Ovviamente però l’interesse per questa materia non nasce dal nulla ma deriva da una lunga preparazione iniziata allorché egli arriva a Lecce nel 1956, incaricato di Letteratura italiana presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università appena sorta, e incomincia ad assegnare, come ci informa in un articolo[4], una serie di tesi di laurea finalizzate a sondare questo terreno quasi completamente inesplorato o esplorato fino ad allora con metodi poco o niente affatto scientifici. Ma sulla decisione di dar vita a un complesso e ambizioso progetto come questo hanno contato anche le nuove proposte metodologiche della critica letteraria italiana, sorte dagli anni Cinquanta in avanti, le quali si sono intrecciate con le personali riflessioni di Marti in questo campo. A tale proposito, non si possono non citare le proposte di illustri italianisti come Carlo Dionisotti che nel 1951, sulla rivista «Italian Studies» e poi nel 1967 in volume miscellaneo, recante quello stesso titolo, presso Einaudi, pubblicò un saggio intitolato Geografia e storia della letteratura italiana, e come Walter Binni e Natalino Sapegno, che nel 1968 pubblicarono con l’editore Sansoni di Firenze il volume Storia letteraria delle regioni d’Italia. Nel 1970 si svolse poi a Bari e Foggia un importante Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di Lingua e Letteratura italiana (AISLLI) dedicato proprio al tema Culture regionali e letteratura nazionale, che probabilmente convinse definitivamente Marti della necessità di questa operazione. Ne annunziava la nascita egli stesso nel 1978 in un articolo in cui, facendo riferimento alla situazione politico-amministrativa della nazione, scriveva fra l’altro:
Da tempo nella cultura letteraria italiana, e non soltanto letteraria, è ritornata in grande onore la “provincia”. La nuova Costituzione italiana con il suo ordinamento regionale; i risvolti neo-realistici della più impegnata narrativa e saggistica col recupero della tematica locale nel quadro delle vicende nazionali; la problematica fitta e continua dell’attuazione politica e amministrativa delle Regioni nel suo ininterrotto giuoco d’interessi e di competenze fra potere centrale e potere periferico; e ancora l’affrancamento e l’esaltazione della cultura cosiddetta subalterna e il tramonto del concetto di letteratura “dialettale” come letteratura “minore”; sono alcune delle ragioni insieme letterarie e politiche, che hanno ravvivato anche nel campo dell’attività più strettamente accademica, per tradizione piuttosto restia a diverso genere d’indagini, la sollecitudine per le culture locali. E non tanto “locali” in sé e chiuse nelle loro gelose e tipiche forme – atteggiamento angusto almeno così come astratto quello dell’attendere esclusivamente all’indicazione accademica – quanto piuttosto considerate dinamicamente nella loro funzione dialettica di spinta e insieme di conservazione nei riguardi della letteratura nazionale; e viste come centri vitali e fresche sorgive d’interessi che investono poi subito ogni sorta di legami, reciproci e vicendevoli, con zone più ampie, fino alla nazione e oltre. Dalla periferia al centro, si direbbe, e dal centro alla periferia, la tematica e la problematica locale, sotto ogni cielo, da quello della politica a quello della lingua, non può astrarre dalla nazionale e magari dalla sovranazionale; e vale naturalmente anche il viceversa, in un impasto dialettico di dare e di avere, dal quale è segnata infine la storia. I mass-media, anche sotto il profilo sociale, sono ormai quotidianamente (stampa, radio e televisione “provinciali”) il tessuto connettivo di siffatta realtà e insieme il documento e la testimonianza della loro funzione mediatrice[5].
Nelle sue intenzioni, lo scopo di questa collana era quello di «rifondare» la cultura salentina, cioè di ricostruire per la prima volta, con metodi e rigore scientifici, la storia culturale di una regione mettendola costantemente in rapporto con quella nazionale in una concezione policentrica della storia della letteratura italiana. Ogni titolo, di notevole impegno per i curatori, prevedeva un’ampia introduzione, una nota biobibliografica e filologica, la pubblicazione dei testi in versione integrale, annotazioni e indicazioni di vario genere (filologiche, esegetiche, linguistiche, onomastiche).Ovviamente, proprio per questi suoi scopi e questa impostazione, la collana non poteva essere lasciata all’improvvisazione e al caso. E infatti Marti, con i suoi collaboratori, fin dall’inizio aveva fissato un programma preciso di essa che espose con la consueta chiarezza in un articolo di qualche anno dopo:
Furono fissate come generale programma due serie composte di dodici volumi ciascuna, le quali non travalicassero il limite cronologico della prima guerra mondiale, per ovvie ragioni: dagli anni venti in poi infatti, penetrando nel vivo della contemporaneità, il processo di storicizzazione sarebbe stato impossibile, privo dell’indispensabile filtro della prospettiva culturale e del tempo. I previsti ventiquattro volumi, alcuni dei quali divisi in tomi o con possibilità che lo siano divisi, comprendono poeti e letterati, come i lirici salentini dell’epoca barocca, i narratori salentini dell’Ottocento, i poeti e prosatori salentini fra Otto e Novecento, e così via; pensatori e trattatisti, come gli illuministi e i riformatori salentini, i filosofi salentini del Rinascimento, e così via; gli scrittori di teatro, i memorialisti, gli scienziati, particolarmente dal Settecento in poi, la letteratura dialettale. Volumi sono anche messi in conto per una silloge di testimonianze giornalistiche e per una silloge di testimonianze demologiche. E volumi monografici dovrebbero essere dedicati a figure eminenti: a Roberto Caracciolo, al Galateo, a Scipione Ammirato, ad Ascanio Grandi[6].
