagiscano per districarsi in questi problemi di importanza capitale. In modo che la “comunità scientifica” allargata a tutte queste figure metta a disposizione di tutti un bagaglio di conoscenza tale da permettere di prendere decisioni “democratiche” basate sulla consapevolezza. 
Il raggiungimento di questa consapevolezza è ancora molto lontano dall’essere attuato, a causa delle barriere tra le discipline. Ma è solo così che si costruisce il progresso delle conoscenze, ed è questo che dovrebbe essere il fine ultimo dell’Università. Di questo, e di molto altro, si è discusso con Mario Capanna in tre intensissimi giorni. E di questo si dovrà sempre più occupare l’Università.

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Cemento e paesaggio: come saremo ricordati?

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 22 febbraio 2013]

In occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’ISUFI, il 19 febbraio, il prof. Salvatore Settis ha tenuto una lezione magistrale sul patrimonio culturale. E’ stata un’occasione preziosa di apprendere, almeno in parte, la “visione” dei beni culturali di uno degli studiosi più autorevoli del mondo in questo campo. Grande merito, quindi, al Presidente dell’ISUFI, il prof. Loris Sturlese, e al prof. Francesco D’Andria, nostro eminente archeologo, collega di Settis, per averlo invitato. Settis ha parlato della cementificazione del territorio italiano. Ha parlato dell’Articolo 9 della Costituzione, dove il paesaggio e i beni culturali sono tra i caposaldi dei nostri valori condivisi. Ha denunciato come sia in corso una sistematica distruzione di quello che abbiamo ereditato dai nostri antenati, e ci ha ricordato come, in passato, la bellezza degli interventi architettonici fosse un requisito imprescindibile di qualunque opera. Mentre parlava di questi principi, che solo un folle (o un palazzinaro) potrebbe ritenere solo romantiche velleità, pensavo… Eravamo nel centro congressi di Ecotekne e le immagini a supporto della presentazione erano proiettate su due schermi, uno a sinistra e uno a destra del palco. Eh già, chi ha progettato quella sala non ha pensato che fosse necessario uno schermo, e quindi ci dobbiamo accontentare di soluzioni posticce. Per fortuna, nel complesso di Ingegneria, a poche decine di metri di distanza, c’è un’altra sala, altrettanto grande, con un efficacissimo sistema di proiezione. Che senso ha avere due sale? Sono usate entrambe in modo intensissimo? Abbiamo veramente bisogno di due aule magne a pochi metri di distanza una dall’altra? Non ne sarebbe bastata una, pienamente funzionale?

Pensavo al Pastis di Brindisi, oramai defunto, per il quale sono stati costruiti edifici, e poi pensavo al nuovissimo palazzone con il Dipartimento High-Tech, appena costruito accanto a Ecotekne, e al centro di Nanotecnologie del CNR, nelle immediate vicinanze. Grande sovrapposizione di finalità, grande copertura di suolo con cemento. Pensavo ai 120 milioni di euro di appalti che la nostra Università sta mettendo o ha messo in cantiere. Pensavo ai pali del filobus, e alla linea che non arriva a Ecotekne. Mentre ascoltavo Settis che faceva vedere il grattacielo progettato vicino a Venezia, pensavo al grattacielo di 14 piani previsto per ospitare Ingegneria, sempre ad Ecotekne, in aggiunta ad altri due palazzoni. Ricordavo la presentazione di quelle opere, avvenuta poco tempo fa nell’aula magna di Ingegneria, e confrontavo quella presentazione con l’accorato appello di Settis. A quale copertura di suolo porteranno? Quanto cemento sarà versato ancora sul povero Salento? Abbiamo veramente bisogno di tutte queste cubature? Saremo in grado di gestirle in modo valido, di riempirle di contenuti (visto l’esito del Pastis)? Aggiungeranno veramente bellezza al nostro territorio? 
Intendiamoci, le Università hanno spesso salvato dal degrado magnifici edifici storici e li hanno rimessi a nuovo, dando loro una nobile destinazione, e la nostra Università non fa eccezione. Spesso, la bellezza delle strutture non coincide con la loro funzionalità. Vincoli architettonici non permettono di mettere a norma gli impianti e di perseguire le finalità di moderni laboratori scientifici e tecnici. E’ meglio costruire ex novo. Gli Olivetani, per esempio, sono un magnifico prodotto di architettura, ma non hanno una grande sala dove ospitare congressi o iniziative. Un complesso enorme, con un grossissimo limite. Lo stesso dicasi per l’edificio che ospita il Rettorato. Erano conventi, e la grande sala c’è eccome: è la chiesa! Gli architetti del passato sapevano il fatto loro, e ci avevano pensato. Sono felicissimo di avere a disposizione i laboratori di Ecotekne, e non penso che un edificio storico potrebbe offrire le stesse opportunità. Non credo che ogni costruzione nuova sia inutile, sarei un fesso a pensarlo. Ma penso comunque all’analisi costi benefici di ognuna di queste costruzioni. Settis ha parlato di obbrobri scaturiti a fianco a paesaggi dichiarati patrimonio UNESCO, obbrobri che vantano proprio la vicinanza con il patrimonio UNESCO  a garanzia della propria qualità! Penso alla bellezza delle nostre coste, deturpata da decine di migliaia di costruzioni abusive (magari condonate) che sono state costruite proprio perché i posti erano “belli”. Distruggendo la loro bellezza. Settis ha parlato anche di ambiente. Non mi pare abbia mai usato la parola Natura. Nell’Articolo 9 la Natura deve trovare posto accanto a Paesaggio e Patrimonio Culturale. Esiste anche una proposta di modifica costituzionale in tal senso, scaturita proprio dal circolo di Libertà e Giustizia di Lecce. Il paesaggio è solo una parte della natura, ma non la comprende del tutto. E’ la natura a comprendere il paesaggio, e non viceversa, e non si può prendere una parte per il tutto! Lo sviluppo del nostro Paese non può prescindere dal fatto che l’Italia, davvero, è percepita ovunque come il posto più bello del mondo, per la sua natura, per il suo patrimonio culturale e per il suo paesaggio. Abbiamo una grande, grandissima responsabilità e non possiamo, in nome di uno sviluppo economico effimero, dilapidare quello che i nostri predecessori hanno costruito durante millenni di civiltà. Come saremo ricordati? A questo pensavo, tornando nel buio, in bicicletta, da Ecotekne verso Lecce, mentre le auto mi sfrecciavano accanto e cercavo di evitare i buchi nella strada e gli inutili pali del filobus.

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I pescatori di Porto Cesareo amici dello squalo elefante

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 5 marzo 2013]

Sabato mattina i pescatori di Porto Cesareo hanno catturato uno squalo elefante di otto metri. Si tratta di uno squalo innocuo: mangia piccoli crostacei proprio come le balene. E’ abbastanza comune nei nostri mari, ed è famosissimo il video di due amici pescatori (uno si chiama Gianluca) che, al largo di Frigole, incontrarono questo gigante. 
I pescatori di Porto Cesareo collaborano da tempo con l’Area Marina Protetta, anche con progetti di ricerca per ottimizzare le tecniche di pesca, in modo da non catturare i pesci quando sono ancora troppo piccoli, per non depauperare una risorsa preziosa. 

I pescatori sanno che lo squalo elefante è protetto, e ieri, quando ne hanno preso uno, hanno subito chiamato l’Università, e i responsabili dell’Area Marina. Lo squalo era ancora vivo e, con pazienza, i pescatori lo hanno liberato. 
Ricordo i tempi in cui i pescatori (con pochissime eccezioni) fecero le barricate contro l’istituzione dell’Area Protetta. Oggi le riconoscono un ruolo e la riconoscono come alleata. 

Che lezione ci insegna, questo squalo? In mare ci sono ancora animali enormi, come un tempo erano anche a terra. Ma a terra abbiamo ucciso tutto. In mare no, siamo ancora cacciatori (pescatori). La salute del mare si può misurare dalla redditività della pesca, e dalla presenza di giganti. Fino a quando saremo pescatori, il mare sarà in buone condizioni. Quando ci arrenderemo alla distruzione delle popolazioni naturali, e passeremo all’acquacoltura, la naturalità del mare sarà stata distrutta. I primi distruttori sono i pescatori, e loro lo sanno. E’ la tragedia dei beni comuni. I pesci sono lì, e sono di chi li prende: un bene comune. Se non li prendo io, li prende qualcun altro. Allora è meglio che li prenda io. Ma questa gara a chi li prende prima porta a prendere le prime fasi di sviluppo dei pesci, e ad impedire che crescano, e si riproducano efficacemente.

Prendere un pesce di pochi grammi quando potrebbe superare il chilo è un suicidio. Ma se non lo prendo io lo prende lui, sanno i pescatori. Questa corsa porterà alla fine dei pesci, e dei pescatori. Bisogna mettersi d’accordo, fidandosi gli uni degli altri, rispettando regole. 
L’Università del Salento, l’Area Protetta, e i pescatori di Porto Cesareo, stanno conducendo uno studio che dimostra come, aumentando la maglia della rete, si risparmiano i pesci piccoli, e si prendono più pesci grossi. Aumenta la redditività e aumenta anche la risorsa che dà redditività, perché pescare tanti pesci grandi è meglio che pescare tanti pesci piccoli. Per attuare questa politica ci vuole onestà. I pescatori devono essere leali con i propri colleghi, e devono smettere di rincorrere i pesci sempre più piccoli, cercando di fregarsi a vicenda. 
Catturare uno squalo elefante ferma le attività di pesca: è una rogna. La cosa più semplice (e disonesta) da fare è tagliarlo in tre o quattro pezzi e farlo affondare. Durante la mia tesi di laurea, a Camogli, in una delle ultime tonnare italiane, assistetti alla cattura di uno squalo elefante e i pescatori fecero proprio questo: lo tagliarono in tre pezzi, mentre era ancora vivo. Ma erano gli anni settanta. Oggi, i pescatori di Porto Cesareo si fermano e liberano lo squalo, salutandolo mentre si allontana. 

Mi fa venire in mente il modo di catturare i bisonti da parte degli indiani delle praterie, e quello dei bianchi, stile Buffalo Bill. In pochissimo tempo i bianchi portarono il bisonte all’estinzione, dopo che per millenni gli indiani avevano potuto prosperare grazie a quella risorsa. I pesci sono i nostri bisonti. Abbiamo il potere di distruggerli tutti, abbiamo macchine efficentissime per farlo, più micidiali del fucile di Buffalo Bill. Ma, se lo facciamo, poi non ci saranno più pesci. Gli indiani lo sapevano, e rispettavano il bisonte che pure uccidevano. Sapevano che c’erano limiti nella raccolta dei frutti della natura. 
Gli attori di questa storia sono tanti, prima di tutto i pescatori. Non posso non ricordare Paolo D’Ambrosio, il direttore dell’Area Marina Protetta di Porto Cesareo, e Sergio Fai, suo prezioso collaboratore, e Antonio Terlizzi, dell’Università del Salento, che con altri colleghi cura il progetto di ottimizzazione degli attrezzi di pesca. Ma i veri eroi sono i pescatori, e il loro presidente Giuseppe Fanizza, un vero capo indiano, che vede i bisonti scomparire e cerca di fermare la tragedia dei beni comuni. Anche perché non c’è nessun Buffalo Bill a distruggere i beni dei pescatori, sono loro stessi a farlo. 
Lavoro con queste persone da decenni, ma non ho alcuna parte in questo lavoro. Stanno facendo meglio di quanto non sia riuscito a fare io quando ho iniziato a prendermi cura del mare di Porto Cesareo, aiutato da un altro vecchio capo indiano: Paolo Martina, custode del Museo di Porto Cesareo, oggi sostituito dal validissimo Giuseppe Iaconisi che affianca Anna Miglietta, curatrice del Museo, nel prendersi cura di questo centro di cultura naturalistica. 
La coscienza e la consapevolezza stanno cambiando, anzi: sono cambiate. E’ un bel segnale: cambiare si può, e in meglio. La chiave di volta è la cultura. Porto Cesareo sarà anche la città dell’abusivismo edilizio ma, ora, è anche la città dei pescatori saggi, che mostrano la strada agli altri pescatori. L’onestà paga. E lunga vita allo squalo elefante.

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Fare i conti con la fame… di futuro

“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’8 marzo 2013]

Dario Fo, dal palco del comizio di Grillo a Milano, arringò la folla dicendo che quel momento gli ricordava i tempi del sessantotto, quando la sua generazione, alla quale appartengo anche io, cercò di cambiare il mondo. Non ci siamo riusciti! Ammise Dario. Fatelo voi!

Penso, invece, che ci siamo riusciti e se il mondo è come è lo dobbiamo a quella generazione che, davvero, cambiò il modo di vedere la realtà, e di determinarla. Ma quello è il passato. C’erano i margini per ricostruire, e abbiamo ricostruito. Ci sono stati gli ascensori sociali e i figli di portuali, come me, hanno avuto la possibilità di diventare professori universitari, o addirittura parlamentari e ministri. Non fai la rivoluzione se le cose migliorano.

Oggi quella situazione, quelle possibilità, non ci sono più. Quella generazione ha colto troppi frutti e poi ha tagliato i rami dell’albero per scaldarsi, e ora ci si sorprende se non ci sono più frutti. I giovani non hanno prospettive, e anche chi ne ha avute vede chiudersi un cerchio implacabile, con la perdita del lavoro. Nel sessantotto c’era la speranza, oggi c’è la disperazione. Ed è la disperazione che porta a gesti estremi. In un altro articolo ho parlato dei mostri speranzosi che, in quanto mostri, chiudono con il passato e aprono nuove strade che, forse (qui sta la speranza… un forse), potranno risolvere problemi che la normalità non risolve più. Bisogna inventare qualcosa di nuovo, le soluzioni del passato ora sono problemi. E non si risolvono i problemi adottando la logica che li ha prodotti. I partiti, e le loro nomenklature, sono una risposta del passato. Sono come i CD nell’era della musica con i file da scaricare da internet. Gli uomini con una “visione” possono cambiare il mondo, come ha fatto Jobs, che ha cambiato il nostro modo quotidiano di telefonare, di ascoltare la musica, di comunicare in forma scritta, di produrre arte e scienza con i computer. Grillo è il Jobs della nostra politica? Lo diranno i fatti.

Però una cosa è certa: i disperati non credono più ai modelli del passato. L’ISTAT ci dice che il 65% delle famiglie non ha un reddito sufficiente a garantire un tenore di vita prima considerato decente. E la percentuale aumenta. La curva del benessere scende. Nel sessantotto cresceva. I senza futuro non si rassegnano, non hanno nulla da perdere e non credono alle soluzioni di chi ha creato i problemi. Un tempo facevano la rivoluzione e si scontravano con il potere, come avviene ora in Siria. Anche in Italia i dissidenti, fino a pochissimo tempo fa, si scontravano con la polizia per protestare contro la TAV o il G8. Ora ci sono quasi duecento rappresentanti in parlamento, eletti con libere elezioni democratiche, che vanno alla manifestazione NO TAV. La polizia caricherà i parlamentari? Ricordo Fassino che sfidò Grillo. Non gli piace come vanno le cose? Che faccia un partito! Detto fatto. E ora come la mettiamo? La risposta a situazioni estreme, di solito, è la guerra armata. I disperati sparano, uccidono. Lo fanno anche gli idealisti fanatici,  ma nessuno gli va dietro, in tempi di crescita. Ma quando si perde il lavoro, e c’è gente che si suicida… le prospettive cambiano. Dal suicidio al Muoia Sansone con tutti i filistei il passo è breve. Invece che col sangue, la rivoluzione è avvenuta in Parlamento, con elezioni democratiche. Grillo non avrebbe vinto se la maggioranza della popolazione fosse soddisfatta. E tutti, ma proprio tutti, hanno votato per cambiare. Chi ha votato per Berlusconi voleva cambiare perché oppresso dalle tasse, identificate con Bersani, chi ha votato Bersani voleva cambiare perché oppresso dal malaffare, identificato con Berlusconi, chi ha votato per Grillo voleva cambiare perché oppresso da Berlusconi e da Bersani. Grillo ci ha messo del suo, da professionista della comunicazione quale è, ma è la situazione disperata che ha determinato il suo successo. Le cose che dice, le dice da tantissimo tempo. Prima faceva ridere, e sembrava che parlasse d’altro. Ora parla di quelli che lo ascoltano, non di situazioni astratte, future. Il futuro nero che in molti preconizzavamo da molto tempo è arrivato. Prevederlo non basta, per correre ai ripari. Bisogna sbatterci il naso. Le previsioni delle Cassandre si sono avverate e chi derideva le Cassandre è travolto dalla propria stoltezza. Forse il ruolo di Grillo è compiuto: spazzar via i partiti tradizionali, ricostituiti come un’idra dopo che Mani Pulite li aveva fatti a pezzi. Spazzati via, oggi, non dalla Magistratura ma dalla Politica. Come è giusto che sia. Forse ora ci vuole qualcun altro per ricostruire. Sinceramente, comunque, prima di aspettare altri, sarei curioso di vedere cosa riesce a fare Grillo. E’ una situazione nuovissima, nella storia dell’Umanità. Un vecchio sistema viene archiviato senza sangue, senza disordini, senza ghigliottine nelle piazze, senza guerre civili. Certo, i giovani hanno il potenziale per farlo, ma ci vuole un vecchietto di 64 anni per guidarli. Un vecchietto che, comunque, ha attraversato a nuoto lo Stretto di Messina! Il sentimento che ha portato a votare Grillo prima favoriva Di Pietro. Ma è bastato che un’intervista a Report mostrasse fatti poco chiari, e Di Pietro è scomparso! Questi elettori non perdonano, e non sono concessi passi falsi. La cambiale a Grillo non è in bianco, e non ce ne saranno più, a nessuno. Non ce le possiamo più permettere. Beh, visto l’esito elettorale, la Lega e Berlusconi continuano a firmar cambiali e gli elettori continuano a dar loro fiducia, ma sempre in minor numero. Il futuro non è lì. Il futuro è dei mostri. Il resto è fossile.

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L’evoluzione? Al rogo!

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 12 marzo 2013]

Sul Foglio di Giuliano Ferrara del 7 marzo scorso è apparso un articolo di Camillo Langone intitolato Dovevano bruciarla prima. Il rogo è auspicato per la Città della Scienza di Napoli. Le motivazioni del rogo potrebbero anche in parte essere comprensibili. L’impresa si è rivelata per lo meno velleitaria e i dipendenti della Città della Scienza non ricevevano lo stipendio da mesi. E’ stata costruita una cattedrale e poi la si è abbandonata nel deserto, come spesso avviene in Italia. La critica alla gestione è sacrosanta ed è bene stigmatizzare tutti i velleitarismi, anche se basati su ottimi intenti, come la divulgazione scientifica. Certo, il rogo forse è un po’ troppo. Ma ci potrebbe ancora stare, come espediente retorico per bollare un’impresa di scarso successo. D’altronde la destra nutre scarsa considerazione per la cultura ed è suo diritto scagliarsi contro imprese culturali. Ma la frase finale dell’articolo è delirante. Eccola qua: “Ho scoperto che nei capannoni dell’ex Italsider si propagandava l’evoluzionismo, una superstizione ottocentesca ancora presente negli ambienti parascientifici (evidentemente anche nei residui ambienti cantautorali). Il darwinismo è una forma di nichilismo e secondo il filosofo Fabrice Hadjadj dire a un ragazzo che discende dai primati significa approfittare della sua natura fiduciosa per gettarlo nella disperazione e indurlo a comportarsi da scimmia. Dovevano bruciarla prima, la Città della Scienza.”

Sono le argomentazioni che portarono il Ministro Moratti a togliere l’evoluzione dalla scuola dell’obbligo. Folle proposta, ridicolizzata da tutta la comunità scientifica, con in testa Rita Levi Montalcini. Dopo quella brutta figura, l’attacco all’evoluzione fu sferrato dal Prof. De Mattei, quando era vice presidente del CNR. Pubblicò, a spese del CNR, il massimo organo di ricerca scientifica nel nostro paese, un volume intitolato: Evoluzionismo: il tramonto di un’ipotesi. A difendere l’evoluzione dagli attacchi del CNR (nella figura del suo vice presidente) levò la sua voce il compianto prof. Nicola Cabibbo… presidente dell’Accademia Pontificia delle Scienze (sì, avete letto bene: Pontificia). Ora tocca a Langone. Ognuno è libero di dire tutte le castronerie che crede, ci mancherebbe. Ma il direttore responsabile di un giornale nazionale, sostenuto da finanziamenti pubblici, oltre che da Paolo Berlusconi, Sergio Zuncheddu, Denis Verdini e dallo stesso Ferrara (fonte Wikipedia), dovrebbe saper distinguere tra opinioni e fatti. Presentare opinioni come fatti non è buon giornalismo. Ognuno è libero di dire che la terra è piatta, e che la nostra specie è stata creata dal fango attraverso il soffio divino. La cosiddetta “superstizione ottocentesca dell’evoluzionismo”, però, è perseguita dalla totalità di chi si occupa professionalmente di biologia, oggi. Forse queste posizioni partono dal presupposto che l’evoluzionismo sia di sinistra e che, quindi, se si è di destra, sia necessario negarlo. Dire che l’acqua è fatta di ossigeno e idrogeno non è né di destra né di sinistra. E’ un fatto. Il patrimonio genetico della nostra specie è identico per il 98% a quello degli scimpanzé. Questo non dimostra che noi discendiamo dagli scimpanzé, dice solo che noi e gli scimpanzé condividiamo un antenato comune molto vicino ad entrambi (e che siamo entrambi Primati). Questa ipotesi è molto più convincente, e sostenuta dai dati, di quanto non sia quella del fango e del soffio divino. Non ne abbiamo una migliore, e le probabilità che sia falsa sono infinitesimamente basse.

Il fatto che articoli come questo trovino spazio in tribune nazionali è indice di grande inadeguatezza culturale nel nostro paese. Tale inadeguatezza si manifesta anche nella scarsità di reazioni ad affermazioni di questo genere. Langone non è matto, come non è matta Moratti, o De Mattei, o lo stesso Zichichi, che scrisse un articolo intitolato L’evoluzione non è una scienza. Non saprei come definirli. Ignoranti? Forse. Ma se, nonostante tutte le brutte figure, continuano imperterriti a ripetere la loro litania, alternandosi al microfono di media sempre pronti a dar loro spazio, forse esiste un disegno che mira a screditare la scienza. Per sostituirla con cosa? Cos’altro abbiamo, per diminuire l’ignoranza? La religione? Ma persino la religione difende l’evoluzione, dalla voce del presidente dell’Accademia Pontificia delle Scienze. Chi sono allora queste persone? cosa vogliono? Con Moratti sono arrivati al Ministero della Pubblica Istruzione, e hanno già tolto l’evoluzione dalla scuola dell’obbligo, proprio con le motivazioni che Langone usa per inneggiare al rogo della Città della Scienza. Non si possono archiviare con una risata, come meriterebbero. Qui si parla di roghi necessari per i simboli della scienza, e il passo è breve verso l’istigazione a bruciare di montagne di copie dell’Origine delle Specie, per poi arrivare a quelli di scienziati. Il fine della scienza è individuare l’ignoranza, e poi lavorare, attraverso la ricerca, per ridurla. Questa ottusa ignoranza, con tanto di istigazione al rogo, al divieto, all’inquisizione, richiede ancora molto lavoro e ci deve far pensare a quali siano le priorità culturali da insegnare nelle scuole dove, sia detto tra parentesi, l’evoluzione trova ancora pochissimo spazio. E il prodotto è Langone, e Moratti, e Zichichi, e De Mattei.

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La continuità papale su un tema cruciale: l’ambiente

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 20 marzo 2013]

Giovanni Paolo II: La natura si ribellerà a quel che le stiamo facendo! Benedetto XVI: se vuoi salvaguardare la pace devi salvaguardare l’ambiente. E ancora Bededetto che paragona i distruttori dell’ambiente ai peggiori terroristi. E sempre Benedetto che istituisce il 2 settembre la festa del Creato, cioè della Natura. Ed ecco ora Francesco che, già col solo nome, sceglie un manifesto che parla di Natura. Nella sua prima omelia Francesco dice: La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo.

I papi possono avere diverse visioni della chiesa, del modo di gestire il “potere papale”, anche nei suoi simboli, ma convergono e danno continuità a un argomento condiviso in pieno: l’ambiente è “sacro”. A volte lo chiamano Creato, a volte Natura, a volte Ambiente, ma il significato è sempre lo stesso: tutto quello che c’è al di fuori di noi, e da cui dipendiamo per la nostra sopravvivenza.

Il messaggio è semplice: ci siamo troppo concentrati su noi stessi e abbiamo dimenticato il resto. Lo dicono in tanti, da così tanto tempo. Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia… ci insegna Shakespeare nell’Amleto. Frase semplice e profonda. I filosofi che ci spiegano come funziona il mondo e poi non sanno come funziona un ecosistema, e non sanno neppure come funziona il loro corpo, sono concentrati su uno specchio, vedono solo se stessi e non si accorgono del mondo vero, fuori di loro: non sanno di che stanno parlando, ma ne parlano.

Benedetto esortò all’insegnamento dell’ecologia nelle scuole. Perché non si può difendere ciò che non si conosce. Le regole della natura, per un credente, sono le regole divine. E la scienza scruta il creato e cerca di comprenderlo, studiandolo. E quando impara le sue regole, impara le regole imposte dal creatore. Non ci sono regole più forti, e stringenti. E invece l’uomo si è messo ad inventare regole che lo pongono fuori della natura e, una volta applicate, ha iniziato a distruggere la natura, la premessa del suo vivere, per obbedire ad esse. Andando contro il Creatore, per chi crede a interventi soprannaturali per spiegare “quel che c’è”.

