Bob Dylan, Premio Nobel per la letteratura. Ho avuto un sobbalzo quando l’ho appreso. Subito si sono scatenati giudizi contrari perché il menestrello americano non è un letterato e dunque non meriterebbe il premio. Il folksinger ha accolto la notizia senza clamori, anzi si è nascosto dietro un impenetrabile silenzio, cosa che ha vieppiù inasprito gli animi dei suoi detrattori e le reazioni piccate si sono inseguite nell’etere. Ma come, il premio Nobel ad un cantante? Scherziamo? Dopo gente come Steinbeck, Hemingway, Montale, Neruda? Dylan però non se li fila proprio e non si fila nemmeno il premio, tanto che per molti giorni non si scomoda a ringraziare la commissione e continua il suo tour senza farvi cenno, nella sua proverbiale alterigia. “Aprile è il mese più crudele, generando / lilà sulla terra morta, mischiando / memoria e desiderio, eccitando / spente radici con pioggia di primavera./ L’inverno ci tenne caldi, coprendo / la terra di neve smemorata, nutrendo / una piccola vita con tuberi secchi. “( “La terra desolata” vv.1.10). A dire il vero, non viene proprio inaspettato il premio a Bob Dylan, se ne parla da più di dieci anni, almeno dal 2005 quando erano in lizza Adonis e Pamuk, e infatti vinse Harold Pinter, che poi non ritirò il premio. Pamuk vinse nel 2006, mentre Adonis sta ancora aspettando. E proprio al poeta siriano Adonis, ricordo che, fra le due tre domande che rivolsi, quando fu ospite a Serrano di Carpignano Salentino nel 2007, in occasione della manifestazione “L’olio della poesia”, una era appunto la seguente: “Lei è stato più volte candidato al Nobel, proprio come il cantante Bob Dylan. Cosa penserebbe se il premio fosse conferito al compositore americano?”. Ed egli, dimostrando grande apertura mentale, mi rispose che non ci avrebbe trovato nulla di sbagliato, riconoscendo da sempre l’alto valore letterario delle canzoni di Dylan. “Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me, / I’m not sleepy and there is no place I’m going to. / Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me, / In the jingle jangle morning I’ll come followin’ you” (B.D.).
Poi, il poeta con la chitarra rompe il silenzio, per annunciare che non ritirerà il premio. Apriti cielo, tutti i media a sommergerlo di insulti ed improperi, anche perché quella di Dylan è una decisione un po’ ambigua, nel senso che fa capire che intascherà comunque il lauto compenso di 900.000 euro. Ci sono stati altri casi, nella storia del Nobel, di premiati che non hanno ritirato la statuetta, ci informa la tv. Nel 1958, Boris Pasternak non ritirò il premio a causa del regime sovietico che glielo impedì, Jean Paul Sartre, nel 1964, perché aveva deciso di rifiutare qualsiasi tipo di riconoscimento, il politico vietnamita Le Duc Tho, nel 1973, rifiutò il Nobel per la pace perché la pace nel suo paese non era ancora stata raggiunta, la birmana San Suu Ky, nel 1991, perché detenuta, Elfriede Jelinek, Nobel per la letteratura nel 2004, non partecipò perché non in grado di reggere l’emozione della cerimonia, Harold Pinter nel 2005 e Doris Lessing nel 2007, Letteratura, non parteciparono perché malati ma comunque accettarono il premio, il poeta cinese Liu Xiaobo, nel 2010, non ritirò perché in carcere per ragioni politiche. Dylan dunque si unisce ad una nutrita e autorevole schiera, ma la sua decisione è forse la più originale, ossia rifiutare l’onorificenza ma accettare l’assegno. George Bernard Shaw nel 1925 accettò il premio ma rinunciò al denaro, devolvendolo al finanziamento delle traduzioni dell’opera del drammaturgo August Strindberg. Ma Dylan, non ha alibi. “Un gesto davvero arrogante” scrive Dacia Maraini, su “Il Messaggero” del 17 novembre 2016, “Sartre rifiutò ma senza intascare”. “La scelta era semplice: accettare o rifiutare il premio, la via di mezzo è furba e banale”, scrive Mario Ajello sempre su “Il Messaggero”. “È l’opposto dell’anticonformismo di cui il divo si sente incarnazione e risulta invece la stanca conferma dell’ansia dylaniana di volersi presentare sempre come lo stupor