Non è una “scoperta” degli ultimi tre papi, questa. Gli scienziati danno questi avvertimenti da tanto tanto tempo. Ma anche Francesco, quello di Assisi, disse cose analoghe, con il parlare di quei tempi. Il messaggio è sempre lo stesso, è quello degli indiani d’America che parlano di cose “prese in prestito” dalla natura, che devono essere restituite in uno stato migliore di quando le abbiamo prese. Sono saggezze antiche, che abbiamo dimenticato. E i papi ce le ricordano da tempo, assieme agli scienziati, ma noi non vogliamo ascoltare, ostinatamente. E non distruggiamo solo la bellezza della natura, eccoci ora impegnati anche a distruggere la bellezza “creata” dai nostri predecessori, sostituendola con la bruttezza attuale.

Non ci credete? Bene: trovate un centro storico di una città italiana che sia brutto. Uno. Sforzatevi, pensateci. Sono certo che non riuscite a trovarne uno, a meno che la bruttezza derivi dallo stato di abbandono. Quei centri storici sono stati fatti da muratori analfabeti, guidati da architetti improvvisati che non avevano certo studiato in prestigiosi atenei, parlo soprattutto dei paesi di contadini e pescatori. Ora vi faccio un’altra domanda: ditemi una periferia urbana attuale, una, che sia bella. Pensate. Scavate. Conoscete una bella periferia? No, non la conoscete. Eppure quelle periferie sono state fatte e progettate da laureati.

Con la natura stiamo facendo lo stesso. Stiamo procedendo verso un mondo brutto, e non ascoltiamo gli avvertimenti anche più autorevoli.

Ho appena scritto una proverbiale predica, e le prediche sortiscono sempre lo stesso effetto: entrano da un orecchio ed escono dall’altro. Gli adulti sono oramai culturalmente perduti. Non si accorgono neppure di quel che avviene attorno a loro. I giovani, i bambini, sono nati in questo mondo brutto, e per loro la bruttezza è normale. Ma si respira voglia di cambiare. Vogliono cambiare gli anziani, come i papi, e riescono a convincere i giovani, perché si preoccupano del loro futuro. Chi ha età intermedie si preoccupa del proprio presente, ed è troppo concentrato su se stesso per poter guardare lontano, risolvendo anche il proprio problema. E così si continuano a proporre le soluzioni che hanno generato i problemi che dovrebbero risolvere.

Dobbiamo percorrere altre strade, anzi solo una ci potrà salvare: la strada che ci farà rientrare culturalmente nella Natura. Le guide ci sono, i seguaci anche. Ora resta solo vincere la battaglia culturale contro le filosofie fasulle, per affermare i nostri doveri, e non solo i nostri diritti, nei confronti del resto della natura. Alla quale apparteniamo.

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Rinaturalizzare le coste è l’unica grande opera possibile

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 31 marzo 2013]

Leggo di desolanti descrizioni sullo stato delle nostre coste e accorati appelli a “fare qualcosa”. Spiagge in erosione e falesie che franano sono il cruccio stagionale che affligge sia gli operatori turistici che basano la propria prosperità sulla bellezza della natura, sia i futuri frequentatori dei nostri litorali. Dico “futuri” perché d’inverno sulla costa non va praticamente nessuno (a parte gli edificatori abusivi) e solo a Pasqua si inizia a pensare alla stagione balneare. E ogni anno ci accorgiamo che il mare è una minaccia, perché fa crollare gli scogli e si porta via le spiagge, oltre alle case, le strade, e tutto quello che abbiamo costruito dove non si dovrebbe costruire. La natura è “cattiva”, perché non ci permette di realizzare i nostri propositi. Ho scritto molte volte che queste aspettative sono infantili e irreali, e mi sento di riscriverlo perché nessuno mi ha dimostrato che sbaglio e perché tutti continuano a ripetere sempre le stesse cose, chiedendo interventi di contenimento della “furia del mare”, proprio come faccio io dicendo che queste richieste non possono essere soddisfatte. E quindi eccomi qua a ripetere ancora una volta le solite profezie di Cassandra, ricordando che si avveravano sempre, anche se nessuno le credeva. Provo a spiegarmi ancora una volta, sapendo che non sarà l’ultima.

La pietra leccese è fatta di materiale molto friabile, è per questo che è così facile scolpirla. Basta qualche centinaio di anni e la pioggia la scioglie, come avviene nelle case del centro storico. Le falesie a mare sono fatte dello stesso materiale ed è normalissimo che le onde le erodano. Le grotte così diffuse lungo le nostre coste sono fatte proprio dall’azione erosiva dell’acqua, e le spunnulate sono il risultato del crollo delle grotte stesse. I massi sbriciolati diventano sabbia e formano le spiagge. Si tratta di processi normalissimi: la natura fa il suo mestiere, e non solo qui in Salento. Se guardate le Dolomiti, vedrete che alla base delle montagne ci sono i ghiaioni. Si tratta di pezzi di montagna che sono crollati e, poi, si sono sbriciolati. L’uomo non c’era ancora, quando son successe queste cose.

Gli umani sono sempre stati attratti da posti pericolosi, come i vulcani. Il motivo è che la terra attorno ai vulcani è fertilissima e la resa dell’agricoltura è molto alta. Stare attorno ai vulcani, però, è rischioso e sappiamo bene che non ci sono difese. Non si possono fare muri che impediscano alla lava di uscire dal cratere. Chi costruisce lo fa a proprio rischio e pericolo e vive nella speranza che gli eventi estremi non arrivino troppo presto. Bene, stare vicino al mare, soprattutto da noi, è quasi come stare alle falde di un vulcano. Non ci sono muri che possano fermare il mare, per il semplice fatto che si baserebbero sulla sabbia, o su rocce fatte di sabbia. Dopo un po’ cedono. Ed eccomi a ripetere la solita solfa: non si costruisce direttamente sul mare, soprattutto quando il litorale è altamente instabile come da noi. Le difese costiere sono un palliativo che serve solo a far arricchire chi le costruisce. La soluzione è la stessa che si può consigliare a chi ha la casa su un vulcano: bisogna allontanarsi dai siti ad alto rischio. Traduco: le infrastrutture e le strutture costruite sulla costa devono essere smantellate e devono essere costruite a distanza di sicurezza dal litorale, dopo seri, serissimi studi geologici ed ambientali che individuino le zone idonee alla costruzione. La costa deve restare libera di evolvere secondo natura. Si possono fare sentieri leggeri, infrastrutture in legno facilmente smontabili e sostituibili in caso di crollo, ma il cemento e l’asfalto durano poco dove la natura non vuole. Conosco la reazione: eh sì, adesso buttiamo giù tutto, è una follia! Il fatto è che tanto sarà la natura a buttare giù tutto, lo sta già facendo. Le infrastrutture vanno riposizionate nell’interno, e anche le strutture. Si tratta di una grande, grandissima opera, occasione di lavoro e di sviluppo. Non l’ennesima inutile strada, come si continua a proporre con stolida insistenza sul nostro martoriato territorio. Il valore più alto del nostro territorio è che sulla costa ci sia una cosa rarissima: niente. Niente è un valore grandissimo, significa la natura incontaminata. Sappiamo che rappresenta un valore assoluto, e molto molto raro. I villaggi turistici hanno invaso il “niente” e ora sono in crisi. Quel turismo ora si rivolge verso le navi da crociera che portano i turisti in giro, invece di tenerli fermi in un posto. E dove li portano? Dove ci sono cose belle da vedere, dove la natura è in gran forma, dove la storia si vede, si tocca, si mangia. Dove ci siano cultura, artigianato, arte, bellezza. Noi, invece, ci siamo industriati a costruire costruire costruire, erodendo la natura, per poi lamentarci della sua erosione. E’ una lezione che non vogliamo imparare, e ostinatamente perseguiamo un modello di sviluppo che ha dato risultati catastrofici, sia da un punto di vista ambientale, sia da un punto di vista economico. Cede l’ambiente, cede l’economia e noi proponiamo sempre e soltanto le vecchie ricette. Quelle che hanno determinato questa situazione catastrofica. Solo note dolenti? Eccone una positiva: l’assessore all’ambiente del Comune di Lecce sta facendo pulire le spiagge in vista della stagione estiva. In tempi ragionevolmente avanzati si pensa a pulire senza che ci siano le emergenze subito a ridosso della stagione balneare. Il cambiamento deve venire dai politici: vediamo se sarà possibile che riescano a utilizzare le ultime risorse comunitarie per rinaturalizzare le nostre coste ma, per favore, che non chiamino a risolvere i problemi gli stessi che li hanno creati! Con la natura ci vuole armonia, non cemento!

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Che bella Porto Cesareo, ma che non diventi Rimini

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di sabato 4 maggio 2013]

Sono stato residente a Porto Cesareo dal 1987 al 1989, dirigo il Museo di Biologia Marina di Porto Cesareo, e collaboro da sempre con l’Area Marina Protetta. Nelle acque di Porto Cesareo ho effettuato e tuttora effetuo molti studi e sono molto legato a quell’area. Ho amici tra i pescatori e i ristoratori, e sono socio onorario della Pro Loco. Ho quindi un pregiudizio positivo nei confronti di questo paese. Però… però… però da sempre sono stato sorpreso dal modo con cui i cesarini stanno amministrando un patrimonio naturale talmente unico che lo Stato ha deciso di proteggerlo con un Parco Nazionale. Eh già, un’Area Marina Protetta è l’equivalente di un Parco Nazionale a terra. Ora, un paese che ha un Parco Nazionale nel suo territorio ha strumenti migliori per farsi pubblicità? Verrebbe da dire che no. E invece per alcuni amministratori di Porto Cesareo la risposta è stata: ma che significa il Parco? Facciamo un bel monumento a Manuela Arcuri! Così tutti parleranno di noi. Giusto! E ho sentito discorsi tipo: Porto Cesareo deve diventare la Rimini dello Ionio! E già… Rimini. A Rimini il mare non è al top e allora hanno creato attrazioni alternative, con una bella serie di casermoni su una spiaggia blindata dagli stabilimenti balneari e dove la vera attrattiva è la vita notturna. A Rimini non hanno una natura neppure paragonabile a quella di Porto Cesareo. Prendere Rimini come modello di sviluppo significa non aver capito niente delle opportunità che offre il territorio. Distruggere il patrimonio naturale con decine di migliaia di costruzioni abusive non significa promuovere l’economia. E’ una follia economica. Stiamo facendo un esperimento con i pescatori di Porto Cesareo e con l’Area Marina Protetta: stiamo valutando cosa si prende usando reti a maglia piccola (che prendono praticamente tutto) e casa si prende usando reti a maglia più larga (con cui si prendono solo pesci grandi). Il risultato è che la maglia che si usa prevalentemente ora prende tantissimi pesci piccoli, ai limiti della taglia commerciale e di basso valore economico. Mentre se si pesca con la maglia grande si prendono magari gli stessi pesci, ma di taglia molto maggiore e di maggiore valore commerciale.

Non se ne prendono tanti, è vero. Ma il motivo è che i pesci che potrebbero diventare grandi (e di grande valore) sono presi quando sono ancora troppo piccoli (e di basso valore). La logica del pescatore è: lo so che distruggo tutto, ma se quei pesci non li prendo io, li prende un altro, e quindi è meglio se li prendo io. L’unico modo per evitare di dilapidare il patrimonio naturale, sia esso fatto di pesci o di dune, è di far rispettare leggi che permettano lo sviluppo economico in modo che possa durare a lungo, senza distruggere l’economia di domani con l’economia di oggi. Lo sviluppo edilizio di Porto Cesareo necessita un ripensamento radicale (proprio come la pesca), con un piano mirato di demolizioni e ristrutturazioni. Ma se un paese di quattromila abitanti arriva ad avere più di quindicimila costruzioni abusive è ovvio che c’è un problema di legalità. La legge può fare condoni, ma la natura non ne fa, e neppure l’economia. Alla fine i turisti non vorranno più andare in un posto che diventa una bolgia infernale per un mese e mezzo all’anno, e non saranno più disposti a pagare cifre rilevanti per “godere” di tali vacanze. Si prenderanno i pesci piccoli (i turisti che stanno pochi giorni, e con un budget limitato, che magari vengono dai paesi vicini e si sono fatti la casa abusiva sulla spiaggia) e si perderanno quelli grossi (i turisti che vorrebbero stare di più, e che possono spendere di più). In questi casi credo che il Sindaco non sia la figura più indicata per prendere decisioni radicali, e forse neppure un politico regionale. La pressione degli interessi locali è troppo forte e, se è accompagnata dalla miopia del monumento all’attrice o del pesce pescato quando la taglia è minuscola, non permette all’amministratore locale di fare quel che è giusto per il bene del paese stesso. In questi casi lo Stato dovrebbe intervenire in modo che non ci possano essere interferenze locali. 

Ancora una volta chiudo dicendo che è un problema di cultura, di visioni. Se la prosperità economica di Porto Cesareo viene individuata nella continua colata di cemento che ha luogo da più di trenta anni, presto si sarà distrutto tutto. Ricordo che, comunque, l’originale è sempre meglio della copia e che se Porto Cesareo diventerà come Rimini, i turisti le preferiranno Rimini. Il bello è che ho diversi amici che abitano in Romagna e vorrebbero che la costa romagnola fosse bella come Porto Cesareo, ma si rammaricano perché, anno dopo anno, Porto Cesareo assomiglia sempre più a Rimini. E quindi non ci verranno più! Tanto vale andare a Rimini. Dove tutto costa meno. La settimana scorsa è venuta una troupe di Superquark, il programma di RAI1 diretto da Piero Angela, e li ho mandati a Porto Cesareo, dove hanno fatto riprese nel Museo di Biologia Marina, e poi hanno girato per il paese. Con opportune angolazioni verranno delle bellissime riprese, mi hanno detto. Opportune angolazioni significa che hanno dovuto fare i salti mortali per non riprendere gli obbrobri e far vedere la bellezza. La bellezza è quella della natura, gli obbrobri li abbiamo fatti noi. Tutta la solidarietà all’assessore Barbanente che cerca di salvare Porto Cesareo dalla sua miopia. E ora vogliamo parlare di Porto Miggiano?

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Serpenti di mare? No: salpe!

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 5 maggio 2013]

Nella settimana tra aprile e maggio tutta la costa pugliese è stata invasa da serpenti gelatinosi dai mille occhi che sfrecciavano nell’acqua, lunghi anche cinque o sei metri. I bagnanti che si sono avventurati in mare per il primo bagno di stagione sono schizzati fuori dall’acqua, terrorizzati. Dato che i “serpenti” sono gelatinosi, hanno detto che si trattava di meduse. Come sarebbe bello se a scuola, oltre a poesie e teoremi, si insegnasse anche qualcosa sulla natura. Ora vi svelo un segreto: non sono serpenti, non sono meduse, sono invece cordati e, per la precisione, tunicati taliacei, detti volgarmente salpe. Tutto chiaro no? Lo so, non è chiaro. Cordati significa che hanno una struttura di sostegno, la corda, che, nei vertebrati (tra cui noi) diventa la colonna vertebrale. Sono nostri cugini! Molto lontani evolutivamente dalle meduse, con cui condividono solo la consistenza gelatinosa. Quei “serpenti” sono colonie di zooidi e, infatti, alla fine del ciclo vitale (che dura poche settimane) si rompono e i singoli zooidi iniziano a decomporsi, finendo sulle spiagge oppure sul fondo del mare. Gli “occhi” non sono altro che le loro interiora che si vedono in trasparenza attraverso il resto del corpo. Pungono? No, non pungono. Potete tranquillamente metterveli al collo come se fossero una collana, ma consiglio di non farlo, tutti gli animali hanno diritto di vivere in pace, anche le salpe. Ma perché ce ne sono così tanti? Di nuovo, la scuola non aiuta. Il mondo è coperto per il 70% di acqua (gli oceani) e la trasformazione della materia non vivente in materia vivente, che sulla terra avviene grazie alle piante, con la fotosintesi, in mare avviene principalmente grazie al fitoplancton. Si tratta di piccoli organismi unicellulari fotosintetici. Alla fine dell’inverno il mare è ricchissimo di nutrienti, e la materia riprende vita. Il fitoplancton rappresenta quel che a terra sono le praterie e le foreste. Però non forma un paesaggio percepibile a noi. Il fitoplancton ha un massimo di produzione alla fine dell’inverno, e poi diminuisce in quantità. Ma quel picco di produzione sostiene lo zoolpancton erbivoro. Si tratta di miriadi di piccoli crostacei (uno o due millimetri o poco più) che aumentano anch’essi di numero in modo esponenziale. Anche loro non sono visibili all’occhio umano. Di questi crostacei si nutrono le larve dei pesci che, poi, crescono e, come ben sappiamo, i pesci piccoli sono mangiati da quelli grandi, in una complessa rete trofica. Ma, all’inizio del ciclo vitale, tutti i pesci mangiano quei piccoli crostacei. Tutto quello che si produce nel nostro Mediterraneo inizia con il fitoplancton e continua con lo zooplancton erbivoro, e poi con i pesci. E le salpe che c’entrano? Le salpe mangiano le stesse cose che mangiano i piccoli crostacei dello zooplancton. Filtrano l’acqua con le loro branchie, proprio come fanno le cozze. Questi sistemi ambientali, basati sul rapido rinnovamento delle risorse, sono detti anche sistemi a lotteria. Il premio è il fitoplancton. Chi riesce ad essere presente al momento giusto, quando la produzione inizia a crescere in modo esponenziale, vince. La vittoria consiste nella possibilità di riprodursi moltissimo, e di formare enormi popolazioni. Le popolazioni dei piccoli crostacei sono enormi, ma gli individui sono piccoli, non le vediamo. Quest’anno la lotteria l’hanno vinta le salpe, e i loro corpi possono essere anche di cinque o sei metri. Le vediamo eccome. Ho assistito a un fenomeno identico nel 1998, attraversando l’Adriatico da Dubrovnik a Bari. Per sei ore il mare era stracolmo di queste catene che, poi, arrivarono sulla costa proprio come avviene in questi giorni. Ogni tanto succede. Tutto bene allora? Sì, non ci sono pericoli per i bagnanti. Però quando “vincono” le salpe, molto probabilmente hanno perso i crostacei. E le salpe non le mangiano in molti. Di sicuro non le larve e gli stadi giovanili dei pesci che, quindi, non avranno gran che da mangiare. Forse questo evento avrà impatti sulla resa della pesca, tra qualche mese. E le meduse? Sono arrivate anche loro. Per il momento si tratta di specie poco urticanti, come la medusa quadrifoglio (Aurelia) o la barchetta di San Pietro (Velella), ma non siamo in grado di dire se quest’estate sarà molto gelatinosa. Certo, la stagione è iniziata con le salpe, le aurelia e le velella, ma se dovesse continuare con Pelagia, allora sarebbero dolori. L’Università del Salento è molto attiva nello studio di questi organismi. Sono anni che conduco un esperimento di scienza dei cittadini, in collaborazione con la rivista Focus. Si chiama Occhio alla medusa. E da quando abbiamo iniziato (nel 2008) eventi come questo non sono stati osservati in nessuna parte d’Italia. Ora abbiamo diversi progetti di ricerca, alcuni sono europei (Jellyrisk, coordinato dal prof. Stefano Piraino, Vectors of Change, Perseus, CoCoNet) altri sono nazionali, come il progetto bandiera RITMARE. Cercheremo di capire meglio questi fenomeni che, in poco tempo, possono cambiare il funzionamento degli ecosistemi marini. Il problema ancora irrisolto è: ma dove sono questi organismi quando non li vediamo? Alcuni potrebbero spingersi nelle profondità dei mari, altri potrebbero avere frome di resistenza che, come i semi delle piante, finiscono sul fondo del mare in attesa di condizioni ottimali per schiudere. Altri superano le stagioni avverse sotto forma di piccole colonie che vivono sul fondo del mare.

In conclusione, il plancton gelatinoso è bellissimo! Se si impara a riconoscere le specie (non è difficile) si può evitare di essere punti quando ci sono organismi urticanti, ma si può godere della bellezza delle salpe anche nuotando in mezzo a loro. Anche questi animali sono “poesia” e meritano di essere imparati a memoria. In effetti, chi è punto da una medusa… non lo scorda più!

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Abbiamo toccato il fondo, ora dobbiamo risalire

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 17 maggio 2013]

Alla fine di aprile ho tenuto un corso estivo a Venezia, presso l’Accademia veneta di scienze, lettere e arti. L’Accademia ha sede in un magnifico palazzo sul Canal Grande e, prima delle lezioni mattutine sono andato a prendere un caffè in un bar dall’altra parte del canale, attraversando il ponte dell’Accademia. La vista è magnifica e non ho resistito: mi sono messo a fare qualche foto, assieme a orde di giapponesi e americani. Mentre facevo le foto è arrivata una nave da crociera. Enorme. Trainata da un rimorchiatore. Le fanno passare davanti a piazza San Marco così i turisti possono vedere Venezia da una posizione privilegiata. E poi passano davanti all’imboccatura del canale, rasenti alla costa. Per un po’, il paesaggio veneziano muta radicalmente, con quell’alieno che occupa uno spazio che non gli compete. Guardando la manovra mi son detto: ma se una volta dovessero sbagliare, quel mostro potrebbe finire su quella chiesa, su quei palazzi. Ho pensato a Costa Concordia, e alla tragedia del Giglio. Un’isola dove ho fatto le mie vacanze estive per dodici anni di seguito, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. E ora ecco Genova, con la portacontainer che scontra la torre dei piloti e la butta giù, uccidendo portuali e marinai. Mio padre era un portuale, e anche i miei zii e i miei cugini. Avrei potuto esserci anche io, se la vita non mi avesse portato verso altre strade. Quello che avevo paventato a Venezia si è avverato a Genova.

Disgrazie, si dice. Ed è proprio così, sono disgrazie. Ma stanno avvenendo sempre più frequentemente. E’ evidente che le misure di sicurezza non sono sufficienti, e probabilmente anche le infrastrutture non sono adeguate. 
Non sono solo le navi a creare problemi. Ci sono le ferrovie (ricordate Viareggio?), le autostrade, gli aeroporti. E poi crollano le scuole, e le case. Ci sono le frane, le alluvioni, l’erosione costiera. Stiamo ricevendo una miriade di segnali che ci dicono che c’è qualcosa che non va, e dovremo metter mano alla soluzione di questi problemi, perché pagare i danni costa molto di più che prevenire le catastrofi. Per risolvere questi problemi bisogna modificare i comportamenti, questo è ovvio. Non si passa vicino alla costa con un mastodontico battello, sia essa la costa del Giglio o quella di Venezia. Ma nei porti bisogna pur portarle, queste grandi navi. E quindi bisogna innovare i sistemi di progettazione delle navi, e il disegno delle aree portuali, in modo che non si creino condizioni che possano portare alle catastrofi. Ovviamente ci saranno delle spese per la ricerca e l’innovazione, ma queste si tradurranno poi nel rinnovo del parco nautico, nella ristrutturazione delle infrastrutture e delle strutture. Le tecnologie che inventeremo potranno essere esportate. Migliorerà l’economia, migliorerà la qualità della vita e aumenterà la sicurezza.

Dobbiamo mettere in sicurezza il nostro territorio e dovremo rivedere il nostro modo di adoperarlo. E’ necessaria una vera e propria rivoluzione o, meglio, un’evoluzione. Fino a quando le cose vanno bene, non ci sono motivi per cambiare. Ma ora le cose stanno molto male, male per l’ambiente, male per l’economia, male per la salute. Ora i motivi per cambiare ci sono, e chi inizierà a cambiare prima degli altri sarà avvantaggiato. C’è bisogno di una visione per queste cose, ci vogliono politici che sappiano guidare i processi di rinnovamento, li incentivino e li agevolino. Anche rimuovendo le montagne di ostacoli burocratici che rendono impossibili le più elementari attività nel nostro paese. 
Quando si guida un’auto in condizioni difficili, e magari si inizia a perdere aderenza, viene quasi per istinto di spingere il pedale del freno. Diminuire la velocità, di solito, è una buona cosa. In certe condizioni, invece, frenare porta alla catastrofe. Bisogna accelerare e tirarsi fuori dagli impacci. Le misure per uscire dalla crisi sono state prima di tutto un bella frenata. Invece di diminuire gli sprechi (che continuano allegramente) abbiamo deciso di non pagare i fornitori dello stato, oppure impediamo che i ricercatori che hanno progetti di ricerca possano spendere i soldi che hanno ricevuto. Così diminuiscono le uscite. Ma questa frenata corre il rischio di mandare il paese a gambe all’aria. Si parla di rischio, ma il rischio consiste nel prevedere che qualcosa di male possa avvenire. Qui non siamo più ai rischi, qui qualcosa di male sta già avvenendo. La gente perde il lavoro, gli esodati non hanno lavoro e non hanno pensione, i giovani non trovano lavoro e non hanno prospettive… le navi si schiantano sulle torri di controllo, contro le isole, le città si sgretolano. Non sono rischi, sono realtà. In questi frangenti ci vuole coraggio e bisogna osare nuove strade. Abbiamo i piedi sul fondo, ora si tratta di decidere se lasciarsi andare e affogare oppure darsi una bella spinta e usare il fondo per risalire a galla. Sempre che il fondo sia compatto, e non ci siano le sabbie mobili. Voglio ripetere ancora una volta una semplice formula: competenza, onestà. Per troppo tempo siamo stati governati da incompetenti disonesti. La corruzione devasta il paese e non risparmia niente e nessuno. L’incompetenza trionfa. E non riusciamo a fare leggi che colpiscano la disonestà e l’incompetenza, promuovendo l’onestà e la competenza. Le nostre prigioni sono piene di poveracci che hanno sbarcato il lunario vendendo droga. Gli incompetenti corrotti sono ancora al timone di troppe navi che, spesso, hanno interi equipaggi di incompetenti corrotti. Sono così tanti che condizionano i risultati elettorali. E in Lombardia, dopo Bossi padre e figlio, Don Verzè e il San Raffaele, Formigoni e Comunione e Liberazione, le elezioni sono vinte … proprio da loro o dai loro replicanti. Forse sul fondo ci sono davvero le sabbie mobili. Ma non possiamo arrenderci! Il fondo solido e compatto sono i tanti onesti e competenti che stringono i denti e fanno il loro dovere. La spinta deve far leva su di loro.

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Guaritori del territorio, venditori di miracoli

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 2 giugno 2013]

Noto un grandissimo fervore nei confronti della costa. La sabbia e la roccia ci stanno dando molti problemi: se ne vanno da dove vorremmo che restassero, e noi facciamo di tutto per farle restare dove vorremmo che stessero. Ripascimenti, spostamenti, barriere, muri di contenimento, ognuno ha la sua soluzione miracolosa. Se guardiamo altrove, vediamo che da nessuna parte queste soluzioni miracolose hanno funzionato. O meglio, dove hanno funzionato c’è stata una rivoluzione totale del modo di vivere il rapporto con il mare. In Olanda il problema è risolto. Ma lì è una questione di vita o di morte, visto che molto territorio è sotto il livello del mare. Tutta la costa è un muro di contenimento, ma non viene usata per il turismo, non come da noi.

Ogni anno mi trovo a ripeterlo, nessuno mi contesta, mi trovo in accordo con i geologi, ma poi tutto continua come se quel che viene detto non esistesse. E allora lo ridico. Esiste una disciplina chiamata “dinamica dei litorali”. Si chiama dinamica, non statica. I litorali si muovono, a volte avanzano, a volte arretrano. Se si vuole costruire qualcosa su un litorale bisogna conoscere molto bene la sua dinamica, le correnti, la geologia, la copertura vegetale a terra, e la copertura biologica del fondale, in mare. E gli scambi tra i due domini, quello marino e quello terrestre. Se non si conosce questo, e si pensa di risolvere tutto con cemento e massi, finisce che quel che è stato costruito si sbriciola. Che poi è quel che sta avvenendo. La lezione dovrebbe essere sufficiente, e invece si persevera ostinatamente nell’errore, incuranti di tutti i fallimenti.

I litorali rocciosi del Salento sono caratterizzati dalla presenza di innumerevoli grotte marine (siti di importanza comunitaria, ai sensi della Direttiva Habitat dell’Unione Europea). Le grotte si formano per la natura del substrato (la nostra roccia è molto soffice, facile da scolpire, da noi e dalla natura), per l’azione delle onde, e per la presenza di innumerevoli fiumi sotterranei (la falda e i suoi sbocchi al mare). Le spunnulate non sono altro che i tetti di grotte sprofondati. Come la grotta della Poesia a Roca. Non esiste cemento che possa fermare questi processi. Se si costruiscono strade, case, infrastrutture in posti del genere, li si perderà. Lì non si deve costruire. Punto e basta. Oppure si devono costruire strutture effimere, di legno, adattabili alla mutevolezza della morfologia costiera. Nel Tarantino un villaggio turistico è stato costruito in una località chiamata Pantano. Ora si lamentano che quando piove si allaga. Chi ha costruito in diretta vicinanza col mare ora si lamenta di avere il mare in casa. Chi ha costruito sull’Etna o sul Vesuvio poi si lamenta per la lava.

La soluzione di questi problemi è solo una: dove non si può costruire… non si costruisce. Corollario di questo teorema: se si è costruito dove non si può costruire… ci si ritira. Oppure si costruisce, lo ripeto, con strutture leggere e facilmente spostabili. Inutile cercare di salvare manufatti che saranno comunque destinati a soccombere di fronte ai processi naturali. Se sono opere di grande valore, che le si smantelli e le si ricostruisca in posto sicuro. Altrimenti ci si renda conto dell’errore e ci si arrenda all’evidenza. I soldi che spenderemo per arginare il fenomeno, alla fine, saranno moltissimi e il risultato sarà scadente. Costa meno demolire e ricostruire dove si può, dove la natura ci dà il permesso. 

La rimessa in sicurezza del territorio nazionale, dopo l’ebbrezza dell’onnipotenza del cemento, è una priorità assoluta, un potente volano economico virtuoso. La pervicace ostinazione nel perseguire gli errori del passato, con la stessa logica del passato (il cemento risolve tutto) aiuta solo chi vende queste idee. Ricordate le miracolose soluzioni per l’erosione a San Cataldo? Dimenticate! e si propongono altre miracolose soluzioni in altri posti (con pochissime eccezioni: l’assessore Guido sta cercando di perseguire soluzioni alternative). Non succede mai che chi ha intascato soldi (pubblici) con queste soluzioni sia poi chiamato a rispondere del fallimento. Nei contratti non si scrive: in caso di malfunzionamento delle strutture, la ditta che le ha realizzate restituirà gli importi ricevuti e ripristinerà le condizioni precedenti, a proprie spese. Ci scommettiamo che con una clausola del genere le proposte cadono? Se chi propone le soluzioni miracolose è così certo del miracolo, che si accolli i rischi. Non si possono promettere miracoli, intascare soldi pubblici, e inventarsi altri miracoli quando i miracoli precedenti non hanno funzionato, continuando ad intascare soldi pubblici. I venditori di miracoli fanno il loro mestiere, ma chi compra i miracoli (i decisori pubblici, gli amministratori) ha delle responsabilità. I miracoli, mi spiace, non ci sono. Dobbiamo adattarci alla natura. Persino Lazzaro, alla fine, è morto. Pensare di poter adattare lei a noi è come andare dal guaritore invece che dal medico, se ci si accorge di essere malati. Il guaritore promette guarigioni miracolose, e sarebbe bello se fosse vero. C’è un piccolo dettaglio: non è vero. Però nel nostro paese i guaritori e i venditori di miracoli continuano ad avere un successo strepitoso, nonostante i fallimenti continui. E questo per me è un vero mistero. Saranno loro ad essere scemi, continuando a credere nei propri miracoli, o saranno quelli che li pagano ad essere scemi, continuando a bersi le loro panzane? Ma quelli che li pagano… li pagano con i nostri soldi, mica con i loro! E quindi gli scemi siamo proprio noi. E pare che sia una condizione che non ci disturba affatto. Chi dice quel che dico io non viene creduto, mentre si crede a chi di dice quel che vorremmo sentirci dire: va bene così, ora arrivo io e metto tutto a posto. Come sarebbe bello se fosse vero. Ma non è vero!

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Costruire costruire costruire, meditare no?

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 14 giugno 2013]

Leggo sul Quotidiano del 13 Giugno che il Preside della Facoltà di Ingegneria afferma, tra virgolette: “«Non comprendo cosa significhi questo voler mettere in discussione il piano edilizio dell’Università del Salento – riflette Dattoma – anche perché l’idea che gli interventi debbano essere soggetti alla valutazione della sostenibilità, in termini di costi di gestione, è figlia di quell’attendismo che ritengo dannoso. Se questa fosse la strada da seguire dovremmo aspettare 50 anni prima che qualcosa possa esser fatto».
Spero che queste affermazioni siano dovute a una cattiva interpretazione del giornalista. Fare interventi faraonici senza tener conto della sostenibilità e dell’impatto ambientale ha avuto come prodotto la miriade di cattedrali nel deserto che invadono il nostro territorio, dalle sedi per i G8, alle superstrade duplicate (tipo le due che collegano Lecce con Maglie), per non parlare del defunto PASTIS che, visto il risultato, evidentemente fu progettato senza tener conto della sostenibilità dell’iniziativa. I nostri deficit derivano dall’aver intrapreso azioni senza considerarne la sostenibilità. E’ buona economia nel breve termine (soprattutto per chi costruisce) ma può diventare cattiva economia quando ci si rende conto che quel che si è costruito non può essere mantenuto e gestito nel medio e lungo termine. Sarebbe la prima volta?

Costruire senza tener conto della sostenibilità delle strutture e del loro impatto è sinonimo di una frenesia del cemento che troppo caratterizza la nostra povera Italia. Quando Salvatore Settis ha inaugurato l’anno accademico dell’ISUFI, qui a Lecce, ha espresso severe critiche a questo modo di concepire gli interventi, e nessuno ha osato contestarlo, anche se in aula c’erano molti che avrebbero potuto farlo.

Non sono un esperto di cemento, ma qualcosa di ambiente so. Sarebbe bene che gli esperti di cemento dessero un po’ di ascolto a chi sa qualcosa di ambiente, senza vederli necessariamente come un freno a un modello di sviluppo che, a quanto pare, sta distruggendo le nostre risorse naturali e anche il nostro paesaggio. Ci chiamano Cassandre, ma occorre ricordare che le previsioni di Cassandra si avveravano puntualmente; la maledizione di Cassandra era di non essere creduta. 
Con questo non voglio dire che ogni intervento sia male. Tutt’altro. Ma, prima di costruire qualcosa che resterà nell’ambiente per decenni e forse per secoli, sarebbe bene considerare tutte le variabili, e non soltanto l’importo degli appalti. Purtroppo non abbiamo avuto occasione di discutere il piano edilizio dell’Università del Salento, lo abbiamo appreso quando tutte le decisioni erano state prese. Forse un po’ più di partecipazione e discussione sarebbero auspicabili. Anche a posteriori. Per fortuna, anche il prof. Vincenzo Zara, come gli altri candidati, ha espresso cautela. Nel suo programma è scritto: “Ritengo che la complessità del programma edilizio richieda comunque un’analisi dettagliata e attenta di ogni singolo intervento programmato. In particolare, per ogni intervento diretto alla costruzione di nuovi edifici deve essere attentamente valutata la rispondenza a specifiche esigenze di didattica e/o di ricerca e parallelamente deve essere garantito un impegno sostenibile per i costi di esercizio e per la manutenzione futura”. Se si intravede la necessità di un’analisi attenta e dettagliata di ogni intervento, forse questa non è stata fatta. Oppure è stata fatta e, proprio come me, il prof. Zara non ha avuto occasione di vederla, visto si propone di farla. Se tutti i candidati a rettore esprimono queste posizioni, comunque, possiamo stare tranquilli, nella speranza che attente valutazioni saranno fatte, chiunque sia il vincitore delle elezioni. Se le valutazioni sono fatte per tempo, di concerto con i progetti, non è necessario aspettare i 50 anni paventati dal Preside di Ingegneria e, se si fossero fatte, forse il nostro territorio sarebbe in uno stato meno pietoso. Ricordo che il premier Monti cancellò la proposta di una faraonica iniziativa di infrastrutture sportive per eventuali Olimpiadi romane. E lo fece proprio per motivi di sostenibilità. Prima di agire è bene meditare.

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Ascesa e caduta dell’impero delle salpe

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 19 maggio 2013]

Il mese scorso, come riportato ampiamente dal “Quotidiano”, è iniziato lungo le coste pugliesi un fenomeno di grandissima presenza in mare di tunicati planctonici, detti volgarmente salpe. Si tratta di invertebrati gelatinosi, assolutamente inoffensivi, con la stessa consistenza delle meduse ma molto più simili a noi vertebrati che alle meduse. Le salpe (da non confondere con i pesci che hanno lo stesso nome) hanno la caratteristica di essere di solito assenti ma di poter comparire in grandissima quantità e per periodi molto limitati. E’ passato un mese e l’impero delle salpe, dopo una rapida ascesa, si sta sfaldando. La prima, e unica, volta in cui ho assistito a un fenomeno identico è stato nel 1998. La letteratura scientifica riporta questo tipo di presenza come una caratteristica tipica di questi animali. Arrivano all’improvviso, riempiono il mare, e poi muoiono e scompaiono per decenni. E non si sa bene dove siano quando non le vediamo. Non è facile studiare animali che per decenni semplicemente non ci sono, poi arrivano a miliardi e scompaiono dopo un mese. La ricerca scientifica oramai è burocratizzata, ci sono progetti che impongono di fare determinate cose, e non si può scrivere un progetto su un evento imprevedibile. Semplicemente perché nei progetti ci chiedono di prevedere cosa faremo. E quindi studiamo cose prevedibili e quelle imprevedibili restano ignote. Anche se sono proprio questi imprevisti a regolare il funzionamento dei sistemi ambientali. Gli imprevisti determinano la “storia”. Se tutto fosse prevedibile… non ci sarebbe “storia”. Basterebbe una bella formula da mettere in un bel computer, si schiaccia il magico bottone e si ottiene il futuro (che poi è quello che cercano di fare i modelli economici). Tutto questo funziona se non ci sono “imprevisti”, proprio come le nostre salpe.

Noi bio-ecologi studiamo sistemi “storici”, governati da leggi e da imprevisti. Se valessero solo le leggi basterebbe la fisica a spiegare tutto, e il mondo non avrebbe storia. La storia naturale (già, si chiama proprio “storia”) è una scienza storica, e noi siamo storici naturali, naturalisti. Gli storici veri, quelli che studiano la storia della nostra specie, non prevedono il futuro (quelli si chiamano astrologi, e non sono scienziati), però descrivono il passato e cercano di scoprire le cause che hanno portato al susseguirsi degli eventi. Non pretendono, gli storici, di prevedere il futuro in base alla loro conoscenza del passato. Però sono in grado di dipingere possibili scenari futuri, partendo dalla comprensione del passato. Noi storici naturali possiamo fare la stessa cosa. Molti ci chiedono di prevedere il futuro, ma chiedereste a uno storico di prevedere il futuro? Vi riderebbe in faccia, ma poi vi dipingerebbe possibili scenari futuri, senza la pretesa di fornire predizioni con precisione matematica. Non c’è la formula della storia!

Queste salpe, lo si è visto studiandone il comportamento nelle rare volte in cui è stato possibile, sono efficacissimi filtratori, e rimuovono dall’acqua le alghe microscopiche che stanno alla base del funzionamento del mare. Ricordo che gli oceani coprono il 70% del pianeta e il loro funzionamento determina il funzionamento di tutti gli ecosistemi della globo terracqueo. Alla fine dell’inverno, queste piccole alghe sono miliardi di miliardi, e danno da mangiare a miliardi di piccoli crostacei. Noi non vediamo questi piccoli esseri, ma se il mondo funziona… lo si deve a loro. I piccoli crostacei sono mangiati dalle larve dei pesci e queste poi crescono e i pesci si mangiano tra loro, in una rete di rapporti che arriva sino a noi. La “respirazione” degli oceani, e quindi del mondo intero, è a carico delle alghe microscopiche, che producono ossigeno e sequestrano anidride carbonica. Le salpe, questi tunicati gelatinosi planctonici, competono con i piccoli crostacei perché anch’esse si nutrono delle piccole alghe che i biologi marini chiamano fitoplancton. Tutte quelle salpe, nel mese scorso, hanno ripulito il mare dal fitoplancton, presumibilmente affamando i piccoli crostacei e, di conseguenza, le larve e i giovani pesci che, quindi, potrebbero non poter crescere come al solito, diventando meno abbondanti. Questo evento potrebbe avere ripercussioni sulla resa della pesca, tra qualche mese. Ma chi studia la pesca non si interessa di salpe. Pochi animali mangiano le salpe. La gran parte di quella massa gelatinosa si sfalda e viene aggredita dai batteri, affondando. Se il vento la spinge verso costa, il moto delle onde la sbatte, proprio come si sbatte l’uovo, e si forma una bella schiuma bianca.

Mercoledì 15 maggio il mare di Porto Cesareo era un brodo di salpe in via di sfaldamento. Lo potete vedere nella foto scattata dall’ecologa Simonetta Fraschetti, dell’Università del Salento. Probabilmente molta parte della costa ionica era in simili condizioni. Ecco spiegato il mistero delle schiuma lungo la costa ionica salentina. E’ un fenomeno raro e quindi, se avete occasione, andatelo a vedere, portate i bambini, e spiegateglielo. Perché a scuola queste cose non si insegnano. Dopotutto che importanza ha il funzionamento degli ecosistemi? Bazzecole, quisquilie, pinzillacchere. Noi non viviamo mica su questo pianeta, no?

L’analfabetismo sui fenomeni naturali è tragicamente diffuso, e noi cerchiamo di rimediare, con le nostre povere forze. Anche quest’anno l’Università del Salento promuove la campagna Occhio alla Medusa, un esperimento di scienza dei cittadini che chiede proprio ai cittadini di segnalare la presenza di plancton gelatinoso (meduse, salpe e altro). Coinvolti in un esperimento scientifico, i cittadini imparano, e si sensibilizzano alle problematiche della comprensione degli ecosistemi. Il progetto, quest’anno, sarà particolarmente intenso, un po’ perché la stagione è iniziata con questo boom di gelatina, e un po’ perché siamo riusciti ad attirare numerosi finanziamenti, con un lungo elenco di progetti (Vectors of Change, Perseus, RITMARE, MED-Jellyrisk, CoCoNet e molti altri) e abbiamo coinvolto ricercatori di tutta l’area del Mediterraneo, che hanno adottato la nostra politica di coinvolgimento dei cittadini (ora la burocrazia universitaria non ci permette di muoverci, di andare in missione, e questa è una triste storia che vi risparmio). La rivista Focus ci dà una mano fortissima, con la sua pagina web e tra poco stamperemo la nuova versione del poster, con l’arte di Alberto Gennari e la grafica di Fabio Tresca. Chiediamo aiuto ai cittadini, chiediamo che ci segnalino questi eventi. Se vedete animali gelatinosi fotografateli (col telefonino è facile) e mandateci la vostra segnalazione attraverso la pagina http://meteomeduse.focus.it/. La scienza ha bisogno di tutti (e tutti hanno bisogno della scienza, o forse no?).

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La natura, per noi

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 6 giugno 2013]

Il mio amico Luca Carbone, un fine conoscitore di Leopardi e di Heidegger, mi ha sorpreso dicendo che io parlo di natura ma che quel che la gente capisce, ad evocare la parola, è ben altro da quello a cui mi riferisco. Mi ha fatto venire in mente, ricordandomelo lui, che un tempo le donne (solo loro, non gli uomini) chiamavano “natura” il loro apparato sessuale. Che poi è proprio quello che pensava Courbet quando dipinse il famoso quadro L’origine del mondo, intitolando così una raffigurazione dei genitali femminili.

Oggi, la natura è vista come uno spot di qualche ortaggio e di qualche biscotto industriale spacciato per naturale. E anche quello che ci fanno vedere in televisione, in moltissimi programmi dedicati alla “natura”, è solo una serie di aneddoti pseudo-educativi. La natura sono i panda, i pinguini e i delfini, le balene e i leoni. Animali carismatici, che evocano emozioni. Devono essere bellissimi, oppure pericolosissimi. Comunque estremi. E le loro storie sono antropomorfizzate. Una natura da Esopo, con tanto di volpi e di uva. Nel sistema educativo è la stessa cosa. La natura non c’è. Ci sono dettagli incomprensibili (tipo la struttura del DNA, insegnata come una poesia a memoria: adenina, timina, guanina, citosina) e spiegazioni raffazzonate. Ritenute tanto inutili che un ministro della pubblica istruzione, si chiamava Moratti, e fece anche il sindaco a Milano, tolse la teoria dell’evoluzione (la chiave di volta della biologia) dai programmi della scuola dell’obbligo. Come se mai vi fosse stata insegnata. Guardando come è spiegata, è come se non ci fosse, e guardando le ore dedicate a questi argomenti, è proprio come se non fossero neppure sviluppati.

Non c’è posto per la natura nella nostra cultura. Ho scritto un libro intitolato Economia senza Natura, il prossimo sarà Cultura senza Natura. Perché chi ha disegnato i nostri programmi scolastici pensa che scienza e matematica siano sinonimi e che le scienze naturali siano solo una serie di aneddoti che si possono o non si possono raccontare: la vera cultura è un’altra. Riassumibile in due frasi emblematiche: “ei fu siccome immobile” e “raggio per raggio per tre e quattordici”. Poesie e teoremi. Nessuno sa come funzioni un ecosistema, e nessuno sa come funziona il proprio corpo. Si imparano pezzi di informazioni ma restano scollegati e non portano a vera conoscenza. I mattoni di informazione non sono assemblati a formare un solido edificio di conoscenza, e quel che rimane è solo un cumulo di mattoni.

Il risultato di questo è evidente: un disastro. Un disastro per come abbiamo gestito l’economia, che non prevede la natura. Ed è anche un disastro l’uso dell’ingegneria, che ha devastato la natura. Non si insegna la natura, a economia e a ingegneria. E l’educazione sulla natura è stata nulla, prima del percorso universitario. La colpa non è di economisti e ingegneri, non sono loro ad essere cattivi, sono stati formati così, proprio come Jessica Rabbitt. Esercitano le loro competenze. Gli uni pensando solo alla crescita degli indicatori, incuranti dei costi ambientali, gli altri pensando che con il cemento si possa curare ogni male, e rimediare a ogni imperfezione della natura. Il risultato di questo modo di gestire le cose è evidente, lo ripeto. I sistemi economici sono in grave dissesto, e viviamo nel più completo scempio del nostro territorio, con un dissennato uso del suolo, con impianti industriali che seminano morte e distruzione. 

Se educati opportunamente, economisti e ingegneri, invece di rappresentare un problema potrebbero darci le soluzioni, perché le loro discipline sono essenziali per il nostro benessere e il nostro progresso. Ma prima devono imparare come funzionano e come sono fatti i sistemi in cui il loro ingegno andrà ad operare. Ora non lo sanno, per loro la natura non esiste. E non solo per loro. Se esiste, è uno spot pubblicitario, con un mugnaio che si dà da fare per produrre pane e biscotti che dureranno a lungo sugli scaffali dei supermercati, all’interno di belle confezioni che aumenteranno la produzione di rifiuti.

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Ancora TAP: pro e contro

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 30 giugno 2013]

I giornali mi hanno intervistato per quanto riguarda la questione del gasdotto transadriatico che dovrà portare il gas azero in Italia, gasdotto chiamato TAP (Trans Adriatic Pipeline). Dai titoli si evince che sono favorevole. Veramente la mia posizione è più variegata. Ci sono molte cose a favore di TAP. Ad esempio ci affrancherà dal monopolio russo delle forniture di gas e, se i nostri governanti saranno accorti, ci permetterà di spuntare prezzi migliori a causa della concorrenza tra i fornitori. Il gas, poi, è più sicuro del petrolio da un punto di vista ambientale, e anche della sicurezza. Tutti abbiamo un tubo del gas che ci entra in casa. L’alternativa è la bombola. Ci sono più incidenti con la bombola che col tubo, e comunque nessuno rinuncia ad avere il gas perché c’è stato qualche incidente, altrimenti non dovremmo neppure adoperare l’automobile, o la bicicletta. I pro sono tanti. Penso alla possibilità di trasformare le centrali elettriche, passando dal carbone al gas, con diminuzione delle emissioni di polveri sottili. Ma queste scelte non sono automatiche e dovranno essere negoziate. E i contro? ci sono delle controindicazioni? E’ ovvio che non esistano attività a impatto zero. Bisognerà far passare un tubo di 90 cm di diametro in una struttura che arriverà ad essere, credo, 2.50 m. Si scaveranno tunnel, trincee, e per un po’, non per molto, ci saranno intense attività. Una volta installato, il tubo sarà coperto e non si vedrà niente. Soprattutto sulle spiagge. Nell’entroterra ci sarà una installazione per la distribuzione del gas. Bisogna vigilare che non sia troppo invasiva. Non si devono firmare assegni in bianco e la vigilanza deve essere massima, anche quando si approvano gli interventi. TAP, tra l’altro, prevede la realizzazione di microtunnel che passano sotto le praterie di Posidonia, un habitat prioritario per l’Unione Europea. Sarebbe la prova generale di una tecnica che ci permetterà di fare le condotte fognarie a mare senza distruggere la Posidonia.