mundi”. Eh, qui si tocca il portafoglio, la vedo male, per il povero (!) Dylan. È stato un mito per diverse generazioni di musicisti che sono venuti dopo, anche italiani, a cominciare da Francesco De Gregori, che forse contende la palma al suo maggiore ispiratore quanto ad alterigia e spocchia. Ma tutto si lega insieme, a volte, stranamente, impercettibilmente. Tornando al pomeriggio dell’altro ieri, mentre io inizio a leggere The wast land, sebbene un po’ stordito dall’annuncio di Dylan di rifiutare il Nobel, mio figlio piccolo entra nello studio chiedendomi se abbia maggiori informazioni su Alfred Nobel, l’inventore della dinamite. In alternativa, avrebbe fatto una ricerca su Internet. Stava studiando sulla sua antologia di italiano l’istituzione del Premio Nobel. Rifletto su come un ragazzino di Scuola Media possa trovarsi spiazzato di fronte all’apparente paradosso che all’inventore della dinamite sia intitolato il più famoso riconoscimento al mondo per la pace, se non ne conosce le motivazioni. Ed è forse per questo che lo stanno studiando. Vero che la contraddizione sta anche nelle scelte che l’Accademia svedese ha operato nel corso degli anni, perché assegnare il Nobel per la pace, per esempio, ad El Baradei nel 2005 o ad Obama nel 2009, richiede davvero un grande sforzo di fantasia. Assai interessante la storia di Alfred Nobel, che da produttore di armi in vita si trasformò in un benefattore post mortem, con l’istituzione del famoso premio. Probabilmente per mettere a posto la coscienza, a parziale risarcimento degli eventuali effetti distorti che la sua più grande invenzione avrebbe procurato, pensò di lasciare tutti i propri averi per istituire dei riconoscimenti che poi avrebbero preso il suo nome. Questi premi, secondo le volontà di Nobel, sarebbero andati a tutti coloro che avessero contribuito con l’impegno concreto a preservare la pace nel mondo. Ma che strano pomeriggio di coincidenze: mentre io apprendo del gesto eclatante di Bob Dylan di rifiutare il Nobel, mio figlio Filippo studia la storia dell’istituzione del premio.
“Fleba il Fenicio, morto da due settimane, / dimenticò il grido dei gabbiani, le onde dell’alto mare / e il profitto e la perdita./ Una corrente sottomarina / gli spolpò le ossa in bisbigli. Come affiorava e affondava / traversò gli stadi dell’età matura e della giovinezza / entrando nel vortice. /” ( “La terra desolata” vv 312-319).
L’opera di Eliot descrive una terra che un tempo era fertile e ricca e ora invece è solo desolata. È un’opera fortemente simbolica, di letteratura sulla letteratura, data la miriade di riferimenti intertestuali presenti, e riflette la desolazione delle città moderne con la loro sterile vita fatta di vuoto, logorata dai ritmi quotidiani, da piaceri sordidi, anonimi, bassi, una terra che è luogo di anarchia, di dubbio, in cui gli uomini, come stanche e pallide presenze smunte, svuotate di ogni vitalismo, sono mossi solo dalla forza di inerzia, non dal cuore. Per esteso, la desolazione della terra del poema è quella di una intera civiltà occidentale, in crisi irreversibile. “Come gather ‘round people / Wherever you roam / And admit that the waters / Around you have grown / And accept it that soon / You’ll be drenched to the bone. /If your time to you Is worth savin’ / Then you better start swimmin’ / Or you’ll sink like a stone / For the times they are a-changin’” (B.D.)
Ma quel pomeriggio, io mi rifiutavo di arrendermi ad una visione apocalittica di un futuro di morte e devastazione per il nostro Paese. E mentre pensavo che c’è bisogno dell’ottimismo dell’intelligenza, ecco allora il senso, che magicamente arriva. Filippo mi chiede del premio Nobel, mentre io leggo The waste land: anche Eliot fu Premio Nobel per la letteratura nel 1948, proprio quel Nobel che ora Bob Dylan, fra gli artisti americani uno dei miei preferiti, rifiuta, esattamente come io rifiuto la paralisi di una generazione che è la chiave di lettura ideologica del poemetto eliotiano. E tutto si tiene, si intreccia, si lega insieme.
NOVEMBRE 2016