Da qualche parte da TAP dovrà pur arrivare, e tutti dicono che non dovrebbe arrivare a casa propria: la solita storia. E’ per questo che i comitati NO TAP sono molto locali e le grandi associazione ambientaliste non hanno preso posizione. Ma il fatto che da qualche parte debba arrivare significa che quella “qualche parte” deve ricevere compensazioni per il “disturbo”, accettato per il bene del paese. Fatta salva la sicurezza degli impianti: non ci sono indennità che tengano se un’attività mina la tua salute, ma non mi pare che sia questo il caso. Che indennità chiedere? Si potrebbe chiedere che TAP contribuisca alla demolizione delle strutture invasive costruite sulla costa diciamo entro dieci chilometri dalla sua installazione, contro le quali non ci sono stati grandi comitati, mi pare. Contribuendo poi alla realizzazione di strutture in armonia con le condizioni ambientali. E che contribuisca alla pulizia delle spiagge che, lasciatemelo dire, sono in condizioni disastrose per gran parte dell’anno e vengono ripulite solo all’inizio della stagione balneare, spesso con tecniche che distruggono le spiagge stesse. Qualcuno parla di far costruire barriere frangiflutti a TAP. Ecco, su questo sarei decisamente contrario, e mi unirei volentieri ai comitati per il no. Sappiamo come è andata con quelle di San Cataldo. La difesa del litorale si fa rimuovendo le strutture invasive costruite direttamente sul mare, e lasciando che la natura operi sulla linea di costa, come ha sempre fatto. Quel che vogliamo “stia fermo” è il prodotto del “movimento” di milioni di anni. Non possiamo fermare la natura, ci dobbiamo adattare. Che TAP ci aiuti a questo cambiamento di atteggiamento, di mentalità, facendo diventare quel tratto di costa un laboratorio di esperimenti di adattamento all’uso della costa. Ma se si tratta di cementificare ulteriormente il litorale, con la scusa di difenderlo, allora la mia posizione è nettamente contraria. Ho speso una vita intera, ormai, a denunciare la follia con cui distruggiamo il nostro ambiente. Qui ho iniziato con lo studio degli impatti della pesca ai datteri di mare. Mi sono pronunciato su impianti industriali, su abusivismo costiero, sul nucleare, sulle trivellazioni per il petrolio, sulla necessità di realizzare le Aree Marine Protette, sulla necessità di regolare la pesca e l’acquacoltura quando erano in pochi a farlo. Ho detto tantissimi no, spesso molto scomodi. Questa volta, con le dovute cautele, mi sento di poter dire di sì. Intendiamoci, si può rinunciare a tutto, o quasi. Però poi bisogna essere pronti a pagarne le conseguenze. Vado ogni giorno da Lecce a Ecotekne in bicicletta. Saremo in dieci a farlo. Ho già avuto un incidente a causa delle condizioni della strada. So che la mia decisione non cambia molto il bilancio delle emissioni, ma qualcuno deve cominciare, no? Poi vedo i paladini dell’ambiente che, pur potendo trovare soluzioni alternative, si muovono in auto anche per fare cento metri. E hanno la casa abusiva-condonata al mare.

Ultima nota. Qualcuno ha detto che sono stato pagato da TAP. Confesso di averci provato. Quando hanno iniziato a fare prospezioni, un mio amico geologo mi ha chiesto di fare un’offerta per le prospezioni biologiche. Non l’ho fatta direttamente io, l’ha fatta lo spin-off universitario Antheus (il primo spin-off costituito presso la nostra Università, di cui mi onoro di essere presidente, con compartecipazione agli utili pari a zero) ma TAP ha ritenuto la nostra offerta poco vantaggiosa da un punto di vista economico e non ci ha affidato l’incarico.

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Onore a Margherita e a Rita, le vecchie bambine

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 1° luglio 2013]

Prima Rita Levi Montalcini, ora Margherita Hack. Biologa e premio Nobel la prima, astrofisica la seconda. Accomunate da una cosa: sono state per decenni la bandiera della scienza italiana. Per sua stessa ammissione, comunque, Margherita Hack non ha mai fatto scoperte clamorose, roba da Nobel. Ha diretto un osservatorio astronomico e ha passato gran parte della sua vita in Italia, mentre Montalcini ha lavorato in USA e ha continuato a lavorare alla scienza fino alla fine.

Ah, c’è un’altra cosa che le accomunava. Erano donne. Strano eh? Parliamo sempre di discriminazione delle donne, di quote rosa, ed ecco che vengon fuori queste due terribili vecchiette a dimostrare che il valore viene riconosciuto, se c’è. E se quello che fai è di alto livello nessuno ti ferma perché sei donna. Non nella scienza. Anzi, morte loro, chi ci rimane? No, per favore, non mi parlate di Antonino Zichichi. Con le sue supercazzole cosmiche. C’è il Nobel Rubbia, va bene. Ma lavora fuori, ed è mal tollerato, perché dice cose scomode. Forse le due vecchiette, dicendo anch’esse cose scomode, sono state favorite dal fatto di essere donne, perché ogni attaco, che pure c’è stato, soprattutto a Montalcini quando svolgeva il ruolo di senatore a vita, sarebbe stato interpretato anche come forma di maschilismo, ostile ad ammettere la superiorità di femmine! Dobbiamo ancora superare questa fase. Erano donne, ma non hanno avuto figli. Hanno rinunciato alla funzione biologica più importante degli esemplari femminili di ogni specie: dare continuità alla specie, producendo nuovi individui. Hanno rinunciato a passare i propri geni alle future generazioni, ma hanno sparso molto di più. Non hanno sparso geni, unità biologiche di memoria chimica, ma hanno seminato miliardi di memi: unità di memoria culturale. Non si sono riprodotte biologicamente, ma si sono riprodotte in modo prodigioso, come dei virus, nella nostra cultura. 
Hanno saputo parlare a tutti, e i media sono stati generosi con loro, le hanno coccolate e hanno promosso la loro immagine. Sono state testimonial della scienza nel nostro paese, e hanno mostrato una cosa ancora più importante. Hanno mostrato che la scienza è il modo per conoscere il mondo, e costituisce una parte fondamentale della nostra cultura. Non sono state ambasciatrici della scienza, sono state ambasciatrici della cultura. Perché la cultura è scienza e la scienza è cultura. Intendiamoci, non sono qui a dire che la scienza sia l’unica forma di cultura. Sarei un fesso. Ma pensare che la scienza sia altro dalla cultura, come esemplifica la settimana della cultura scientifica, è un gravissimo errore culturale. Non c’è la cultura scientifica e poi la Cultura. C’è la cultura. Ed è fatta da tanti pezzi, tante branche, ma riuscite a concepire un modo alternativo alla scienza per riuscire a capire il mondo? O l’universo, se vogliamo parlare di Hack? 
Copernico, Newton, Galileo hanno tolto il mondo dal centro dell’Universo, Darwin ha tolto l’uomo dal centro della Natura. Cosa c’è di più culturale di questo? Avremmo potuto capire queste cose senza la scienza? Rita e Margherita sono andate. Erano grandi, come si dice qui a Lecce quando ci si riferisce ad una persona avanti negli anni. Sono state allegre e incuranti fino alla fine. A Rita abbiamo dato la laurea honoris causa in Scienze Biologiche, qualche anno fa, fece un bellissimo discorso e lo chiuse con una frase che ricordo ancora con tanta tenerezza: sono sempre contenta quando vengo qui a… Palermo!

Rita! eravamo a Lecce! Ecco, queste cose me le rendono ancora più simpatiche, e umane.  Erano anziane, ma nessuno si è sognato di dire che andavano rottamate. Gente così va avanti fino alla fine, come i vecchi capi indiani. Erano sagge, e la saggezza non si ottiene che in un modo, con l’esperienza e con l’età. Erano vecchie fuori, ma bambine dentro. Ed è questa la condizione necessaria per diventare quello che sono diventate: grandi.

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I giganti del mare

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 14 luglio 2013]

Chi non va normalmente per mare pensa che in Mediterraneo non siano presenti grandi animali o che, se presenti, siano una rarità. Non dico che siano così frequenti, ma non lo sono da nessuna parte. Da noi, nelle acque del Salento, ci sono eccome, i giganti. Vi invito, se non lo conoscete, a scrivere “squalo Frigole” in un motore di ricerca. Troverete un video amatoriale girato da Gianluca e da un suo amico. Erano usciti per una battuta di pesca davanti a Frigole e, all’improvviso, hanno visto una pinna. Il dialogo, in dialetto salentino, è esilarante. Uno ha paura, e vuole andare via, l’altro (Gianluca) vuole vedere. Le invocazioni a divinità si sprecano, e un commento dice: questo video è pieno di bestemmie! ma non sono davvero bestemmie. Certo, hanno accostato la divinità ad animali non nobili, ma era un’invocazione. Dopotutto quegli animali ci forniscono prosciutto e salame, sono nobilissimi. Lo squalo era quanto la barca, e quindi più di sei metri. E l’amico di Gianluca chiede se è uno squalo bianco. Gianluca risponde che no, non è uno squalo bianco e fa una determinazione tassonomica esilarante: uno squalo strano. E poi aveva la bocca aperta, e l’amico di Gianluca si preoccupa per lui. Non è che sta per morire? Chiamiamo la Guardia Costiera (il 1518). Paura e ammirazione assieme. Si trattava di uno squalo elefante, un cetorino. Raggiunge anche i 10 metri, è innocuo e si nutre di plancton, proprio come le balene. E’ il secondo squalo al mondo, per dimensioni. Il primo è lo squalo balena, anch’esso innocuo, anch’esso con alimentazione a base di plancton, tropicale. Ne ho visto uno in Messico, nel mare di Cortez, e non lo dimenticherò mai. Ma torniamo al nostro squalo elefante. Da noi è molto frequente, e spesso i pescatori si ritrovano questi giganti nelle reti. Non è molto che i pescatori di Porto Cesareo ne hanno liberato uno, salvandolo dalla morte dentro le loro reti. Sempre i pescatori di Porto Cesareo ne hanno regalato uno al Museo di Biologia Marina. E a quello squalo abbiamo dedicato una sala intera, la sala dello squalo elefante. Il “nostro” è circa otto metri, e lo abbiamo fatto con la bocca spalancata, per far vedere come mangia il plancton, e abbiamo colto l’occasione, con Anna Miglietta, la curatrice del Museo, per spiegare cosa sia il plancton, parola che tutti conoscono ma di cui spesso si ignora il vero significato. Mi piace quando vengono al Museo i bambini più piccoli, quelli delle scuole materne. Quando entrano nella sala dello squalo restano a bocca aperta, proprio come lo squalo. Penso che quello sarà il loro primo ricordo, quando verranno grandi. E per Gianluca e il suo amico quell’incontro con lo squalo sarà un capitolo importante, anche da grandi.

Nella sala a fianco a quella dello squalo, nel Museo, abbiamo la sala della pesca. E lì c’è il pesce osseo (gli squali sono cartilaginei) più grande del mondo: il pesce luna. Come lo squalo elefante, anche il nostro pesce luna è stato pescato a Porto Cesareo e ce lo hanno regalato i pescatori. Non è delle dimensioni massime, è ancora piccolino, supera di poco i due metri. I pesci luna sono sempre più abbondanti perché il loro cibo, le meduse, è sempre più abbondante. Non si avvicinano molto alla costa, e sono i diportisti a vederli. Bè, anche lo squalo elefante non arriverà sulla spiaggia! Bisogna andare in barca per vedere i giganti. E poi c’è il secondo rettile marino più grande del mondo (il primo è un coccodrillo, ma sta in Australia): la tartaruga liuto. Supera i due metri di lunghezza e può pesare anche 700 chili. E’ l’emblema del Museo di Biologia Marina, e ne abbiamo una vera, all’interno, e una in grandezza naturale, all’ingresso del Museo, opera dello scultore Isaia Zilli. Anche la tartaruga liuto, come il pesce luna, mangia meduse. E poi ci sono balene e capodogli. Passano davanti alla nostra costa, e un gruppo di balenottere è stato avvistato una settimana fa. I capodogli… ci sono anche loro e nove sono andati a morire lungo le coste del Gargano, due o tre anni fa. Si tratta di incontri frequenti, e le cronache del passato parlano spesso di “pesche miracolose” anche se poi, di queste prede, non si sapeva bene che fare. E gli imbalsamatori si cimentavano nell’impresa di preparare gli scheletri. A Gallipoli c’è un bel Museo dove sono mostrati importanti scheletri dei nostri giganti. Lo so, parlo troppo di Musei. Il fatto è che non si può avere la certezza di vedere queste grandi bestie, e quindi se si vuole avere un’impressione è meglio andare a vederle dove sono conservate. I Musei servono a questo. Nelle chiese ci sono le reliquie dei santi, nei musei ci sono altre reliquie. Se Gianluca e il suo amico avessero visitato il Museo di Porto Cesareo avrebbero detto: ah, guarda Gianluca, è uno squalo elefante. Si chiama così perché ha una sorta di naso, una proboscide. Quando cresce lo squalo, la proboscide si accorcia. Quello è un cucciolo, vedi come è lunga la proboscide? E ha la bocca aperta, sta mangiando. Noi non lo vediamo, ma il plancton deve essere molto abbondante qui, visto che il nostro amico squalo sta pasteggiando. Ma non è che lo disturbiamo, standogli così vicini con la barca? Sì, lo disturbiamo. Allontaniamoci. Aspetta. Non capita di incontrarli spesso questi bestioni, no? Fammelo guardare ancora un pochino. Magari stiamo a cinque o sei metri da lui. Che dici? E se mi buttassi in acqua? Ho una telecamera di quelle sportive, lo potrei anche riprenderlo. Va bene, Gianluca, vai. Ma rispettalo. 
E Gianluca avrebbe potuto nuotare a fianco allo squalo elefante. Per un po’. Anche i pesci luna sono innocui, come anche le tartarughe liuto. Ma questo non vuol dire che siano giocattoli. Bisogna rispettarli. 

Ora vi metto paura. Il record mondiale di catture di squali bianchi con la canna, per quel che ne so, è ancora quello ottenuto a… Malta. A due passi da noi. Lo squalo bianco non è innocuo. Può tagliare in due una persona con un solo morso. E raggiunge i sei metri di lunghezza. Alcuni dicono anche 7 (sapete come sono i pescatori). In California gli squali bianchi mangiano i surfisti. Nuotano vicini al fondo e guardano su. Quando vedono una sagoma che cavalca un’onda sanno che è una foca o un’otaria, la loro preda preferita, e quindi salgono veloci, e la azzannano, a volte facendola volare in aria. Ho passato un anno della mia vita in California, e mi piaceva guardare le foche e le otarie mentre facevano il surf, nelle onde del Pacifico. Qui ci sono gli squali bianchi, mi dicevano i colleghi biologi marini. E nessuno andava sott’acqua. Io ci sono andato, tante volte. E una volta, per qualche secondo, ho visto uno squalo bianco. Il mio compagno di immersione era messicano, si chiamava Diego Segundo. Ero sul fondo e stavo raccogliendo campioni. Diego mi tocca la spalla, mi volto e vedo che ha gli occhi spalancati, e mi indica una cosa. E’ una grande massa bianca, a una quindicina di metri di distanza da noi. E viene verso di noi. Ci siamo appiattiti sul fondo. E’ vero che si pensa veloce, in certi momenti. Bisogna dargli un pugno sul naso, quando attacca. Così avevo letto. Ma un conto è leggere e un conto è essere lì. Avevo anche il coltello, ma non serve a gran che. Sono stati i dieci secondi più lunghi della mia vita. Poi lo “squalo bianco” si è avvicinato, ci ha annusati e se n’è andato. Solo che era un’enorme foca. Ma per noi, per quei secondi, era uno squalo bianco! Bene, ci sono anche da noi. Ma perché non ci attaccano, e in California invece sì? La risposta è semplice: noi abbiamo ammazzato tutte le foche. E quindi i nostri squali bianchi non possono scambiarci per le loro prede preferite. Hanno abitudini differenti. Sanno che sarebbe una perdita di tempo cercare le foche (non ce ne sono più) e quindi vanno a cercare il cibo dove sanno di trovarlo, e lì noi non facciamo il bagno. E quindi potete stare tranquilli. E’ più facile che vi morda il vostro cane, che uno squalo. Il pericolo vero, il più grande, a fare il bagno nei nostri mari è determinato da un’altra specie, molto aggressiva e pericolosa. Può raggiungere e a volte superare i due metri di lunghezza. Pesa di solito meno di cento chili, ma alcuni esemplari arrivano anche a 150. Le femmine sono più piccole dei maschi. Di solito ha abitudini terrestri, ma stagionalmente si avventura nell’ambiente marino, soprattutto nel periodo estivo. Popola in masse enormi le spiagge, dove a volte mette in scena rituali di gruppo, emettendo forti vocalizzi. Ha evoluto una tecnologia che gli permette di avventurarsi in mare, e lo fa senza alcuna cura per chi si potrebbe trovare sulla sua traiettoria. Siamo noi. E la cosa peggiore che vi può capitare, facendo il bagno in mare, è di essere arrotati dall’elica di qualche sconsiderato. E questi sono certamente molto più abbondanti dei pacifici giganti del mare che, malgrado noi, continuano a regalarci meraviglia.

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Posidonia: la foresta del mare

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 21 luglio 2013]

Ogni anno, alla fine dell’estate, grandi ammassi vegetali si accumulano sulle nostre spiagge, a volte intasando i porti, come succede a San Cataldo, altre volte coprendo le spiagge di qualcosa che viene percepito come una massa maleodorante di sporcizia. Molto spesso questo materiale viene chiamato genericamente “alghe”, e sono in molti a chiedere che questa “sporcizia” venga rimossa. E allora continuiamo con l’alfabetizzazione marina… Intanto non sono alghe. Le alghe non hanno radici, fusto, e foglie, non fanno fiori. C’è una bella differenza tra le alghe e le piante superiori. Le alghe sono relativamente più semplici e appartengono a gruppi vegetali molto lontani dalle piante superiori. Bene, quelle che tutti chiamano “alghe” sono in effetti le foglie di Posidonia oceanica, una pianta marina che vive solo in Mediterraneo ed è protetta dall’Unione Europea che, nella Direttiva Habitat, identifica le sue praterie come un habitat di importanza comunitaria. La posidonia ha radici che si insinuano nella sabbia, ma può crescere anche sulla roccia. Le radici partono da un rizoma che, in linea di massima, potrebbe essere paragonato al “tronco” e, dal rizoma, sporgono le foglie, nastriformi, in fasci. La posidonia si riproduce attraverso fiori che, però, non sono molto appariscenti, visto che l’impollinazione non avviene grazie agli insetti (non ci sono insetti in mare), e dai fiori vengono fuori i frutti, che galleggiano, e poi dai frutti si liberano i semi, che scendono sul fondo a formare altre pianticelle. La posidonia forma praterie che, da noi, sono molto estese. Quella di Gallipoli, per esempio, è veramente grande, ma non è un’eccezione: tutta la nostra costa sabbiosa è interessata dalle praterie di posidonia. Solo il tratto di costa tra Otranto e Leuca, essendo roccioso e a strapiombo, non la vede dominante. La posidonia, in autunno, perde le foglie e queste si accumulano sulle spiagge. Cominciamo da questo. Saranno davvero spazzatura? La risposta è no. Le foglie di posidonia accumulate sulle spiagge le difendono dall’erosione. Le mareggiate, infatti, invece di portare via la sabbia, portano via le foglie ed esse, inoltre, amalgamandosi con la sabbia, contribuiscono alla sua stabilità. Non tutte le foglie delle posidonie cadono stagionalmente, inoltre. Quando cadono quelle più vecchie, le giovani sono già formate e le fronde sono rigogliose anche dopo la caduta delle foglie vecchie. Queste fronde smorzano esse stesse le onde. La posidonia, quindi, difende le nostre spiagge sia da viva che con le sue foglie morte. I rizomi e le radici compattano il sedimento e lo rendono stabile. Inoltre i rizomi giovani crescono sui rizomi morti, alzando il fondo del mare. Sono anch’essi una biocostruzione, proprio come il coralligeno di cui ho parlato in un altro articolo.

Le praterie di posidonia, quindi, sono la nostra foresta amazzonica, e le dobbiamo difendere come, del resto, ci impone l’Unione Europea. Non a caso, in Puglia, i Siti di Importanza Comunitaria, in mare, sono quasi esclusivamente costituiti da praterie di posidonia. Ma l’importanza non è solo meccanica, di stabilizzazione del fondo del mare e delle spiagge. La foresta di posidonia ospita una abbondantissima biodiversità, e offre rifugio e nutrimento ai giovani di moltissime specie di pesci di interesse commerciale. Se la distruggiamo, togliamo opportunità riproduttive a queste specie e i prodotti della pesca saranno inferiori. Ma noi come la distruggiamo?, mi chiederete. Lo facciamo in tanti modi. Gettiamo l’ancora su una prateria e poi, per salparla, strappiamo qualche rizoma. Un’ancora oggi e un’ancora domani, ed ecco che si aprono numerosi buchi nella prateria e la degenerazione comincia. Ovviamente, se peschiamo con una rete a strascico la distruggiamo, ma anche le altre reti contribuiscono. I ripascimenti di litorale sono un disastro per le praterie, perché la sabbia depositata sulla spiaggia viene portata via dal mare e va a coprire le praterie, soffocandole. Non parliamo delle condotte e delle tubazioni in generale. Si aprono trincee che diventano cicatrici che non rimarginano più, e la degenerazione si espande. L’inquinamento la disturba, è inutile dirlo. Non parliamo delle difese a mare, a volte impiantate proprio sulle praterie.

La posidonia, da buona pianta, consuma anidride carbonica e produce ossigeno. E quindi bilancia gli effetti dell’aumento di anidride carbonica che, lo sappiamo, causano il riscaldamento globale.

Introduciamo un concetto importantissimo: i servizi ecosistemici. Noi viviamo perché ci sono ecosistemi che ci sostengono. Noi consumiamo ossigeno e produciamo anidride carbonica. E quindi se una porzione dell’ecosistema consuma anidride carbonica e produce ossigeno, ecco che ci fornisce un servizio. A noi piace la stabilità delle spiagge. E se una specie (in questo caso la posidonia) compatta il fondo del mare, smorza le onde, e difende la sabbia emersa, coprendola con le foglie morte, ecco che ci fornisce un servizio. E se poi quella foresta diventa il posto dove si riproducono i pesci e permette che si rinnovino le popolazioni di pesci che noi depauperiamo con la pesca, ecco arrivare un altro servizio. La posidonia ci dà ossigeno da respirare, ci dà proteine da mangiare, e protegge le nostre spiagge. Ma noi non lo sappiamo, siamo analfabeti per quel che riguarda il mare….

La nostra ignoranza, come gran parte dell’ignoranza, può essere pericolosa. Per pulire le spiagge, spesso vengono usati mezzi meccanici che, assieme alle foglie, rimuovono anche la sabbia. Questa “pulizia” non solo rimuove la protezione alla spiaggia, ma innesca ulteriori processi erosivi. Chi crede di fare pulizia in effetti sta segando il ramo su cui sta seduto. Magari poi, visto che la spiaggia andrà in regressione, farà dei ripascimenti e la nuova sabbia sarà portata via dalle mareggiate, coprirà la posidonia, soffocandola, e l’erosione sarà ancora più grave. Alla fine, gli ultimi lembi di prateria saranno coperti da una bella massicciata per difendere la costa dall’erosione. E il disastro è bell’e fatto!

Una spiaggia con grandi ammassi di foglie di posidonia è una spiaggia sana, protetta dall’erosione, e tutte quelle foglie testimoniano la presenza di una grande prateria. Va difesa, non va distrutta. E, in effetti, una collaborazione tra l’Università del Salento e l’Assessorato all’Ambiente del Comune di Lecce, è volta proprio all’utilizzo delle foglie di posidonia per difendere il litorale sabbioso.

E se si intasa il porto? Eh già, a San Cataldo le foglie sono talmente tante (meno male) che il porto peschereccio si intasa. E giustamente i pescatori e i diportisti chiedono provvedimenti. Questo fenomeno si verifica per un fatto molto semplice, chi ha progettato il porto non sa come funziona il mare. Ha semplicemente costruito una barriera e non ha considerato i regimi di corrente, non ha considerato la produzione di foglie morte da parte della prateria antistante,  e ha solo pensato a costruire un muro. Se avesse preso in considerazione queste variabili avrebbe potuto orientare il porto in modo differente, oppure avrebbe potuto dire: qui non è il caso di fare un porto perché sarebbe sempre intasato dalle foglie di Posidonia.

E’ questa l’alfabetizzazione marina che l’Unione Europea ritiene così necessaria. E, una volta tanto, non è una vessazione burocratica. Quando qualche opera a mare viene proposta da disinvolti imprenditori, l’Unione Europea dice: no, lì non la puoi fare, c’è la posidonia! Gli ignoranti vedono questo come un intollerabile limite alla crescita economica. Abbiamo già deforestato il nostro territorio emerso, e il risultato è il disastro idrogeologico che affligge l’intero paese. Con gravissime ripercussioni economiche, tra l’altro. Per favore, non commettiamo la stessa follia anche in mare.

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Il fascino pungente del macrozooplancton gelatinoso

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 28 luglio 2013]

Macrozooplancton gelatinoso. Leggendo queste due parole avete immediatamente capito di che voglio parlare, giusto? Sbagliato! Non capisce nessuno, a parte i pochi fanatici che fanno il mio mestiere. Sì, per quanto strano possa sembrare, sono pagato per studiare il macrozooplancton gelatinoso. E le Nazioni Unite, attraverso la FAO, hanno persino pubblicato un libro (scritto da me) sull’argomento (lo trovate qui: http://www.fao.org/docrep/017/i3169e/i3169e.pdf). Ora devo svelare il mistero, altrimenti la lettura si ferma qui. Sto parlando di meduse. E non solo. Nel mese di maggio, le coste del Salento sono state invase dalle salpe (da non confondersi con i pesci dallo stesso nome), organismi gelatinosi che possono formare catene di individui, ognuno con una macchia arancione molto evidente, lunghe anche 6 o più metri. La gente le chiamava meduse, ed era preoccupatissima. Questi lunghi serpentoni sono assolutamente innocui, non pungono, semplicemente perché non sono meduse, anche se sono gelatinosi. Dato che mi sono sobbarcato la missione di aumentare l’alfabetizzazione marina dei lettori di Quotidiano, comincio la lezione. Tutti i viventi sono fatti di cellule. Sono i mattoni che compongono i corpi degli organismi, anche il nostro. Ma ci vuole qualcosa che tenga assieme i mattoni, perché l’edificio resti in piedi: il cemento. Negli organismi il cemento è la matrice extracellulare. Qualcosa che non è fatto di cellule e che tiene assieme le cellule. Bene, nelle meduse, e in altri animali, c’è più matrice extracellulare che cellule. E quella matrice la chiamiamo “gelatina”. Da qui, l’epiteto “gelatinoso”. Gran parte della gelatina è fatta di acqua, ma c’è anche collagene e molto altro. Collagene vi suona familiare, lo so. Ma scommetto che pochissimi sanno che significa. Però non posso iniziare una lezione sulle proteine, e quindi vi invito a cercare su wikipedia. Ora che abbiamo capito cosa vuol dire gelatinoso, con macrozooplancton come la mettiamo? Bè, macro vuol dire grande, e zoo vuol dire animale, e quindi stiamo parlando di animali grandi. Il plancton è l’insieme di organismi, animali e vegetali, che vivono in sospensione nell’acqua e non sono in grado di muoversi contro corrente (anche se possono muoversi eccome ma, ripeto, non controcorrente). Ecco svelato il mistero: plancton animale di grandi dimensioni e composto prevalentemente di matrice extracellulare. Semplice, no? In questa categoria ci sono le meduse, ma non solo. Ci sono anche i taliacei, come gli zoologi chiamano quei serpentoni che ci hanno deliziato a maggio. Ci sono molti tipi di taliacei, e quelli che abbiamo visto si chiamano salpe. Filtrano l’acqua, proprio come le cozze, e non pungono. Ve le potete mettere al collo, come una collanona. Poi ci sono gli ctenofori. Mai sentiti, eh? Lo so che il grado di alfabetizzazione marina è bassissimo, nel nostro paese. Non ve ne fate un cruccio, non è colpa vostra. Ci educano così. Sapete a memoria il Cinque Maggio (Ei fu siccome immobile, dato il mortal sospiro…), ma non sapete cosa sono gli ctenofori (e neppure i taliacei, se è per questo). Gli ctenofori sono simili alle meduse, ma non si muovono con pulsazioni, come fanno le meduse, e neppure formando correnti d’acqua come fanno le salpe, che viaggiano a getto, come i jet. Hanno otto serie di bande ciliate sul loro corpo, e con queste si muovono. Sono iridescenti. L’animale si muove, ma non si vedono contrazioni, pulsazioni. Si vedono solo iridescenze sul suo corpo. Gli ctenofori sono voracissimi carnivori, ma non pungono. Per noi sono innocui.

Va bene, la lezione col ditino alzato è finita. Ora passiamo alle meduse, visto che di salpe ho già parlato abbondantemente a maggio, su queste pagine.

Le meduse pungono. Hanno degli organelli, nelle loro cellule, chiamati cnidocisti. Sono piccole capsule e, all’interno, hanno un filamento rivoltato. Pensate a un guanto per lavare i piatti. Lo togliete, e le dita sono rivoltate, giusto? Soffiate nel guanto e… pop… le dita sono sparate fuori. Ora invece del guanto, pensate a una capsula (come il palmo del guanto) con un solo filamento all’interno, ripiegato come il dito di un guanto. Quando qualcosa tocca la cellula che contiene la capsula, con un meccanismo di scambio di liquidi tra l’interno e l’esterno della capsula (equivalente al soffio nel guanto) il filamento viene sparato fuori in modo rapidissimo. Il filamento ha un’apertura all’estremità e la capsula contiene veleno. Le cnidocisti sono microsiringhe che iniettano veleno. Ogni medusa ne contiene migliaia. Ma ci sono tante, tantissime specie di meduse. E non tutte hanno veleni che ci possono far male. Molte sono innocue. Intendiamoci, meglio sempre lasciarle in pace, perché gli animali vanno rispettati, però si possono avvicinare senza grossi pericoli. Altre, invece, fanno male. In Australia ce ne sono che uccidono. E hanno ucciso più persone degli squali. Da noi no. Questo pericolo non c’è. Però se vedete Pelagia in acqua, meglio non fare il bagno. Pelagia è una medusa di color porpora, con un ombrello di 6-16 centimetri, quattro lunghe braccia orali e lunghi, lunghissimi tentacoli. I tentacoli possono essere contratti ma, se distesi, arrivano lontano. Anche diversi metri. Con quei tentacoli Pelagia caccia le sue prede. Le cnidocisti dei tentacoli (ma tutto il corpo è dotato di cnidocisti, quindi attenzione!) sono dotate di un veleno che fulmina le prede in pochissimo tempo, poi i tentacoli sono contratti e le quattro braccia orali prendono le prede e le ingoiano. Pelagia va in branchi, come i lupi, solo che i branchi, se si parla di animali marini, si chiamano banchi (non chiedetemi perché). Se vi capita di nuotare, e entrate in un banco di Pelagia… sono dolori. Magari le vedete anche, ma i tentacoli distesi non li vedete, e vi pungono senza pietà. Sono anche dove non sembra che siano. I tentacoli si rompono quando noi ci allontaniamo, e restano sulla nostra pelle. E le cnidocisti  che non hanno ancora scaricato il loro veleno possono continuare a farlo, anche se il tentacolo è staccato.

Che fare se si viene punti? La prima cosa è: tranquillizzarsi. Non siamo in Australia, non c’è pericolo di vita. Solo un po’ di dolore. Lo dico perché qualcuno potrebbe nuotare al largo, ed esser punto. Se ci si fa prendere dal terrore, dall’ansia, dagli spasmi, si perde il controllo, ci si muove in modo convulso, si respira a fatica e… si corre il rischio di affogare. Inoltre, più vi muovete e più vi aggrovigliate nei tentacoli. La calma è sempre il modo migliore di affrontare le emergenze. Con calma, stringendo i denti, tornate a riva. Ora dovete togliervi i tentacoli che sono rimasti sulla pelle. Il primo impulso è fregare con le mani la parte dolente. Grave errore. Perché così spalmate ben bene i tentacoli sulla pelle, aumentando le scariche delle cnidocisti. Andate a cercare il vostro portafoglio (una volta me l’hanno rubato, mentre ero sulla spiaggia). In teoria dovreste avere la tessera sanitaria, e questo è il momento di usarla: con la tessera sanitaria (o con una carta di credito, ma anche con un coltello… però state attenti a non tagliarvi) “fate la barba” alla zona dolorante. In questo modo raschiate via i tentacoli (non pulite la tessera sanitaria sulla gamba, però, perché altrimenti avvelenate altre parti del vostro corpo). Lavate la parte dolorante con acqua di mare. Di mare! non acqua dolce. Ho detto che le cnidocisti scaricano grazie a scambi di liquidi tra l’interno e l’esterno delle capsule. L’acqua dolce facilita la scarica. Non usatela. E non usate il ghiaccio, perché è fatto con l’acqua dolce. Ora avete tolto i tentacoli e avete lavato la parte interessata. Qualcuno consiglia di orinare sulla parte dolorante. Immagino la scena se qualcuno viene punto sul viso. Lasciate perdere. Il veleno di molte meduse è termolabile. Il che significa che perde di efficacia con le alte temperature. No, non usate il ferro rovente, per favore! Basta usare una pietra scaldata al sole, o la sabbia calda della spiaggia. Questo dovrebbe alleviare gli effetti nel momento dell’emergenza. Se poi il dolore persiste allora andate in farmacia e chiedete. Le farmacie sono lì per questo.

Ora che vi ho spiegato qualcosa di utile, vi chiedo un favore. Sono anni che faccio un esperimento di scienza dei cittadini. Chiedo alla gente di segnalarmi la presenza di meduse. Un artista formidabile (Alberto Gennari) e un grafico altrettanto formidabile (Fabio Tresca) hanno realizzato un poster bellissimo, dove si possono riconoscere le meduse urticanti (col nome in rosso) quelle poco urticanti (col nome in giallo) e poi il resto del macrozooplancton gelatinoso (col nome in bianco) e ci sono le istruzioni per inviarci le segnalazioni. Le potete fare anche da http://meteomeduse.focus.it/ sul sito della rivista Focus. Dal poster potrete riconoscere le specie pericolose e quelle quasi innocue (con veleni poco urticanti) come Rhizostoma o Cotylorhiza. Bellissime, spesso con branchetti di piccoli pesci che nuotano sotto il loro ombrello. Sono uno spettacolo. Se ci inviate le segnalazioni ci aiutate a ricostruire la presenza delle meduse lungo le coste italiane, e diventate dei cittadini scienziati. Occhio alla medusa! è un esperimento di scienza dei cittadini. E sul sito di Focus trovate la mappa con la distribuzione delle meduse, in base alle segnalazioni dei cittadini.

Bene, la lezione per oggi è finita. Ora andate a fare il bagno. E se vedete meduse in mare non perdete la calma. Non portatele a riva e non mettetele a seccare al sole. Il mare è anche loro, e anche loro hanno diritto di vivere. Francesco parlava al lupo, ma sono sicuro che parlerebbe anche alle meduse!

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Le scelte apparentemente inconciliabili del turismo in Salento

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, agosto 2013]

Non credo ai proverbi. Spesso dicono tutto e il contrario di tutto. Tipo: “l’unione fa la forza” a cui fa da contraltare “chi fa da sé fa per tre”, o “chi non risica non rosica” accompagnato da “tanto va la gatta al lardo… che ci lascia lo zampino”. Per le discussioni in corso sul futuro del Salento mi vengono in mente due proverbi opposti. “Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca” e “prendere due piccioni con una fava”.

E’ in corso una discussione sulle tipologie di offerta turistica da promuovere in Salento. C’è chi ambisce ad un turismo di classe, che attiri persone con buone disponibilità economiche, desiderose di godere la bellezza dei nostri luoghi, la delizia della nostra gastronomia, la natura, le masserie fortificate, gli angoli magici e tranquilli. E c’è chi vuole Rimini, con moltitudini di vacanzieri desiderosi di fare baldoria al suono di musiche tribali, che simulano il battito cardiaco. Possiamo avere entrambi i tipi di turisti?  Una spiaggia popolata da orde dedite a danze sfrenate, scandite dal bum bum bum di grossi altoparlanti, e istruite da sacerdotesse discinte che, con movimenti lascivi, incitano alla partecipazione, non è compatibile con la frequentazione di chi vuole godersi il mare, nuotare, leggere un libro, sonnecchiare pigramente e rilassarsi. Magari giocare con i propri figli, esplorare i fondali con una maschera, o semplicemente sentire il rumore del mare, stando distesi sulla sabbia calda, ma non troppo, vicino al bagnasciuga. Senza correre il rischio di essere colpiti da una palla sfuggita a una coppia che gioca con i racchettoni, incurante del resto del mondo.

La stessa spiaggia non può rispondere alle esigenze di queste due tipologie di turismo. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Mi direte: hai 62 anni, è evidente che non ti piace la spiaggia dedicata ai giovani. No, non è così. Ho iniziato ad andare in moto dall’età di 14 anni e ho continuato fino a 38 (senza mai possedere un’automobile, se non nell’anno trascorso in California) e per me le vacanze erano una tenda, un sacco a pelo, i miei amici e amiche, e posti sperduti, magari in Corsica o su piccole isole dell’arcipelago toscano, lontane da tutto. Campeggio libero, su spiagge deserte o in cale rocciose dove l’acqua ha il colore di smeraldo. La condizione necessaria era che non ci fosse nessuno. C’erano invece compagni di liceo, e poi di università, che amavano le folle e volevano andare in discoteca. Per loro una spiaggia deserta era un mortorio. Per noi era (e continua ad essere) il paradiso. Una volta abbiamo provato una vacanza “mista”, con discotecari e amanti del “niente”, ma dopo un giorno e mezzo ci siamo separati. Le visioni di cosa sia una vacanza sono inconciliabili. Non è questione di età, è questione di visione della vita.

E i due piccioni con una fava? A Gallipoli c’è una spiaggia per le orde danzanti, ma a pochissima distanza, a Lido Pizzo, c’è una spiaggia di quelle che piacciono a me e che è stata votata tra le più belle spiagge d’Italia. Possono coesistere le due visioni della vita? Possono, a patto che siano rigorosamente separate. Chi sta sulla spiaggia “tranquilla” ama anche passeggiare lungo la riva e non gradisce addentrarsi in tratti di costa popolati da orde danzanti. Non gradisce neppure le pallonate di improvvisati Maradona che sollevano tonnellate di sabbia.

Ci potrebbero essere spiagge dedicate ai riti tribali, altre magari per i nudisti, altre ancora per chi vuole godersi il mare in santa pace, senza dover rimirare apparati genitali in bella mostra di sé. Si potrebbero differenziare le politiche dei gestori di stabilimenti balneari, e magari anche le tipologie di licenze. E poi ci sono le coste rocciose, che si difendono da sole dagli amanti del ballo sulla spiaggia. Non si balla sugli scogli.  Una definizione delle tipologie d’uso dei litorali potrebbe salvare capra e cavoli. Magari permettendo la costruzione, sulle coste rocciose, di stabilimenti balneari che imitino l’architettura dei trabucchi del Gargano, fatti con i tronchi portati dal mare, senza alterare la costa con strutture di cemento. Un mosaico di destinazioni d’uso del litorale potrebbe mettere tutti d’accordo, con un differenziamento delle offerte che venga incontro a esigenze spazialmente e culturalmente incompatibili. E poi potrebbe anche avvenire che i danzatori possano sentire la necessità di un po’ di tranquillità e che i tranquilli, una volta ogni tanto, possano aver voglia di scatenarsi un po’. L’importante è che le destinazioni d’uso siano ben definite. Ora non resta che definirle per bene, in modo da conciliare le esigenze di tutti, e forse, una volta tanto, potremo avere la botte piena e la moglie ubriaca (spero che le mogli mi perdonino per l’uso di questo proverbio, che le vede accostate alle botti…).

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La bellezza rimasta sulla terra… è in mare

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, agosto 2013]

I parchi nazionali sono musei all’aperto, allestiti per farci vedere quel che sta diventando sempre più raro: la bellezza della natura. Entriamo in un museo per vedere opere d’arte, ma l’arte, in un parco, non è rappresentazione di bellezza mediata da un interprete umano. L’artista è la natura. Noi l’abbiamo distrutta, violentata, corrotta e ora siamo costretti a tenere in un museo quel che dovrebbe essere tutto attorno a noi.

In Salento non ci sono parchi nazionali, a terra. Oramai non ci sono territori integri, allo stato naturale, tali da meritare un certificato di qualità dallo stato italiano. Ma in mare sì. Si chiamano Aree Marine Protette. Una, molto grande, esalta le qualità del mare di Porto Cesareo e Nardò, un’altra certifica la qualità di Torre Guaceto, subito a nord di Brindisi. Ed è in arrivo una terza Area Marina Protetta, per proteggere il magico tratto di costa che va da Otranto a Leuca, già parco regionale a terra.

Abbiamo ancora molti tesori sottomarini. Bastano una maschera subacquea e un paio di pinne e si può già vedere la natura in azione, se poi si è in grado di immergersi con un autorespiratore gli spettacoli sono incomparabili. E’ una bellezza che i salentini hanno iniziato ad apprezzare da poco tempo. Venticinque anni fa eravamo allegramente intenti a smantellare le rocce per prendere i datteri di mare, e ci sembrava strano che qualcuno potesse preoccuparsi per un po’ di alghe, spugne, briozoi, madrepore, in altre parole di tutto quello che i biologi marini chiamano benthos (gli organismi che vivono a diretto contatto con il fondo marino). Questi organismi fanno il paesaggio sottomarino e se li togliamo è come se disboscassimo un’area. Ci vuole molto perché ricresca un bosco, e ci vuole molto perché si riformi quel che abbiamo distrutto sotto il mare. Ma sta tornando. Abbandonate, con poche eccezioni, le cattive abitudini stiamo diventando cultori della bellezza della natura. Ma quali sono i paesaggi sottomarini che ci attirano di più? Ci ho pensato molto, e ho persino scritto un libro sull’argomento (si chiama Ecologia della Bellezza). Noi siamo animali terrestri e ci piacciono gli alberi e i fiori. In mare non ci sono alberi e, dato che non ci sono insetti, i fiori delle poche piante marine (come la Posidonia) non sono appariscenti. Ma in mare ci sono animali che sembrano piante. Un tempo si chiamavano zoofiti (animali piante). Non ci sono animali che vivono attaccati al suolo, a terra. Ma in mare sì. Sembrano piante, ma devono mangiare altri animali per vivere. I più famosi sono i coralli e le gorgonie. E poi ci sono gli anemoni di mare, le attinie. Pensateci, sembrano fiori. Hanno una corona di tentacoli che sembrano i petali di un fiore, ma sono invece una trappola mortale per ogni animaletto che venga in loro contatto. Al centro c’è la bocca. Molti di questi organismi sono coloniali, come le gorgonie, e sembrano alberi. Alberi carichi di fiori. E poi ci sono le spugne. In Salento ce ne sono di molto grandi, le axinelle. Sono arancioni e anche loro sembrano alberi. Gorgonie e spugne fanno vere e proprie foreste, e al loro interno brulica la vita. E poi ci sono i briozoi, che formano incrostazioni rosse e gialle, alcuni assomigliano al corallo rosso, ma a differenza del corallo si rompono facilmente. Meglio non prenderle. Meglio non toccare nulla. Guardare sì, toccare no.

Ma anche le foreste di alghe sono bellissime, e possono fare fronde lunghe anche più di un metro. Al loro interno, sulle rocce, si celano granchi, e pesci, e grandi vermi marini, gamberi.

E’ un mondo diverso da quello terrestre, molto diverso. Non siamo neppure in grado di capire bene come funziona. O meglio, i biologi marini lo sanno, ma solo loro. Un ambiente dove le piante sono spesso meno degli animali come può funzionare? Ci vuole la fotosintesi, e poi gli erbivori, e poi i carnivori. Ma se dominano gli animali abbiamo erbivori e carnivori e… l’”erba” dove è? In mare la funzione ecologica delle piante la fanno piccoli organismi microscopici, unicellulari, in grado di espletare la fotosintesi. E’ il fitoplancton. Non fa paesaggio, e quindi ha bassa importanza strutturale, ma la sua funzione è essenziale. A terra, il paesaggio è fatto dalle piante, e gli animali si muovono al loro interno. In mare, invece, al di sotto di una certa profondità, o comunque in zone ombreggiate, il paesaggio è fatto di animali, e le piante sono invisibili, sospese nell’acqua al di sopra degli animali. Dove la luce è sufficiente per la fotosintesi.

Un mondo diverso, quindi, a portata di mano ma diverso. Un mondo dove possiamo stare per poco tempo. Certo, possiamo stare a lungo sulla superficie del mare, con una barca. Ma sotto il mare il nostro tempo è limitato: non abbiamo le branchie. Bè, ci sono mammiferi e rettili marini che non hanno le branchie e vivono comunque sempre a contatto del mare. Abbiamo già parlato di loro: balene, delfini, tartarughe e foche. Ma noi non siamo adattati a una vita in mare. Come non siamo adatti alla vita su altri pianeti.

Pare che (finalmente, dico io) i governi che finanziano in modo veramente astronomico la ricerca di vita extraterrestre si siano stancati di promesse di omini verdi e abbiano tagliato i fondi per queste imprese fantascientifiche. Ci sono altre priorità, molto più stringenti. I marziani, se ci sono, possono anche aspettare. Mentre qui, sul pianeta terra, ci sono ancora moltissime forme di vita (soprattutto in mare) che ancora non conosciamo. Non sappiamo bene come funzionano gli ecosistemi marini, così diversi da quelli terrestri, ma investiamo risorse immani per cercare gli alieni su altri pianeti. E chi studia il mare si sente dire la solita frase: non ci sono fondi.

Perché allora ci sono fondi per i marziani? Semplice!: perché c’è una fittissima campagna mediatica per convincere chi paga le tasse che sia saggio investire fondi pubblici in missili dediti a missioni spaziali. Ma ci sono altrettante meraviglie sul nostro pianeta. Anzi, sul nostro pianeta ci sono di sicuro, mentre nello spazio, nonostante miliardi di dollari (o euro) investiti, non si è mai avuta una sola prova concreta di presenza di vita extraterrestre. Non parliamo poi di vita intelligente!

Ognuno di noi, a pochi passi da casa, può diventare esploratore, librarsi senza peso al di sopra del suolo (il fondo del mare) e vedere forme di vita completamente diverse da quelle a cui siamo abituati. Se poi si ha un microscopio e si porta un po’ di fondale a casa, si vedono cose ancora più strane. Con animali microscopici dai nomi impronunciabili: gastrotrichi, chinorinchi, sipunculidi, priapulidi, loriciferi, gnatostomulidi, rotiferi, tardigradi. Li avete mai sentiti? Mai. Sono talmente strani che i mostri dei film di fantascienza sono spesso ispirati ai loro corpi. Gli imbonitori che vendono marziani non hanno neppure la fantasia di inventare nuovi tipi di organismi, si limitano a copiare quel che la natura ha realizzato sul nostro pianeta e confidano nella nostra ignoranza per sorprenderci e, ancora una volta, convincerci che tutto cambierebbe se trovassimo i marziani.

Intanto stiamo distruggendo la vita sul nostro pianeta e in questo caso sì che tutto cambierebbe.

In queste settimane di luglio e agosto vi ho guidato sotto il mare, per raccontare le storie degli ambienti e degli organismi più appariscenti. Ma queste storie sono la punta dell’iceberg. Sotto, invisibile, c’è molto, molto di più. E ancora possiamo diventare esploratori e scoprire cose nuove. Oppure, se non siamo biologi marini, possiamo scoprire cose che solo pochi conoscono e che, invece, dovrebbero conoscere tutti. Perché conoscere come funziona il pianeta che ci ospita dovrebbe essere la base per ogni altra forma di cultura e, almeno nel nostro paese, purtroppo non lo è.

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Il decalogo del biologo marino

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 23 agosto 2013]

Quando le persone ci vedono uscire dall’acqua, con le nostre attrezzature, di solito ci fanno una domanda: cosa avete preso? Ci si aspetta che chi va per mare debba per forza prendere qualcosa, di solito pesci. Quando diciamo che abbiamo preso campioni per studiare il mare, la domanda allora diventa: si può fare il bagno? I concetti di biodiversità, di ecosistema, e altro ancora, sono assolutamente alieni nella nostra cultura di base. Il massimo consentito è l’annuale rapporto di Goletta Verde che, in effetti, ci ha appena detto quali siano i mari migliori lungo l’intero litorale italiano. La classifica si basa su rilevamenti spesso concentrati sulla balneabilità delle acque. Si tratta di misurazioni necessarie ma non sufficienti. L’Unione Europea ha messo a punto undici parametri che, se soddisfatti, certificano il Buono Stato Ambientale, in inglese GES (Good Environmental Status). I colibatteri non bastano, per ottenere il (o la?) GES. E non basta neppure la chimica. Ci vogliono anche la biologia e l’ecologia. Molte di queste cose sono state descritte negli articoli precedenti che, ora, acquistano un significato complessivo. Non sono solo aneddoti e curiosità da considerare in un momento di vacanza. Sono le regole per salvaguardare il nostro mare. Eccole.

1: La biodiversità deve essere mantenuta. Questo ce lo chiede anche la Convenzione di Rio, del 1992: la Convenzione per la biodiversità. Dobbiamo fare l’inventario della nostra biodiversità, e poi dobbiamo fare in modo che le specie e gli habitat siano mantenuti. Per questo obiettivo siamo molto indietro.

2: Le specie non indigene non devono alterare negativamente l’ecosistema. Le specie non indigene sono gli “alieni” di cui ho parlato in un altro articolo. Si tratta delle specie che arrivano in Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, oppure che sono portate dalle navi, nei serbatoi della acque di zavorra o sulle carene. Oppure, ancora, le specie che a volte importiamo per incrementare l’acquacoltura. Ma che significa “non alterino negativamente l’ecosistema”? Perché, credetemi, non sappiamo bene quale sia il corretto funzionamento degli ecosistemi. C’è molto da studiare, ancora.

3: Le popolazioni di specie di pesci commerciali devono essere in buona salute. Come misurare la buona salute di una popolazione di pesci? Per esempio si potrebbe guardare la taglia massima degli individui pescati, e vedere quanti riescono a raggiungerla, rispetto al totale dei pesci pescati. Ma ci sono molti atri modi. Su questo le ricerche non mancano e, di solito, la “buona salute” delle popolazioni di pesci commerciali è ben lontana dall’essere raggiunta. Qui si tratta di regolare in modo ottimale lo sforzo di pesca. Facile a dirsi, difficile a farsi.

4: Gli elementi delle reti alimentari devono assicurare nel lungo termine l’abbondanza e la riproduzione delle varie specie. Qui siamo di nuovo in un campo in cui la ricerca è ancora troppo carente. Le reti alimentari marine sono complicatissime, e ancora non le conosciamo bene. Misurare l’abbondanza e la riproduzione di specie non commerciali richiede moltissimo lavoro, e non abbiamo termini di riferimento per capire quali siano le abbondanze e le riproduzioni ottimali.

5. L’eutrofizzazione deve essere mantenuta a livelli minimi. Su questo abbiamo lavorato molto, sia con i depuratori, sia con l’uso di fosfati nella produzione di detersivi. Non possiamo dire di essere a posto, ma la strada da percorrere è chiara.

6. L’integrità del fondo marino deve assicurare il funzionamento dell’ecosistema. Il fondo marino lo alteriamo con la pesca a strascico, con le trivellazioni, con i ripascimenti dei litorali, con le difese costiere, con i porti e con moltissime altre attività. Quanto queste interazioni alterino il funzionamento degli ecosistemi è molto difficile da valutare. Ma basterebbe tentare di alterare al minimo il fondo marino. Anche qui il lavoro è grande.

7. L’alterazione permanente delle condizioni idrografiche non deve influenzare negativamente l’ecosistema. Possiamo alterare le condizioni idrografiche sbarrando un fiume, oppure costruendo moli e difese costiere, immettendo acque a temperature troppo alte, creando barriere di temperatura. Su questo sappiamo poco, e ancora meno sappiamo come tali modifiche influenzino il funzionamento degli ecosistemi.

8. Le concentrazioni di contaminanti non devono dare effetti. I contaminanti possono essere chimici (come i metalli pesanti) o biologici (come i colibatteri). Su questo sappiamo molto di più, ci sono misure standardizzate, e limiti stabiliti. Bisogna solo farli rispettare.

9. I contaminanti nei cibi derivanti dal mare devono essere sotto i livelli di sicurezza. Anche qui sappiamo moltissimo, e ci sono procedure standard che sono già attuate. La sicurezza alimentare, soprattutto nel nostro paese, è una priorità.

10. La spazzatura marina non deve provocare danneggiamenti. Qui siamo in una terra incognita. Molti rifiuti solidi arrivano al mare. Alcuni affondano e sono riportati in superficie dai pescatori. Altri rifiuti galleggiano e poi arrivano sulle spiagge. La presenza fisica dei rifiuti altera il funzionamento degli ecosistemi. Dobbiamo trovare le zone di accumulo e le zone di provenienza, e poi dobbiamo mettere in opera metodi virtuosi di rimozione e smaltimento.

11. L’introduzione di energia (incluso il rumore sottomarino) non deve influenzare negativamente gli ecosistemi. Sappiamo che i cetacei possono essere disturbati dalle esplosioni, l’energia elettromagnetica che passa nei cavi sottomarini può disorientare i pesci che si orientano con i campi magnetici. Ancora una volta siamo quasi in terra incognita.

La biologia e l’ecologia marina sono il mio pane da quarant’anni. Finalmente trovo misure sensate, almeno in teoria. Già, in teoria. Perché su molte di queste cose non sappiamo quasi nulla e sarà molto difficile misurare questi parametri. E’ molto più facile misurare la concentrazione di colibatteri. Importantissima, ma non sufficiente a garantire il buono stato del mare. La difficoltà di ottemperare alle norme europee risiede nel fatto che abbiamo investito poco nella ricerca marina, e quindi ci sono tante cose che ancora non sappiamo. Il nostro paese dipende dal mare per una porzione rilevantissima del suo prodotto interno lordo. Le vacanze marine sono un volano economico enorme. Ma i turisti verranno se le nostre acque saranno in un buono stato ambientale. E poi, turisti o non turisti, è nostro dovere non distruggere l’ambiente e mantenerlo in buono stato. Sono molto contento di queste misure perché, finalmente, il nostro paese dovrà investire molto in ricerca marina, se vorrà ottemperare alle direttive europee. Per farlo, però, dovrà cambiare la nostra cultura. Qualche anno fa rimasi inorridito di fronte a un articolo intitolato “pagato dalla regione per ululare nei boschi” dove si denunciava lo spreco immane di diecimila euro per pagare un biologo incaricato di fare il censimento dei lupi. Questi censimenti si fanno con la tecnica del richiamo, è una pratica accettata a livello mondiale. Ho conosciuto il ricercatore che aveva ricevuto quei diecimila euro. Mi ha detto che la Provincia per cui lavorava gli revocò l’incarico. Il censimento non fu fatto, e l’Italia, credo, sarà costretta a pagare penali ben più salate di diecimila euro, per non aver ottemperato alle direttive europee. Ma per qualche giornale studiare la natura è uno spreco di denaro pubblico. Una volta tanto l’Unione Europea ci impone comportamenti virtuosi, cerchiamo di metterli in atto. Il nostro ambiente, assieme al patrimonio culturale, è la cosa più preziosa che abbiamo, e non si può delocalizzare in Cina. Vediamo di mantenerlo in buono stato.

Il sistema delle Università Pugliesi, con, Bari, Politecnico, e Salento, lavora da anni in modo sinergico per studiare il nostro mare anzi… i nostri mari. Siamo attori principali in molti progetti europei, nazionali e regionali e abbiamo corsi di laurea di indirizzo marino che attirano studenti da tutta Italia, e non solo. Siamo pronti a lavorare per far sì che la nostra regione, e l’Italia intera, sia in regola con le norme del GES e, se chi governa la cosa pubblica sarà saggio, ci sarà lavoro per chi deciderà di investire la propria vita nello studio del mare. Sono studi che si fanno per passione e non per denaro ma, una volta tanto, la passione e la possibilità di contribuire al progresso della propria terra hanno l’occasione di andare a braccetto.

Ho sempre paura di generare entusiasmo nei miei studenti. Fare il biologo marino è più difficile che fare il cantante o il calciatore, in termini di possibilità di veder coronato il proprio sogno. E di sicuro non si guadagnano cifre astronomiche. Però, almeno per me, è il mestiere più bello del mondo.

Ora, con queste nuove norme, la possibilità di coronare questo sogno (in chi ce l’ha) potrebbe essere molto più concreta.

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Caverne sotto i mari, l’ultima frontiera dell’avventura… sotto casa

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 25 agosto 2013]

La nostra cultura è cominciata nelle caverne. Come uomini delle caverne abbiamo cominciato a conoscere la natura, raffigurando noi stessi e gli animali con un’arte basata sulla conoscenza scientifica. Ancora oggi abbiamo l’impulso, a vedere l’ingresso di una grotta, di infilarci dentro, per “vedere cosa c’è”. Siamo inguaribili esploratori.

E ora scendiamo sott’acqua, magari con un bell’autorespiratore ad aria. Vedere una grotta, sott’acqua, almeno per me, è un invito ad entrare. Come si fa a resistere? Certo ci vuole una torcia subacquea, ma oramai ne fanno di piccolissime e potentissime. La parete rocciosa apre una bocca oscura che ci invita ad entrare e, una volta dentro, anche se la grotta è a bassissima profondità, le alghe dominanti all’esterno presto scompaiono e la roccia è piena di animali, soprattutto all’ingresso, subito dopo le alghe che, in condizioni di scarsa luminosità, sono quasi invariabilmente rosse. Dominano le spugne, le vere signore delle grotte, ma ci sono anche coralli, a volte persino il corallo rosso, da non confondere con i madreporari, con scheletro calcareo, tipo quelli delle barriere coralline. E poi ci sono i briozoi, e i tunicati. Man mano che ci si addentra, però, la copertura diminuisce e, nelle parti più scure, dove magari ci sono infiltrazioni di acqua dolce, non c’è quasi niente. Le pugne sono bianche. E se si sale ci sono camere d’aria, con tante stalattiti.

Beh, vi ho portati con me in una grotta che per me ha un significato molto particolare: l’ho esplorata tanti anni fa. E’ lunga quasi cento metri e si addentra nella roccia a formare una successione di camere, con campane d’aria che permettono di uscire e respirare mentre si è nelle viscere della terra. Il fondo è sabbioso, e non ci sono pericoli di intorbidire l’acqua che, però, è resa torbida da nuvole di misidacei, piccoli gamberetti, che la notte se ne stanno al buio. Usciranno la notte, per poi rientrare all’alba. Quante volte sono andato in quella grotta, e in tante altre, in tanti posti del mondo, da Li Galli all’isola di Wuvulu, in Papuasia, per non parlare delle tante, tantissime grotte del Salento, un paradiso per la speleologia subacquea. E ogni grotta è diversa da tutte le altre, e ci regala sorprese.

Il mestiere più bello del mondo

Una classifica delle attività più pericolose al mondo, mette al primo posto proprio la speleologia subacquea. E in effetti, ogni volta che nel mio cervello si forma la parola “grotta” non posso non pensare a due colleghi che proprio in una grotta hanno perso la loro vita, lavorando ad un progetto comune. E, con loro, mi vengono in mente altre persone care che sono partite una mattina, per studiare il mare, e non sono più tornate. Studiare biologia marina è il mestiere più bello del mondo, non ci sono confronti, mi dispiace per gli altri e le altre, che fanno altri mestieri. Però a volte il prezzo per farlo è alto. E allora, anche se credo che andare a lavorare in bici (cosa che faccio quotidianamente) sia più pericoloso di esplorare una grotta marina, bisogna essere molto prudenti. E in quasi tutte le località turistiche ci sono guide che vi possono portare a fare questa avventura. Primo consiglio, quindi: non entrate da soli. Secondo consiglio: fatevi accompagnare da qualcuno di esperto, che sia già stato in quella grotta. Terzo consiglio: se siete paurosi e non avete sangue freddo, statevene sulla barca, o sulla spiaggia. Potrei andare avanti a lungo con i consigli, tipo: muovetevi piano, potreste sollevare il sedimento. Ma il consiglio più inutile è: guardatevi attono e sentitevi esploratori, ardimentosi esploratori. Il consiglio è inutile perché viene naturale di guardare quelle pareti, e restare ammirati dal tripudio di colori che ci vengono rivelati dalla luce della torcia. In pochi metri in orizzontale, ripercorriamo la sequenza di popolamenti che, in verticale, si sviluppa lungo decine e centinaia di metri. Sul fondo delle grotte si possono trovare pesci che, fuori, vivono a centinaia di metri di profondità, pesci abituati al buio perenne. Liberati dalla competizione con le alghe, gli animali hanno il sopravvento e tappezzano le pareti con le forme più disparate. In una grotta francese, gli specialisti locali di spugne hanno trovato una spugna carnivora! le spugne di solito mangiano filtrando l’acqua, proprio come le cozze. Non sono carnivore. Ma questa spugna delle caverne riesce a catturare delle prede, proprio come le piante carnivore, e poi piano piano le digerisce. E poi nelle grotte si trovano spugne che si ritenevano estinte da tempi immemorabili, veri e propri fossili viventi. E non è raro trovare specie sonosciute, come la Higginsia ciccaresei, della Grotta Zinzulusa, qui in Salento, l’unico posto al mondo dove si trova questa specie.

Solo estetica?

Ma le grotte marine sono importanti solo perché sono “belle”? L’Unione Europea le ha inserite tra gli Habitat di Importanza Comunitaria e la loro presenza può portare all’istituzione di Siti di Importanza Comunitaria. Lo so, parlo come un burocrate. Questa terminologia ci dice che le grotte marine sono considerate molto importanti dalle leggi europee, e il motivo è che ospitano una biodiversità molto particolare (le grotte, non le leggi) e, avendo un’estensione limitata, ognuna può essere distrutta da azioni sconsiderate. Molte, ad esempio, sono il risultato dell’erosione delle roccia da parte dell’acqua dolce presente in falda. Se si effettuano scarichi in falda, ecco che i nostri liquami potrebbero inquinare le grotte, con effetti disastrosi. E poi i bracconieri potrebbero entrare e uccidere i grossi pesci che di solito stazionavano nelle grotte. Uso il passato, perché oramai non ce ne sono più. A Porto Selvaggio c’è la Grotta delle Corvine, chiamata così perchè un tempo era abitata da enormi corvine. Bene, non ci sono più. In alcune grotte marine, sul fondo, nella parte più interna, ci può essere una spiaggetta di pietre, se sul fondo c’è una campana d’aria. E’ l’ambiente ideale per la foca monaca, oramai praticamente scomparsa dalle nostre acque, ma ben presente in Grecia, Turchia e lungo le coste dell’Africa settentrionale. Il bue marino: così chiamavamo la foca, e in Sardegna c’è proprio la grotta del bue marino. E le foche erano presenti anche in Salento. Potrebbero tornare, visto che sono state avvistate nella dirimpettaia Albania, a soli 70 chilometri dalle coste italiane.

Attenzione, però. Le grotte sono un ambiente delicatissimo, e si possono esplorare solo con una bombola sulle spalle, e con le pinne ai piedi. Bombole e pinne sono strumenti di implacabile distruzione di tutto quello che cresce nelle grotte. Sbattendo contro le pareti con movimenti sconsiderati, possiamo davvero essere elefanti dentro una cristalleria, e distruggere tutto. Bisogna muoversi piano, restare sospesi e evitare di sollevare il sedimento dal fondo. Entrare in una grotta marina è come entrare in chiesa durante una funzione, in una chiesa alle cui pareti sono appesi capolavori che potremmo persino toccare, ma che non dobbiamo toccare. Dobbiamo anche respirare poco. Le bolle emesse dall’erogatore potrebbero danneggiare qualche organismo tra i più delicati che vivono sul soffitto della grotta. Inutile dire che prendere un ricordino è un crimine.

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Come funziona davvero il mare

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 1° settembre 2013]

L’estate sta finendo, dice una vecchia canzone, e stiamo per dimenticarci del mare. Ne riparleremo l’anno prossimo, presumo, al ritorno dell’estate. E’ per me incredibile che un posto come il Salento, proteso sul mare, sia così lontano dal mare. Un mese di attenzione frenetica, e poi l’oblio. Però le cose cambiano, e sono molto soddisfatto del successo della serie di articoli che il Quotidiano mi ha commissionato per portare i lettori sott’acqua, con la descrizione delle meraviglie del mare. Ho parlato delle cose più scontate (tipo squali e delfini) ma ho cercato di andare anche dove di solito non si va: coralli profondi, plancton gelatinoso, posidonia potrebbero ora essere concetti non dico familiari ma, comunque, non completamente estranei. L’alfabetizzazione marina passa da queste strade e sono molto grato al Quotidiano di avermi dato questa possibilità.

Nella prima domenica di settembre, fuori dalla calura estiva, voglio provare qualcosa di ardito: spiegare come funziona il mare. Mi aiuterò con la illustrazione realizzata da due preziosissimi collaboratori, l’artista Alberto Gennari e il grafico Fabio Tresca. Ci ho messo molto a “pensarla”, la vedevo nella mia testa ma non ero in grado di realizzarla. L’ho raccontata a Gennari e Tresca e, dopo un po’ di tentativi, me l’hanno consegnata. Guardiamola. Al centro c’è un cerchio nero e ad esso vanno tutti gli organismi rappresentati nella tavola. Gli organismi sono la parte vivente della materia che è presente sul pianeta. Ma lo stato di “vivente” è temporaneo. Tutti i viventi prima o poi muoiono e la materia vivente diventa “non vivente”. In quel cerchio nero ci sono i morti. Il miracolo della vita è che ricicla sempre la stessa materia. Vediamo come. In alto a sinistra, rispetto al cerchio, ci sono dei “fagiolini” grigi. Non sono fagiolini, sono batteri. I batteri attaccano la materia vivente, una volta morta, e la assimilano. Praticamente se la mangiano. Così facendo, però, la scompongono in composti elementari, contenenti azoto, fosforo etc. Ne vediamo le molecole sopra al cerchio nero. Sono i nutrienti, e vengono portati al mare anche dai fiumi e, infatti, ecco sopra un bel fiume che li porta al mare. I batteri possono essere mangiati dai protozoi, e sopra ai fagiolini vediamo un bel ciliato. Anche lui morirà, e darà da mangiare ai batteri che mangia! Ma la freccia più interessante va dai nutrienti a due cellule, in alto a destra dello schema, vicino al sole. Una è una diatomea, l’altra è un dinoflagellato. Sono alghe unicellulari. Con la luce solare sono in grado di sintetizzare nuova materia vivente a partire dai nutrienti derivanti dalla decomposizione della materia oramai non vivente espletata dai batteri. Questi unicellulari fotosintetici sono il fitoplancton, e ridanno vita alla materia. Nel farlo producono ossigeno e consumano anidride carbonica.  Funzionalmente sono come le piante terrestri ma, sul nostro pianeta, coperto per il 70% dall’acqua, sono molto più importanti. Non le vediamo, come non vediamo i batteri, ma se il mondo funziona come funziona lo dobbiamo proprio a loro. Batteri, protozoi, e fitoplancton sono microscopici, sono microbi. Per molto, moltissimo tempo la vita sul pianeta è stata organizzata in questo modo e ancora, se la vita persiste, lo dobbiamo a loro perché sono la base di tutto. I microbi hanno, tutti, una freccia che va verso un piccolo crostaceo, a destra del cerchio nero. E’ un copepode. Sono piccoli, i copepodi, ma sono tantissimi e mangiano i microbi. Anche questi piccoli crostacei fanno parte del plancton e sono il cibo delle larve dei pesci. E infatti ne vediamo una, subito sotto al copepode. I pesci, poi, crescendo si mangeranno gli uni con gli altri e saranno il cibo di tanti animali che ci sono familiari, come delfini, etc. etc. Tutti questi animali, senza batteri, fitoplancton e copepodi non potrebbero vivere. A destra del copepode vediamo una salpa. Le abbiamo viste in questa primavera, a milioni. Mangiano microbi e quando sono tante possono diventare un corto circuito del flusso di materia da un comparto all’altro delle reti alimentari marine. Praticamente “rubano” il cibo ai copepodi e a tutti quelli che dipendono da loro. A sinistra c’è una medusa, e mangia copepodi e larve di pesci. Anche lei rappresenta una sorta di corto circuito nelle catene alimentari. Sotto al cerchio nero ci sono gli organismi che vivono sul fondo, e che i biologi marini chiamano benthos. Ci sono spugne, coralli, alghe e piante, molluschi. Nei primi metri di profondità ci sono organismi fotosintetici (le alghe e le piante marine, come la Posidonia) ma, in gran parte, la produzione di nuova materia vivente avviene grazie al fitoplancton e i viventi sul fondo del mare dipendono anch’essi proprio dal fitoplancton.

Abbiamo allora la via dei microbi, la più importante, poi c’è la via dei crostacei e dei pesci che, inalternativa ha la via dei gelatinosi, le salpe, che mangiano microbi, o le meduse, che mangiano crostacei e pesci (quando sono uova e larve). Ognuna di queste vie è rappresentata da centinaia, migliaia di specie, la biodiversità, e ancora non sappiamo quante specie vivano in mare e quali siano i loro ruoli.

Senza questi organismi, la vita non può continuare ad esistere. La materia vivente muore, e poi rivive, e cambia di stato, fino ad arrivare a noi. E tutto circola in questa sfera blu, il nostro pianeta.

Forse sarebbe bene sapere queste cose, no? Forse dovrebbero far parte della nostra cultura. Se queste cosette sono per voi novità significa che non sapete come funziona il mondo. Una lacuna non da poco, credo. Spero che questa pillolina di alfabetizzazione marina possa innescare altre curiosità. E ci vediamo l’anno prossimo, con altre meraviglie del mare.

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Piano paesaggistico: le amministrazioni locali non bastano

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 4 settembre 2013]

Leggo che molti politici eletti in consigli comunali, provinciali e anche in quello regionale sono contrari a vincoli ambientali del Piano Paesaggistico perché, a loro detta, impediscono il progresso economico. E, a gran voce, invocano il diritto di decidere su come utilizzare il “loro” territorio.

Ecco, qui mi piacerebbe veder sorgere comitati di agguerritissimi ambientalisti, tipo i vari comitati No Tap che danno battaglia al gasdotto transadriatico. A loro detta, TAP rovina la vocazione turistica del territorio. Ne possiamo discutere. Ma un tubo di 90 centimetri di diametro (che comunque darà innegabili vantaggi al paese Italia e che, ovviamente, deve essere realizzato con tutti i crismi della sicurezza per la salute e l’ambiente) non ha paragoni rispetto alla colata di cemento e di asfalto che ha devastato il nostro territorio e che inesorabilmente continua. Magistratura, finanza, carabinieri e polizia ci provano ad arginare la frenesia di distruzione del territorio, ma spesso gli amministratori locali diventano i paladini della speculazione edilizia. Il partito del cemento e dell’asfalto ha spalle molto larghe e può incanalare consensi. Le decine di migliaia di costruzioni abusive che costellano le nostre coste, e non solo, dovrebbero essere demolite, soprattutto se ubicate in siti ecologicamente sensibili. Ma su questo non sorgono comitati. C’è un interesse diffuso a “farsi la casetta” e, per salvaguardare un malconcepito diritto, si invocano sanatorie e revisioni che potrebbero coprire speculazioni ben più gravi. E, comunque, le “casette” abusive, quando sono decine, centinaia di migliaia, sono una catastrofe ambientale. 

A questo punto la democrazia non c’entra più. Nella nostra Costituzione certe cose non sono negoziabili col consenso. Sappiamo bene che, se ci fosse un referendum sull’abolizione delle tasse, con ogni probabilità le tasse verrebbero abolite. I politici lo sanno talmente bene che continuano a promettere di abolire una tassa (per poi metterne un’altra, di solito superiore a quella appena abolita) per poi sorprendersi se la copertura per cose essenziali non c’è. Ma che mistero! Anche se democraticamente si dovesse decidere di abolire le tasse… la Costituzione non lo permette. I Padri costituenti conoscevano bene i loro polli. Allo stesso modo, democraticamente potremmo decidere di cementificare tutto. Ottima idea. Ma che bello sviluppo! Poi dovremmo affrontare il degrado ambientale (lo stiamo già subendo, ve ne siete accorti?). Non sto parlando di degrado estetico, a certi figuri non viene neanche in mente. La bellezza è un lusso inutile, caro a intellettuali snob. Sto parlando dell’erosione costiera, delle inondazioni, delle frane, dell’inquinamento delle falde, delle crisi idriche. Con quali soldi rimettiamo a posto il territorio devastato dal “progresso”? Non ce ne sono, ricordate?, abbiamo abolito le tasse. Si parla sempre dei privati. Che ci pensino i privati a rimettere a posto quel che hanno distrutto. Ah, no. In questo caso si invoca lo Stato. Dove è lo Stato? Eh già, lo Stato si invoca quando c’è qualcosa da prendere e poi si vitupera se c’è qualcosa da dare. I vincoli vanno aboliti, così i privati possono guadagnare, e poi i danni li paga lo

Stato.

Ecco, poi ci sorprendiamo se lo Stato fallisce. Bisogna porre le domande giuste ai cittadini, se devono esprimersi democraticamente per un’idea di progresso.

Vuoi che sul tuo territorio, sul territorio del tuo Comune, continui la costruzione di nuovi immobili? A questa quasi tutti risponderebbero sì, in modo da poter anche loro farsi la “casetta”.

Sei disposto a pagare di persona per i danni ambientali che potrebbero derivare da queste iniziative? A questa risponderebbero tutti no, scommettiamo? Ma le due domande non vengono mai fatte assieme. Si fa vedere il vantaggio e si nasconde lo svantaggio. Al mio paese si chiama truffa.

Il Salento è una galassia di magnifici paesi e città. Con magnifici centri storici. Capolavori di architettura. Bene, ora trovatemi un esempio di paese in cui l’edilizia sviluppata negli ultimi 30 anni sia di pari valore a quella del centro storico. Mi piacerebbe sapere almeno di un paese, uno. Poi mi piacerebbe sapere quanti sono quelli che possono dire altrettanto. Non dico di averle viste tutte ma, nella mia esperienza, le periferie sono orrende. 
Vogliamo rilanciare l’economia? Buttiamo giù quelle periferie e ricostruiamo città con solidi progetti urbanistici, in armonia con l’ambiente circostante. Ma per “vedere” qualcosa del genere ci vuole una risorsa che, apparentemente, è molto rara. Si chiama cultura. Ho appena fatto un’affermazione molto arrogante. Mi sono arrogato il diritto di decidere cosa sia cultura, e ho presentato la mia visione come sinonimo di cultura. Chiedo perdono. Forse mi sbaglio. Forse è bene cementificare e asfaltare tutto. Togliamo i vincoli, allegria!!! E musica a tutto volume sulle spiagge. E se non vi piace… potete pure andare da un’altra parte. Appunto.

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TAP, magari sì, ma le dighe lungo la costa proprio no!

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’ 8 settembre 2013]

L’ex sindaco di Melendugno, Giordano Carrozzo che, ci scommetto, è ingegnere, mi cita (molto garbatamente) in un suo intervento sul gasdotto transadrico e dice una cosa che dico sempre anche io: non si giustificano i propri errori con gli errori degli altri. E quindi, anche se abbiamo devastato il nostro territorio con centinaia di migliaia di costruzioni abusive (perché ci piace la sabbia sulla porta di casa) abbiamo comunque titolo per criticare la TAP. Però l’ing. Carrozzo parla di un mutamento di sensibilità da parte dei cittadini. Ecco, io stigmatizzavo proprio che questo cambiamento proprio non ci sia e lo dimostra la reazione al piano paesaggistico che, con i suoi vincoli, “frena lo sviluppo”, cioè la colata di altro cemento e asfalto sul nostro territorio. Io non giustifico la TAP con le devastazioni del passato, io dico che chi continua a devastare non ha titolo per criticare. Neppure la TAP. Che pure deve essere criticata. L’Italia ha già coperto di cemento l‘8 per cento del suo territorio. La Germania ha coperto il 6. Ed è tutta in pianura. Se togliamo le montagne, noi abbiamo coperto molto di più. E chiediamo a gran voce di poter continuare, in nome del progresso. Non parliamo poi dei sindaci che vogliono trasformare le loro spiagge nelle spiagge di Rimini! Ma poi diventano integralisti difensori dell’ambiente. Ovviamente a senso unico. Non è la sindrome del “non nel mio giardino”, ma la sindrome “il mio giardino lo distruggo io, perché è mio e ne faccio quel che pare a me”. Come se davvero il “territorio” fosse “nostro”.

Ho espresso diverse volte la mia opinione sul gasdotto transadriatico, la TAP. Non mi pare un attentato immane all’integrità ambientale, sempre che tutti gli accorgimenti di salvaguardia dell’ambiente siano rispettati e messi in atto. L’analisi costi benefici indica che i costi “locali”, che pur ci sono, sono nettamente inferiori ai benefici per l’Italia intera. Questo non vuol dire sì, vuol dire “parliamone”. Il gas può sostituire il carbone di Cerano? Beh, ci penserei. 
Inoltre, TAP è disponibile ad azioni di compensazione. Non si tratta di pagare per compensare una minaccia o un danno certo. Non ci devono essere né danni né minacce. Però, se qualcuno viene a casa nostra, e ci chiede di passare, è giusto che, anche se non fa danni, ci ricompensi. Tra privati la compensazione può essere un mazzo di fiori, o una scatola di cioccolatini, in questo caso può essere qualcosa di più sostanziale. Ho letto di cinque milioni di euro. Ho letto anche che i cinque milioni dovrebbero essere impiegati per difendere il litorale dall’erosione costiera. E questo mi fa inorridire. Abbiamo già visto che l’erosione costiera è stata contrastata con misure costosissime e inutili. Dighe, pennelli, ripascimenti etc. costano molto, risolvono il problema per una stagione, e poi diventano un problema peggiore del problema che avrebbero dovuto risolvere. Oramai lo sappiamo.

Come sono possibilista per TAP, fatte salve le riserve che ho espresso sopra, mi sento di dire che la compensazione mi pare, quella sì, un ulteriore attacco all’integrità del nostro territorio. L’erosione costiera è una cosa naturale, e ha gravi effetti se si sono installate costruzioni in siti dove le costruzioni non si dovrebbero fare, visto che l’erosione se le porta via. Le spiagge vanno e vengono, le falesie crollano. E’ naturale. E dove questo avviene non si deve costruire, caro ing. Carrozzo. Abbiamo riempito la costa di costruzioni che non ci dovrebbero essere, e ora le difendiamo con difese che non ci dovrebbero essere. Per poi fare battaglie all’ultimo sangue per un tubo di 90 cm di diametro. E, contemporaneamente, contestare i piani paesaggistici che pongono limiti allo “sviluppo”.

Sono tentato di stimolare la costituzione di un comitato NO COMPENSAZIONI TAP, per evitare che, oltre alla TAP, il nostro territorio debba ulteriormente subire l’installazione di assurde difese che non saranno la soluzione del problema. La mia impressione è che la TAP si farà, e quindi sarebbe auspicabile cercare di negoziare le compensazioni in modo più proficuo possibile per il territorio. L’Unione Europea ha definito le caratteristiche che definiscono la Buona Qualità Ambientale nell’ambiente marino. Che si usino quei fondi per raggiungere quegli obiettivi, in quel tratto di costa. In modo che diventi un sito sperimentale dove mettere in pratica le direttive europee. Però, dopo tutto quello che hanno combinato i costruttori, vorrei non vederli ora nelle vesti di paladini dell’ambiente contro TAP e nello stesso tempo dello sviluppo (mediante cementificazione) e delle feste a tutto volume sulle spiagge. Il che non significa che l’ex sindaco sia favorevole alle cementificazioni e asfaltature e alle libagioni a suon di musica a tutto volume sulle spiagge, ma la tendenza è quella, purtroppo. E la difesa integralista dell’ambiente contro la TAP mi pare una foglia di fico, che copre ben altre vergogne. Ci salviamo la coscienza ambientalista con il NO TAP (sperando che la facciano da qualche altra parte) e poi devastiamo “casa nostra” come pare a noi. Intanto non è “casa nostra”, e solo il fatto di viverci o di esserci nati non ci dà il diritto di distruggerla in nome di un progresso abbastanza dubbio. Pur essendo assoluto sostenitore dell’integrità ambientale, trovo per lo meno sospetti i fervori ambientalisti a senso unico. Il che, lo voglio ripetere, non vuol dire SI TAP. E’ necessario riconsiderare per bene tutta la situazione ambientale a “casa nostra” e capire davvero cosa possiamo e cosa non possiamo fare. E analizzare molto bene i costi e i benefici di tutto quello che abbiamo fatto e che vorremo fare. Poi ne parliamo.

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Paesaggio, ambiente, progresso: botte piena e moglie ubriaca

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 13 settembre 2013]

Non me ne vogliano le mogli (e le botti) se ricordo un proverbio maschilista: non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Se vogliamo ottenere un obiettivo dobbiamo sempre rinunciare a qualcosa. Non esistono azioni che producano solo benefici e che non comportino costi. E’ una legge termodinamica alla quale non possiamo derogare.

Il piano paesaggistico si propone di salvaguardare l’ambiente e il paesaggio. Leggo di levate unanimi di scudi contro questa “follia” che, a detta della stragrande maggioranza degli amministratori locali, frena il “progresso”. Leggo anche che l’assessorato, che ha emanato il piano, si sta affannando a spiegarne la logica e la fattualità, il che significa, mi pare di capire, che i critici non lo abbiano neppure letto. Ogni limitazione all’arbitrio viene vista come una intollerabile lesione alla libertà. Basta vincoli! Ho già scritto mille volte che il nostro territorio è stato macellato da un illimitato dilagare di cemento e asfalto. Il che significa che, fino ad ora, vincoli ce ne sono stati ben pochi. Si rompevano i vincoli esistenti e si aspettava il condono. Il risultato lo vediamo tutti. Parlo sempre di due superstrade per andare da Lecce a Maglie ma qualcuno mi ha corretto: sono tre. Perché ne è stata fatta un’altra che le collega. Poi non c’è una superstrada da Lecce a Taranto. Follie comprensibili solo attraverso la distribuzione geografica di potenti locali. Evidentemente Maglie ne ha molti, Taranto meno.  Ma forse mi sbaglio, e non sono abbastanza intelligente da vedere la logica di queste opere che mi paiono veramente inutili. E che consumano territorio.

Mi occupo da decenni di Aree Marine Protette e ho capito una cosa: se non c’è consenso nelle popolazioni residenti, non si può sperare che le AMP abbiano successo. Sono cose che non si possono imporre ed è bene farle dove esiste una cultura che sia disposta ad accettare vincoli ragionevoli, riuscendo a vedere i vantaggi futuri. La botte viene svuotata, con i vincoli, ma poi la moglie si ubriaca. In questo caso l’ebrezza deriva dalla bellezza salvata dallo scempio. E ora abbiamo un problema: ci sono molti amministratori locali che vedono altro cemento e altro asfalto come “progresso”.

Non gli basta quel che è stato combinato, ne vogliono ancora! Non riescono a fare un discorso tipo: abbiamo devastato il territorio, ora “progresso” significa riparare i danni compiuti e rinaturalizzare quello che abbiamo inutilmente distrutto. Anche questa politica porterebbe reddito. Ma porterebbe anche un territorio migliore, più consono alle aspettative di un certo turismo. Da una parte ci candidiamo a Capitale Europea della Cultura, dall’altra abbiamo il turismo ebbro di alcol, musica a tutto volume, e invasione delle spiagge. Sono potenzialità che non possono coesistere. Non si può pensare di diventare Capitale Europea della Cultura e poi bocciare un piano che impedisce lo scempio del territorio. La scelta è semplice. La maggioranza non vuole il piano? E’ giusto che venga bocciato. Perché se si approva poi resterà lettera morta. Le aree marine protette sono tante, sulla carta, ma pochissime funzionano bene, e sono quelle dove la popolazione residente ha capito. Le altre ci sono, ma è come se non esistessero. E che senso ha avere un piano paesaggistico disatteso? Se, culturalmente, gli amministratori locali (che sono espressione della cultura dominante nel loro elettorato) non condividono la presa d’atto che non possiamo continuare a cementificare e ad asfaltare e se farlo, per loro, è il “progresso”, bene, che questo progresso sia! Che distruggano tutto. Se i salentini vogliono questo, non ci sarà nessuno che potrà imporre qualcosa di differente. Devono essere ben informati, però. Devono conoscere le conseguenze delle loro scelte, e devono sapere che poi ci saranno prezzi da pagare. Quando quel modello di sviluppo crollerà, perché state tranquilli che crollerà, che poi non ci si lamenti. E’ quello che sta già accadendo. Prima si costruisce sulla linea di costa, e poi si chiede che quelle costruzioni siano salvate dall’erosione costiera. Ovviamente con soldi pubblici. Eh no! Hai voluto costruire dove pare a te e ora la tua casa crolla? Fatti tuoi! Hai distrutto tutto cementificando e asfaltando e ora ti accorgi che nessuno vuol fare le vacanze in un posto così? Peggio per te. Ti sei sputtanato i fondi europei in opere completamente inutili? Poi non ti lamentare se il progresso vero non arriva, e non continuare a chiedere fondi europei. Ti sono stati dati, li hai spesi male, ora sono fatti tuoi. I politici dovrebbero in qualche modo esprimere le istanze più alte di chi ha affidato loro la propria rappresentanza. E invece rappresentano in toto le aspirazioni più personalistiche del loro elettorato: voglio fare quello che pare a me. Non disturbatemi. Dovrebbero cercare di far capire che c’è un bene comune che a volte si paga con il sacrificio degli interessi personali che, poi, saranno ricompensati dal beneficio per tutti. Se questa cultura non c’è… peccato. Ritengo doveroso avvertire di questi rischi, ma sono consapevole che nessuno sarà d’accordo. Ma proprio nessuno, visto che nessuno pare essere favorevole al piano paesaggistico. E l’Università? Dolenti note. Ho scritto molte volte dei 120 milioni di euro di cemento che l’Università sta riversando e riverserà sul nostro territorio. Anche per la nostra Università “progresso” vuol dire appalti. E un Preside espresse anche su queste colonne un nobilssimo pensiero: bisogna procedere con i lavori senza fare alcuna analisi di sostenibilità, perché altrimenti si ferma il progresso. Gli stessi ragionamenti degli oppositori al Piano Paesaggistico. Inutile andare avanti. Il pensiero dominante è questo. E se tutti vogliono cemento e asfalto, è antidemocratico impedirlo, no? Viva la democrazia: cementifichiamo e asfaltiamo, basta con i vincoli! L’importante è ricordare bene questa scelta, quando poi dovremo pagarne le conseguenze. Perché ci saranno, state tranquilli. E non ci devono essere alibi tipo “come avremmo potuto prevederlo”? I nomi e i cognomi di questi amministratori devono restare scolpiti nella memoria e a loro (e ai loro eredi) dovrà essere presentato il conto dei danni che deriveranno dalle loro scelte. L’Assessore Barbanente ci ha provato, ma si deve rendere conto di una cosa: uno la cultura non se la può dare. Proprio come il coraggio di Don Abbondio. Quello che propone richiede cultura, e quella manca. Inutile che spieghi a chi non vuol capire. La faranno fuori. Intendiamoci, al suo posto farei lo stesso. La sua coscienza è tranquilla, ci ha provato. Ma prima del piano paesaggistico bisogna implementare un piano culturale. E quello manca, anche nell’Università che, purtroppo, dovrebbe esserne il motore.

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E’ possibile una buona filosofia senza conoscenza?

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 18 settembre 2013]

Uno dei principali giornali italiani, forse il principale, visto che ci scrive persino il Papa, sta facendo una collana di opere filosofiche. Ottima idea, mi son detto. E ho trovato i nomi che mi sono stati inflitti quando, al liceo, ho studiato filosofia. All’università scelsi biologia, e mi misi a leggere i classici della biologia, prima di tutto Darwin. L’origine delle specieL’origine dell’uomo, L’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo e molti altri. E poi mi misi a leggere Lorenz. Avrei voluto fare l’etologo. E poi Wilson, e Mayr, e Gould, Morris e persino Mainardi, che poi diventò un mio caro amico. Questi signori hanno aumentato moltissimo le nostre conoscenze su cosa sia la vita e come funzioni, come si sia evoluta. E hanno parlato anche di noi. Spiegandoci da dove veniamo. Abbiamo antenati comuni alle scimmie antropomorfe, ma siamo neotenici rispetto a loro. Chiaro no? No, non lo è. Molti dicono: discendiamo dalla scimmia. Come se ce ne fosse una sola. Non capiscono la differenza tra discendere da qualcosa e avere antenati comuni con qualcosa. Non parliamo poi di neotenia. Ora, se mi voglio divertire a disquisire su “da dove veniamo” e anche su “perché siamo così” forse dovrei avere conoscenza anche di questi fatti, no? La filosofia è l’amore per la saggezza. Ma si può produrre saggezza senza conoscenza? Ci può essere la saggezza dei bambini, o anche degli analfabeti, non lo metto in dubbio. Ma i filosofi non sono analfabeti. Visto che spesso mettono l’uomo al centro dei loro ragionamenti, forse dovrebbero avere conoscenza di dove veniamo, in termini evolutivi. E non solo per sentito dire. E allora torniamo a quel giornale e alla sua collana di filosofi. Non c’è Darwin. E Darwin ha dato un contributo radicale alla nostra visione del mondo. Ci ha mostrato da dove veniamo. Saperlo, dovrebbe conferire saggezza, acquisita attraverso la conoscenza. Lo so, sono un pochino estremo, ma per me Darwin è il più grande filosofo di tutti i tempi. Copernico ha tolto il mondo dal centro dell’universo, con la sua rivoluzione copernicana. Ma la rivoluzione darwiniana ha tolto l’uomo dal centro del mondo e della natura. Sapere che siamo qui da un tempo brevissimo, e che prima non c’eravamo, ma c’erano altre specie, nostre antenate, è un messaggio forte. Ma poi, anche sapere come funziona un ecosistema conferisce una conoscenza che porta alla saggezza, ed è quindi filosofia. Un tempo i filosofi erano anche scienziati. Il primo trattato di zoologia lo ha scritto Aristotele. La prima forma di cultura, le pitture rupestri, è dedicata alla conoscenza degli animali. Da lì è nata la cultura: la Grotta dei Cervi… chiaro? E ancora non li conosciamo tutti, gli animali. Poi, a un certo punto, le strade si sono separate. La colpa (per me è una colpa) è di Benedetto Croce, che considerava la scienza come qualcosa di serie B (e la confondeva con la tecnologia). L’unica cosa che accettava era la matematica. Che è più una lingua che una scienza. E la scienza è stata sbattuta fuori dai nostri percorsi culturali. Abbiamo fondato la nostra cultura filosofica su severe carenze di conoscenza. Con presunzioni prosopopeiche tipiche di chi ignora e si sente superiore. Intendiamoci, non sto dicendo che i filosofi sono dei fessi. Per carità. Sto solo stigmatizzando che i contributi di pensatori che hanno basato il loro pensiero sulla conoscenza non sono considerati “filosofia”. Darwin è un naturalista, ma è anche un filosofo. Sarò estremo a pensare che è il più grande filosofo di tutti i tempi, ma è altrettanto estremo pensare che non sia annoverabile tra chi ha contribuito ad aumentare la nostra saggezza attraverso la conoscenza. E’ il protocollo operativo che cambia. Per gli scienziati prima si acquisisce conoscenza e, da lì, magari si può arrivare alla saggezza. Molti non ci arrivano, e fanno bombe atomiche, ma altri sì. Il pensiero darwininano è stato male adoperato, con il darwinismo sociale, ma che c’entra questo? Anche il massacro dei popoli sudamericani è stato fatto col Vangelo in mano. Possiamo dare la colpa a Gesù? Nei nostri percorsi scolastici l’evoluzione è facoltativa (Moratti l’aveva persino tolta). Non parliamo di come funzioni un ecosistema. Non se ne abbiano a male i docenti che lo fanno. Li assicuro che molti non lo fanno. Lo vedo dagli studenti che ricevo all’università. Il V Maggio a memoria lo sanno. Da dove vengono no, non lo sanno. Anche se poi sanno che Kant sono le categorie e Leibniz le monadi. Pensieri appiccicati, senza basi conoscitive.

Insomma, quella collana di filosofi mi dà fastidio. Perché ci sono carenze culturali gravi. Va benissimo quel che c’è, mi arrabbio per quel che non c’è. E manca anche nei nostri programmi scolastici, manca in quel corpus che chiamiamo “Cultura”. Poi ci chiediamo come mai stiamo distruggendo il mondo e, nel nostro piccolo, come mai non riusciamo a capire un piano paesaggistico. Le radici di tutto questo sono nelle carenze culturali. La colpa non è di chi non capisce, la colpa è di chi non gli ha dato gli strumenti per capire.

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2­­+2  non fa 22

[in “Internazionale” online del 28 settembre 2013]

Su Repubblica di domenica 22 settembre sono trattati due temi molto collegati tra loro ma che, inspiegabilmente, sono separati sia nello spazio del giornale sia nei concetti proposti ai lettori. Giovanni Valentini ha firmato un ottimo articolo sulla sostenibilità, mettendoci in guardia sull’uso dissennato delle risorse naturali, mentre Marco Cattaneo ed Elena Dusi, quest’ultima in un’intervista a Telmo Pievani, hanno firmato due articoli sul presunto arresto dell’evoluzione umana.

Valentini ci dice qualcosa che gli ecologi dicono da tantissimo tempo: il nostro uso del pianeta è insostenibile. Oggi viviamo bene, ma stiamo ponendo le premesse per una catastrofe che ci potrebbe spazzare via, se non diventeremo più saggi. È dai tempi di Malthus che gli scienziati si ostinano a spiegare che la crescita infinita postulata dagli economisti dominanti è impossibile, visto che il pianeta non è infinito. Continuano a non capirlo, gli economisti, e questo è un problema non da poco visto che è a loro che i governanti danno retta (anzi, i governanti sono di solito economisti: Prodi, Amato, Tremonti, Letta, Monti).

Gli altri due articoli ci dicono che abbiamo aggirato la selezione naturale e quindi questo ha bene o male fermato il cambiamento struttural-fisiologico della nostra specie. E se non c’è cambiamento non c’è evoluzione. In altre parole: la selezione naturale prevede che, all’interno della variabilità di una specie, siano selezionati negativamente (una formula gentile per dire: muoiono) gli individui che non rispondono adeguatamente alle richieste dell’ambiente. Restano quelli che rispondono bene: sono selezionati positivamente.

Piano piano, a forza di togliere gli individui che non rispondono, e favorire quelli che rispondono, la specie cambia, si evolve. Lo abbiamo fatto agli insetti, quando li abbiamo combattuti con il Ddt. Morivano quasi tutti gli insetti, alla prima applicazione. Ma ne restava qualcuno. Dopo un po’, i pochi sopravvissuti si sono riprodotti e hanno dato origine a popolazioni resistenti al Ddt. La selezione del Ddt ha favorito l’affermazione di resistenza al Ddt. Noi non permettiamo più che ci sia selezione naturale, nella nostra specie. I malati, i deboli, i “difettosi” sono aiutati, vivono, si riproducono, e i loro geni restano. Non c’è la selezione. Se gli insetti avessero evoluto la medicina, la resistenza al Ddt non si sarebbe affermata. Qui ora subentra l’etica, e potremmo disquisire se sia più importante la specie o l’individuo (ora è l’individuo). Ma non è lì che voglio andare. Voglio mettere insieme i due punti di vista, quello ecologico-economico di Valentini e quello evoluzionistico di Cattaneo, Dusi-Pievani.

Esiste una teoria evoluzionistica chiamata del flush and crash. Il flush è l’incremento esponenziale di una popolazione: descrive una popolazione che cresce a dismisura. Ha talmente tanto successo, per disponibilità di risorse prima di tutto, che tutti riescono a riprodursi e il numero cresce, cresce, cresce. Pochi decenni fa eravamo tre miliardi, ora siamo più di sette. Siamo in un periodo di flush. In questi periodi la selezione naturale sugli individui rallenta (è quello che ci hanno spiegato Cattaneo, Dusi-Pievani).

Poi succede quello di cui parla Valentini. Il “peso” di questa specie sul sistema che la sorregge diventa insostenibile. Il nostro benessere dipende dal buon funzionamento degli ecosistemi. Se li violentiamo, per un po’ ci danno quel che ci serve, poi si schiantano. O meglio, semplicemente cambiano. E fanno altro, magari meno favorevole a noi. Togliamo tutti i pesci con la pesca eccessiva? E gli ecosistemi ci regalano le meduse! Il crash della teoria del flush and crash è il crollo della popolazione della specie di grande successo. I tantissimi individui diventano pochissimi e si attraversa un collo di bottiglia (la bottiglia è la popolazione molto abbondante, il collo è il piccolo numero di individui rimasti dopo ilcrash). Questi sono i fondatori di nuove popolazioni e portano la soluzione del problema che ha creato il crash. Proprio come quelle poche zanzare resistenti al Ddt. A volte icrash portano a evoluzione, e il gioco ricomincia, con altri flush e altri crash, a volte portano a estinzione. La sospensione della selezione naturale durante il flush è solo temporanea.

Bene, ora facciamo due più due, e vien fuori che la nostra specie sta attraversando un periodo di grandissimo successo (Cattaneo, Dusi, Pievani). In biologia, il successo si misura con la numerosità e quindi, visto che non siamo mai stati così tanti, abbiamo molto successo. Ma questo successo non può andare avanti all’infinito (Valentini). La selezione tornerà implacabile quando le risorse saranno troppo poche per soddisfare i bisogni di tutti. Comincerà (ma è mai finita?) la competizione per le risorse. E questo rimetterà in moto l’evoluzione, temporaneamente sospesa: dopo il flush arriva il crash.

Ecologia ed evoluzione sono la stessa cosa, tenerle separate è un grave errore scientifico che, purtroppo, è predominante a causa dell’insano riduzionismo di scienze che dovrebbero fare tutt’altro che dividere un problema complesso in tanti sotto problemi. Finisce che non si vedono le connessioni… E 2 più 2 fa 22! Non è un gioco di parole: 4 è molto diverso da 2, graficamente. Se metto 2 vicino a un altro 2 e li considero come realtà separate, ecco che ottengo 22. Non viene in mente 4.

Un’ultima considerazione. Questi temi sono di capitale importanza. Luca Mercalli ce lo ricorda ogni volta che può. Sono di importanza economica, politica, scientifica, medica, etica. Trattano il futuro della nostra specie, e trattano l’impatto del nostro modo di concepire il mondo sulle nostre possibilità di sopravvivenza futura. Si tratta del problema numero uno. E il problema numero due praticamente non esiste. Invece, nelle prime pagine dei giornali si leggono fior di articoli su Letta, Berlusconi, Napolitano e Santanché, per non parlar di Renzi. Non ci sarebbe niente di male, se questi signori affrontassero il problema numero uno, ma per loro questo problema non esiste neppure.

Pievani parla dell’evoluzione culturale. Ma se non riusciamo a comprendere il problema numero uno significa che l’evoluzione culturale si è fermata. La selezione naturale no, tranquilli. Chi non capisce sarà spazzato via. La storia della vita sul pianeta ci insegna che il dominio di una specie è sempre effimero, ed è proprio il grandissimo successo ad essere la premessa del crollo. Le popolazioni crollano sotto il proprio peso. Di questo non ci vogliamo rendere conto, e rimandiamo il problema. Peggio per noi, ma non dite che non abbiamo avvertito! La maledizione di Cassandra non era di fare previsioni errate, era di non essere creduta. Le previsioni erano giuste. Ci chiamano “le Cassandre dell’ecologia”.

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Ancora fango, ancora alluvioni, ancora morti, ancora stupidità

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 9 ottobre 2013]

Sono andato a guardare gli articoli scritti in passato, sul Quotidiano, a commento dei disastri “naturali” che affliggono il nostro paese. Ne ho scritto per Genova, per la Cinque Terre, per Scaletta Zanclea, e per altri posti. Avrei potuto scriverne per il Vajont, di cui ricorre il cinquantenario in questi giorni, o per Sarno. Per Firenze, ovviamente. E ora eccomi a scriverne uno per il Salento. Morte, distruzione, e magari qualcuno invoca la natura matrigna, che ci è ostile. Lo stesso diciamo quando le mareggiate si mangiano quel che abbiamo costruito sulla costa: il mare è cattivo. 
Vi svelo un segreto: non è la natura che è cattiva, siamo noi che siamo scemi. I nostri avi lo sapevano che in certi posti non si deve costruire. Mai sulla sabbia! Mai in posti che si allagano. Il Salento non ha grandi insediamenti “storici” sulla costa perché prima c’erano le paludi. Le paludi servivano ad assorbire (naturalmente) l’eccesso d’acqua che, ogni tanto, si riversa sul nostro territorio. Gli stessi disastri stanno succedendo nel Grossetano, in Maremma, dove abbiamo fatto le bonifiche! Gli insediamenti storici, in posti del genere, sono nell’interno. In Calabria ci sono le fiumare. Secche per gran parte del tempo. Ma ogni tanto diventano fiumi tumultuosi. Non si costruisce nelle fiumare. In alcune hanno fatto le zone industriali! Sembrerebbe così ovvio che non si deve fare. Se cerco lo stradario di Ginosa, in internet, trovo contrada Pantano. Chissà perché l’avranno chiamata così? Non sarà perché ogni tanto si allaga e diventa un pantano? Ora ci sono le case. Poi ci sorprendiamo se si allaga. E dei poveretti ci lasciano la pelle. Abbiamo cementificato posti dove non di doveva costruire. Per un po’ vinciamo noi. Poi vince la natura. Presenta il conto. Il disastro non è “naturale”, il disastro è dovuto alla stupidità umana. E spesso, quasi sempre, purtroppo, a pagare non sono i colpevoli ma gli ignari che hanno deciso di vivere in un certo posto, certi che la moderna tecnologia avrebbe offerto loro un riparo sicuro. Se le strade si allagano, se i sottopassi si allagano, se le cantine si allagano, se i pozzetti degli ascensori si allagano, significa che chi li ha costruiti non ha tenuto conto degli eventi estremi. Succederà ogni venti o trent’anni, ma nella vita di una casa, o di una strada, di una città, contano anche gli eventi di una volta ogni cento anni. La geologia ce lo dice, non sono eventi imprevedibili. Non è vero che siano tragiche fatalità. E’ colpevole ignoranza. La lobby dei geologi non è abbastanza potente da far sentire la sua voce. Non parliamo di quella degli ecologi, che neppure esiste. Ci sono le lobby dei cementificatori, però. Come gridano se gli si chiede di mettere un freno alla loro frenesia cementificante e asfaltatrice. Qui si vuole fermare il progresso! Strepitano. Dove sono ora? Questi disastri sono causati dalla loro imperizia. Mi piacerebbe una inchiesta semplice semplice. Chi ha progettato quelle case, quelle strade? Chi le ha costruite? Chi ha dato i permessi? Chi non ha fermato i lavori, se erano illegali? Non sono tragiche fatalità. Chi ha permesso che un Pantano diventasse una contrada? A chi è venuto in mente di farlo?

Ci vogliono i morti per fare qualcosa. I morti all’incrocio, e poi si fa la rotatoria. I morti in mare e poi si pensa ai profughi trasformati in clandestini. E i morti per alluvione. Basteranno questi? o ci vorranno le centinaia che hanno scosso la nostra coscienza con i profughi? E’ ora di riparare i danni. Bisogna abbattere, abbattere, abbattere. Rinaturalizzare i siti dove in modo irresponsabile abbiamo distrutto la naturalità ambientale, causando il dissesto idrogeologico. Chi deve pagare questi danni? Ma è ovvio: lo Stato! Eh già, i privati si sono arricchiti e ora ci deve pensare la collettività a rimediare. Proprio come a Taranto, con le acciaierie. Vedo che i Ligresti, una potentissima famiglia di costruttori, sta avendo guai con la giustizia. Ma i problemi sono di ordine contabile. Il buco fatto nei conti della natura non viene contabilizzato. Dopo aver abbattuto quel che deve essere abbattuto, dovremo cercare di ricostruire. Ma con uno spirito differente. Cercando l’armonia con la natura, senza violentarla. Sembra fragile, la natura. Sembra facile violarla. Ma alla lunga è spietata e implacabile. Meglio andarci piano con lei.  Basterà questa lezione? No, non basterà. Presto dimenticheremo e ricominceremo a chiedere progresso. La lista dei disastri è troppo lunga, sembra quella delle intemperanze di Balotelli. Ogni volta chiede scusa, dice che non lo farà più, e ogni volta ci ricasca. E’ come le morti sulle strade. Ogni volta diciamo: mai più! fino alla volta successiva. Non riusciamo a imparare la lezione. Diamo sempre la colpa agli altri. Come bambini viziati, che le hanno sempre avute tutte vinte. Magari arriverà la Magistratura, come a Taranto, e comincerà a arrestare qualcuno, a identificare responsabilità oggettive. Magari nelle ditte costruttrici, nelle amministrazioni. Ma dovrebbero arrestare una quantità immane di persone. La Magistratura serve per correggere le devianze. Quando la devianza diventa la norma, cascano le braccia. E’ come svuotare il mare con un secchiello. Ancora una volta, è la cultura che ci può salvare. Una cultura che metta la natura al centro di tutto. Per un semplice motivo: che la natura è al centro di tutto. Ma noi viviamo come se non ci fosse, come se fosse un di più, un contorno irrilevante. E ogni volta ci sorprendiamo che ci sia, e che sia così forte. Il piano paesaggistico di Barbanente non basta. Non basta dire dove non si deve costruire. Bisogna anche dire dove si deve abbattere. Perché la natura non fa condoni, e le sue leggi sono retroattive: punisce oggi per i danni fatti ieri. E non gliene importa nulla se è anticostituzionale.

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Quale futuro per la Stazione Zoologica di Napoli?

[“La Stampa” del 19 ottobre 2013]

La Stazione Zoologica di Napoli (SZN), per i napoletanti “l’Acquario”, è stata fondata nel 1873 da Anton Dohrn, un visionario tedesco che costruì un centro di ricerca sulla biodiversità marina per “validare la teoria dell’evoluzione di Darwin” e per studiare, attraverso gli animali marini, i grandi temi della biologia. La SZN, oggi dedicata al suo fondatore, fu il modello per istituti analoghi in moltissimi stati avanzati, dalla SZN passarono numerosissimi premi Nobel e vi si formarono innumerevoli scienziati di fama mondiale. Quasi inspiegabilmente, poco prima che al problema della biodiversità venisse riconosciuta importanza cruciale, con la Convenzione di Rio de Janeiro del 1992, la SZN andò in crisi. La volevano chiudere. L’istituzione fu salvata da Gaetano Salvatore che, nel 1987, ne divenne Presidente. Salvatore era un medico, un validissimo medico. La “visione” di Dohrn non era parte della sua cultura, e la SZN iniziò un processo di riassestamento che non si è mai interrotto. Dopo Salvatore toccò a un altro gigante della biologia, Giorgio Bernardi, che ha dato contributi molto rilevanti all’evoluzione molecolare, soprattutto sul genoma umano e su quello di vertebrati a sangue caldo. Anche in questo caso le scienze marine non erano parte prominente della “cultura” (enorme) del Presidente. Dopo Bernardi toccò a Roberto Di Lauro, validissimo allievo di Salvatore. Roberto (lo chiamo per nome perché lo considero un amico) diede grande impulso alla SZN, sviluppando ricerche … di interesse biomedico. Durante la presidenza di Di Lauro fui chiamato nel Consiglio Scientifico della SZN. Ero un nano in mezzo ai giganti. Non capita tutti i giorni di lavorare con tre premi Nobel e con altri eminentissimi rappresentanti della ricerca biologica. Pochi biologi marini, però. Un giorno, durante una riunione, chiesi: ma secondo voi la SZN può ambire a diventare uno dei primi dieci istituti al mondo per la ricerca sulla biodiversità marina? Certamente, mi risposero. La sua storia, la sua tradizione, vanno in quella direzione. Bene, dissi, allora rispondete a questa domanda: la SZN può ambire a essere uno dei primi cento istituti al mondo per la ricerca biomedica? Si misero a ridere.

Dopo Di Lauro, alla presidenza fu chiamato Enrico Alleva, uno zoologo. Finalmente! dissi tra me e me. Ma Alleva ha dato le dimissioni, e ora bisogna trovare un nuovo Presidente.    Le soluzioni trovate sino ad ora hanno privilegiato l’eccellenza scientifica. Tutti i presidenti nominati sino ad ora primeggiano nel loro campo di ricerca. Purtroppo non è stata considerata la coerenza tra la loro eccellenza e la “missione” della SZN. E’ grazie a loro se la SZN non è stata chiusa da una tendenza culturale che, nel nostro paese, vede come uno spreco lo studio della natura (la natura è persino assente dalla nostra Costituzione). Il problema della biodiversità rimane apertissimo e poco studiato, soprattutto nella sua componente marina. E’ grazie alla biodiversità che le condizioni ambientali permettono la nostra esistenza! Purtroppo questo semplice concetto non fa parte della nostra cultura. L’Italia dovrebbe avere dieci Stazioni Zoologiche e forse più, visto che ha 8.500 chilometri di coste, invece pare che non le interessi neppure l’unica che ha. Se a presiederla sarà nominato un altro medico… che la trasformino in un ospedale, almeno chi studia il mare non si sentirà preso in giro. E un pezzo di storia della scienza italiana sarà definitivamente archiviato. Tanto, che importanza ha la biodiversità, dopotutto? E a noi, del mare, che importa?

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I francobolli di Rutherford

[In Internazionale del 24 ottobre 2013]

Il primo trattato di zoologia arrivato fino a noi è stato elaborato da Aristotele. Per molto tempo i filosofi hanno fatto lo stesso mestiere di chi, oggi, viene chiamato scienziato. Poi le strade si sono divise. Si sono in parte riunite quando i filosofi si sono messi a studiare la scienza e, così facendo, hanno esaminato come entomologi gli schemi comportamentali degli scienziati (trattati come insetti). Devo dire che spesso, agli scienziati, non importa granché di filosofia della scienza. Nelle facoltà di scienze è raramente insegnata, ed è un errore madornale. D’altronde c’è pochissima scienza nei corsi di laurea di filosofia. Poi è arrivato Popper e, per un po’, il mondo scientifico si è sentito in dovere di seguire i suoi dettami su come si deve fare scienza.

Semplificando (come è necessario in un articolo non tecnico), direi che Popper basò la sua filosofia sull’idea che non si può verificare un bel niente. Verificare significa: dimostrare il vero. La verità non è alla nostra portata. Possiamo solo tentare di dimostrare che qualcosa sia falso. Fino a quando non ci riusciamo, riteniamo provvisoriamente vero quel che abbiamo presupposto, ma se troviamo un solo esempio contrario, ecco che abbiamo falsificato il nostro assunto, e lo dobbiamo rigettare: lo abbiamo falsificato. Popper disse anche che la scienza deve produrre enunciati falsificabili. Se produco un enunciato non falsificabile, cioè che è sempre vero, spiego tutto ma, in effetti, non spiego niente. Chiaro no? Per me non era chiaro, ma non avevo voglia di dimostrarmi così scemo, e facevo finta di capire. Popper fece un esempio per spiegare il suo ragionamento, un esempio zoologico: “Tutti i corvi sono neri”. Diciamo che questo è un enunciato. Bene, non riuscirò mai a vedere tutti i corvi, quelli passati, quelli presenti e quelli futuri. E quindi non posso essere sicuro che “tutti i corvi” siano effettivamente neri. Fino a quando trovo corvi neri posso ritenere provvisoriamente vero l’enunciato, ma se trovo un corvo bianco… ecco che lo devo rigettare.

Dato che sono uno zoologo, e l’esempio è di zoologia, dico: vabbè, d’accordo, ci sono i corvi albini, e allora? Anatema. Questa è una spiegazione ad hoc. E non permette comunque di accettare “tutti i corvi sono neri”. Va bene, ma allora se voglio studiare i corvi, che dico del loro colore? Non è scienza? Ma allora perché usare questo esempio? Non sono riuscito a trovare risposta (forse perché mi sono indispettito e ho smesso di leggere, anche se mi pare di essere arrivato fino in fondo).

Dopo grande ponderazione capii il significato di “spiega tutto e allora non spiega niente”, e formulai questo enunciato: “I corvi possono essere di tutti i colori”. È ovvio che questo enunciato sarà sempre vero, ma che me ne faccio? Giusto: spiega tutto e non spiega niente. Per spiegare la logica popperiana ai biologi marini, un grande esperto di ecologia, invece di scegliere i corvi, scelse gli squali e formulò: “Non ci sono squali nella baia”. Non ha importanza quante volte io non trovi uno squalo nella baia: non potrò mai dire che il mio enunciato è vero, potrò solo dire che non è falso. Ma se poi trovo uno squalo nella baia, a patto che mi lasci vivo, potrò dire di averlo falsificato. E quindi: non posso verificare nulla, posso solo falsificare. Mi gratto la testa e formulo: “Ci sono squali nella baia”. Attenzione. Un enunciato è “NON ci sono squali nella baia”, l’altro è “ci sono squali nella baia”. Nel secondo caso, non ha importanza quante volte io non trovi uno squalo, questo non significa che l’enunciato sia falso, ma se trovo anche UNO squalo, allora l’enunciato è vero: ci sono squali nella baia! Ma allora posso anche verificare!

Vado da un amico epistemologo (il bello di lavorare in un’università è che trovi sempre qualcuno con cui parlare di cose che non conosci) e gli chiedo: che differenza c’è tra “non ci sono squali nella baia” e “ci sono squali nella baia”? Semplice: il primo è un enunciato universale, si riferisce all’“universo” squali, mentre il secondo è un enunciato esistenziale, e si riferisce a proprietà che potrebbero essere anche di una parte di quell’universo. Gli enunciati universali non si possono verificare, ma solo falsificare, mentre quelli esistenziali non si possono falsificare, ma solo verificare. Wow, mi si aprono nuovi orizzonti, perché queste cose hanno ricadute sulla teoria dell’evoluzione. Negli anni settanta, Eldredge e Gould (due zoo-paleontologi) formularono la teoria degli equilibri punteggiati (l’evoluzione procede per salti evolutivi inframmezzati a lunghi periodi di stasi evolutiva) e la contrapposero al gradualismo darwiniano (l’evoluzione procede per piccoli cambiamenti che, gradualmente, sommandosi, danno origine a grandi cambiamenti). Gould, un popperiano di ferro, disse che gli equilibri punteggiati avevano falsificato il gradualismo darwiniano. Non fa piacere essere falsificati, e quindi i gradualisti, trovati esempi di gradualismo, dissero di aver falsificato il saltazionismo. I creazionisti non aspettavano altro: vedi che si falsificano a vicenda? L’evoluzione è falsa, ha fatto tutto Dio.

Ora vi svelo un segreto: non sono il gradualismo o il saltazionismo a essere falsi, è falsa la loro universalità. L’evoluzione procede a volte per salti e a volte gradualmente: sono veri entrambi, ma non sempre. Non c’è un modo solo. Tornando agli squali, non si può dire “l’evoluzione avviene per salti” o “l’evoluzione avviene gradualmente” (enunciati universali, falsificati dall’esistenza delle due modalità), ma si può dire: “esiste l’evoluzione per salti e esiste l’evoluzione graduale” (enunciato esistenziale). E quindi non c’è una legge, con la formula, tipo quelle della fisica.

Lo ha spiegato Darwin, nell’Origine delle specie: “Getta in aria una manciata di piume e tutte cadranno al suolo secondo leggi ben definite (nota: si riferisce a Newton e Galileo). Ma come è semplice questo problema se lo confrontiamo alle azioni e reazioni degli innumerevoli animali e piante che hanno determinato, nel corso dei secoli, i numeri proporzionali e le specie di alberi che ora noi vediamo su quelle vecchie rovine indiane”. Darwin ci spiega la differenza tra la fisica e la biologia. Le leggi ben definite della fisica sono enunciati universali. Mentre la biologia si basa su enunciati esistenziali. Se i biologi cercano enunciati universali… arrivano alla fisica. Ernst Rutherford pronunciò una frase famosa, sintomo di un insano complesso di superiorità: “Nella scienza esiste solo la fisica; tutto il resto è collezione di francobolli”. Ironia della sorte: gli diedero il Nobel per la chimica!

Le scienze che studiano problemi semplici (per dirla con Darwin) sono matematizzabili, mentre quelle che si occupano di problemi complessi no, non lo sono. Semplice vuol dire che avviene in un solo modo (universale), complesso vuol dire che può avvenire in tanti modi (esistenziale): i francobolli di Rutherford. Antonino Zichichi in diverse occasioni scrisse che l’evoluzione non è una scienza e giustificò questa frase dicendo che non c’è l’equazione dell’evoluzione. E neppure l’esperimento probante e quindi, se non c’è equazione, non è scienza. In realtà il punto è che ci sono scienze a-storiche, governate da leggi (universali), e ci sono scienze storiche, governate da leggi e da contingenze (esistenziali). La fisica classica è una scienza a-storica, la biologia è una scienza storica (l’evoluzione cerca di ricostruire la storia della vita, e non c’è l’equazione della storia). Se si usano i criteri delle scienze a-storiche per valutare le scienze storiche (e anche viceversa, ma questo non avviene mai) si fa un errore epistemologico. E poi si convince il ministro Moratti a togliere l’evoluzione dai percorsi della scuola dell’obbligo.

Sono più importanti le scienze storiche (basate su enunciati esistenziali) o quelle a-storiche (basate su enunciati universali)? Domanda oziosa. Sono tutte importanti. Sarebbe come chiedere se è più importante la grammatica o la sintassi. Sono entrambe necessarie, e chi le insegna sarebbe un fesso se dicesse che sono più importanti della letteratura, no?

Esiste un’unica grande realtà che possiamo analizzare da tanti, tantissimi punti di vista. E il compito della scienza è di ricomporre questi punti di vista in un’unica grande visione. Io la chiamo cultura.

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Cassandra continua ad avvertire…

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 21 novembre 2013]

L’altro giorno parlavo con un amico che si rallegrava della lunghezza della bella stagione. Fino a ora non è piovuto mai, mi ha detto. Gli ho ricordato la recentissima alluvione a Taranto, e le vittime. Ah, già, mi ha risposto. Abbiamo la memoria cortissima. Cicloni nelle Filippine, con migliaia di morti, e ora lo stesso sta succedendo negli Stati Uniti. Paesi lontani. Ma ecco che la Natura ci colpisce in Sardegna. Pare che non si salvi nessuno e, in effetti, questi sconvolgimenti hanno assunto scala globale.

Ma noi … niente. Dopo un attimo, a parte i diretti interessati alle catastrofi, ci dimentichiamo di quel che succede, e proseguiamo imperterriti a mantenere stili di vita che non sono compatibili con un pianeta ospitale. Se uno riempie la sua casa di spazzatura e di veleni, poi la sua qualità della vita diminuisce. La spazzatura, prima di essere spazzatura, era un bene da utilizzare, ma poi una parte di questo bene diventa spazzatura. Pensate alla vostra casa, e pensate a cosa succederebbe se i rifiuti che producete ogni giorno finissero abbandonati in qualche angolo, sotto ai tappeti. Ecologia vuol dire “studio della casa”. L’ambiente, alla fine, è la nostra casa. Noi nascondiamo i rifiuti sotto a grandi tappeti (le discariche, l’atmosfera, il mare) ma oramai trabocca. E questi rifiuti (solidi, liquidi, e gassosi) stanno cambiando la nostra casa, rendendola sempre meno abitabile.

Come si fa a non capire? Come si fa a dimenticare subito ogni punizione severissima che la Natura ci infligge? Eppure dimentichiamo subito. Come il mio amico che aveva già dimenticato le alluvioni tarantine, e i morti, di poche settimane fa.

Noi diciamo queste cose da sempre, e ci chiamano Cassandre. Ho già detto innumerevoli volte che la maledizione di Cassandra era di fare previsioni giuste alle quali non credeva nessuno. Siamo Cassandre. Continuiamo ad avvertire e nessuno ci ascolta. Nessun avvertimento, nessuna dimostrazione, nessuna prova sono sufficienti per farci cambiare. Forse dovremmo smetterla. Intendo noi, le Cassandre. E’ una fatica inutile. L’unica soddisfazione che ci rimane è: noi ve lo avevamo detto. Ma la stupidità umana è tale che si arriva ad incolpare chi fa fosche predizioni, accusandolo di portare sfortuna. Se ti dico che attraversare l’autostrada è rischioso, e tu l’attraversi lo stesso, non è colpa mia se un TIR ti riduce a una macchia di grasso sull’asfalto. E’ proprio quel che facciamo. Non facciamo che dire: non possiamo continuare così, ci dobbiamo fermare, dobbiamo cambiare stili di vita. La situazione non può durare a lungo, poi ci pentiremo amaramente di questi errori. Niente. Non serve. Se lo diciamo, siamo noi che portiamo male. Eppure non sono cose complicate. Non c’è bisogno di formule complesse, di esperimenti che richiedano l’opera collettiva di migliaia di ricercatori. L’esperimento lo fa la Natura, con le sue risposte. Ma no, non serve. I negazionisti, quelli che rassicurano dicendo che va tutto bene, sono sempre meno, zittiti dai fatti incontestabili. Ma, sotto sotto, dato che quel che avviene non ci piace, e ci piace ancora meno rinunciare al nostro stile di vita, facciamo finta di niente. Finché dura ce la spassiamo, poi qualche santo ci penserà. Queste situazioni non si risolvono con le preghiere, si risolvono con lo sviluppo di tecnologie che ci permettano di mantenere un certo tenore di vita senza stravolgere la nostra casa. E dobbiamo comprendere bene il funzionamento dell’ambiente perché è inutile proporre soluzioni per curare un malato di cui non conosciamo né l’anatomia né la fisiologia.

Questo è il nostro problema numero uno. E mi sento di dire che non esiste un problema numero due. Certo, è talmente grande che lo scoraggiamento potrebbe essere altrettanto grande. Tanto vale ignorarlo, no? No! Non possiamo più. E ritorno al problema della cultura. Queste cose a scuola non si insegnano. Non fanno parte della nostra cultura. E forse è per questo che non vogliamo capire. Non riusciamo a capire perché non abbiamo gli elementi conoscitivi per capire. Non risolveremo tutto in un lampo, la cultura non si improvvisa. A proposito di cultura, nei programmi di Lecce Capitale Europea della Cultura l’Ambiente ha un ruolo rilevante. Sono curioso di vedere come il tema verrà sviluppato.

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Quanti gasdotti per il Salento?

[“Nuovo Quotidiano di Puglia“ del 13 dicembre 2013]

C’è qualcosa che non torna nella storia dei gasdotti che dovrebbero arrivare in Italia attraverso la “piattaforma Salento”. Per uno, quello di TAP, si è formato un nutrito fronte contrario in nome della difesa del territorio, mentre per l’altro, il Poseidon, pare che non ci sia alcun problema. TAP arriva a San Foca, Poseidon a Otranto. Non voglio fare classifiche di valenza ambientale, però mi pare strano il fervore ambientalista nel difendere San Foca e il totale disinteresse verso Otranto dove, tra l’altro, è già presente un elettrodotto, come se il nostro territorio non producesse abbastanza energia elettrica. Questi problemi non riguardano solo gli specifici territori dove le opere dovrebbero insistere, o già insistono, ma rientrano in una strategia complessiva di utilizzo del nostro territorio. Ho già ribadito su Quotidiano che non è saggio analizzare ogni singola opera come un qualcosa di isolato. La sommatoria di piccoli impatti, forse tollerabili se considerati singolarmente, potrebbe portare a impatti cumulativi meno sopportabili. Se i movimenti anti-gasdotto sono così concentrati su TAP e apparentemente assenti su Poseidon, mi insospettisco. Forse le dinamiche che hanno portato a queste situazioni usano l’ambientalismo per fini “altri” che niente hanno a che vedere con la difesa dell’ambiente. Avendo molto a cuore la difesa dell’ambiente, non mi fa piacere pensare che alcune battaglie in questa direzione possano assumere fisionomie ambigue.

Da una parte, TAP si è messa in discussione, ha mostrato le carte, ha cambiato sito, ha accettato il confronto (pur ovviamente difendendo le proprie posizioni), mentre per il gasdotto di Otranto non mi pare tutto questo sia avvenuto, non con lo stesso clamore e la stessa mobilitazione mediatica. Mi chiedo: ma se tutte le preclusioni verso TAP sono valide, come mai non sono state portate avanti anche per Poseidon? Si tratta solo di un sintomo della sindrome “non nel mio cortile”, oppure c’è qualcosa di più? La sindrome “non nel mio cortile”, per chi non lo sapesse, riguarda posizioni tipo: sì, quest’opera è necessaria, la dobbiamo fare, però non nel mio territorio. Facciamola da un’altra parte. Per TAP sono in tanti a dire: perché non la facciamo a Brindisi? I brindisini, dal canto loro, dicono: ma perché tutto deve essere fatto a casa nostra? In questi casi è la politica “alta” che deve decidere per il bene comune, contro interessi marcatamente locali. Sempre fatte salve tutte le norme che tutelino l’integrità ambientale, non lo dovrei neppure dire.

Mi pare scontato che, in questi casi, la scelta non possa essere esclusivamente del territorio inteso come luogo fisico in cui l’impianto dovrebbe arrivare. Il gasdotto di Otranto, per andare verso nord, attraverserà tutto il Salento e quindi non è un problema solo di Otranto, mi pare. E lo stesso vale per San Foca.

La politica provinciale e, ancor di più, quella regionale deve avere la possibilità di considerare questi problemi singoli come componenti di un unico problema complessivo, deve garantire l’integrità dei territori e anche la possibilità che, comunque, ci siano compensazioni per chi vede passare una grande infrastruttura logistica nel proprio territorio. Le compensazioni ci devono essere anche in assenza di impatti ambientali significativi, a parte la presenza fisica dell’infrastruttura stessa.

Continuo ad essere sorpreso della schizofrenia con cui si affrontano questi problemi. Il piano paesaggistico viene osteggiato perché “frena lo sviluppo” e sono in tanti a chiedere che continui la colata di cemento e di asfalto sul proprio territorio, per non parlare di progetti di riminizzazione delle nostre spiagge. Poi il fervore ambientalista diventa veemente per combattere un’iniziativa in un sito, ignorandone un’altra, identica, a pochi chilometri di distanza. 
Mi piacerebbe capirci di più, per arrivare a un piano ambientale integrato (coste, paesaggio, mare etc.) che non sia il risultato di semplici sommatorie. L’assessore Barbanente e la Regione tutta hanno grande sensibilità al riguardo e sarebbero auspicabili ulteriori interventi di mediazione e di indirizzo politico perché, alla fine, l’ambiente è uno solo e le interazioni tra le sue componenti, inclusa quella umana, sono molto intricate. La politica serve a questo, e si deve basare su solide conoscenze scientifiche che vadano oltre le risposte emotive di chi ha a cuore solo alcuni aspetti e ne dimentica altri.

Questa voce è stata pubblicata in Ecologia, Scritti ecologici (2009-2015) di Ferdinando Boero e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.