Per questa collezione, oltre a seguire da vicino tutti i volumi, Marti ne curò direttamente quattro. Il primo, pubblicato appunto nel 1977, era l’edizione delle Opere di Rogeri de Pacienza, di Nardò, e precisamente Lo Balzino, un poema quattrocentesco in ottave che narra la vita di Isabella Del Balzo dalla nascita fino al trionfo regale del 13 febbraio 1498, e il Triunfo, in lode sempre di Isabella. Così lo studioso, nello stesso articolo, descriveva queste due opere non nascondendo il suo entusiasmo:
Sono otto canti; ma particolarmente suggestivi appaiono i canti centrali ‒ dal terzo al sesto contenenti le sventure di Isabella e poi il suo trionfale viaggio da Lecce verso Napoli. A prescindere dalla piacevolissima lettura dalla narrazione di tono semipopolare o semidotto, ma tutta storicamente esatta, durante la quale si svolge un processo agiografico nei riguardi dell’amatissima e ammiratissima regina, colpiscono lo studioso i meravigliosi inserti di documenti letterari e di documenti di costume dei quali la regina è destinataria durante il suo viaggio. Roba ghiotta per i letterati, per gli studiosi delle tradizioni popolari, per gli storici della cultura, per gli antropologi. E anche per i linguisti, dal momento che vi si leggono due inserti in lingua francese salentinizzata (siamo alla fine del sec. XV) e uno in lingua serbo-croata, che ha costretto gli storici di questa lingua a precisazioni e retrodatazioni impensabili prima della sua pubblicazione. Inoltre, tutto il poema chiede un suo posto nel panorama narrativo semipopolare fra Quattro e Cinquecento, non poi così ricco. Il Triunfo denuncia anch’esso la limitatezza della statura poetica di Rogeri (una “visione d’Isabella bella e buona circondata da eroine belle e buone d’epoca antica e recente”) nella fattura delle terzine, nel linguaggio, nell’erudizione troppo evidentemente d’accatto e di seconda mano; ma si pone anche come tappa di una fortuna (Petrarca, Boccaccio), come diffusione di un particolare “genere” finora non troppo studiato, e come frutto di una tensione umanistica e culturale d’epoca operante, nell’Italia meridionale e nel Salento, anche in fasce sociali perfino insospettabili[7].
Nel 1985 poi pubblicò il volume L’Oronte Gigante di Antonino Lenio da Parabita, con in appendice la Bradamante gelosa di Secondo Tarantino. L’Oronte Gigante, stampato a Venezia nel 1531, è un poema che si colloca nel genere della narrativa epico-cavalleresca in ottave ed è ‒ si legge nel risvolto di copertina ‒ «un tipico esemplare di quell’arte minore che, sfuggendo ad ogni buona intenzione e ad ogni compromesso di carattere estetico, si risolve positivamente in una sorta di crocevia della cultura contemporanea».
Successivamente, nella “Biblioteca di Scrittori Salentini” dell’editore Congedo di Galatina, che aveva preso il posto della vecchia “Biblioteca” di Milella ma sostanzialmente la proseguiva con criteri immutati, curò nel 1992 gli Scrittori salentini di pietà fra Cinque e Settecento, con una Introduzione di Bruno Pellegrino. Il volume comprendeva testi di vari autori (Fulgenzio Gemma, Francesco da Seclì, Giovanni Azzolini, Diego da Lequile e altri) che testimoniano, come è scritto in quarta di copertina, «il forte nesso che lega la individua coscienza letteraria al sentimento del tempo e ai problemi della spiritualità e della “pietà” che la muovono dal profondo». Infine, nel 1994, curò il volume sul Settecento della Letteratura dialettale salentina, in cui per la prima volta dava un’organica sistemazione alla letteratura dialettale riflessa di area salentina, pubblicando, sempre secondo rigorosi criteri filologici, i primi esemplari di questa misconosciuta produzione: il Viaggio di Leuche (1691-’92) di Geronimo Marciano, La rassa a bute (1730 circa), Nniccu Furcedda (1730 circa) di Girolamo Bax e La Juneide (1770-’71), di Anonimo Leccese, oltre alle Poesie varie, di occasione o provenienti da Accademie.
Alla fine uscirono complessivamente diciannove volumi: nove nella “Biblioteca Salentina di cultura” di Milella e dieci nella “Biblioteca di Scrittori Salentini” dell’editore Congedo, per complessivi ventidue tomi. C’è da aggiungere che Marti aveva prevista una seconda e addirittura una terza serie della “Biblioteca di Scrittori Salentini”, come si evince dalle due lettere pubblicate in Appendice a questo intervento, inviate allo scrivente che era stato coinvolto, insieme ad altri studiosi, nella redazione. Tutto però rimase nelle intenzioni dello studioso anche a causa delle vicissitudini della Fondazione bancaria che finanziava i volumi.
Marti portò avanti questo progetto alla sua maniera, con generosa determinazione, con assoluta convinzione, con cieca fiducia, ma forse bisogna onestamente riconoscere che non tutti gli obiettivi prefissati, tra i quali, in primo luogo, quello di imporre all’attenzione nazionale questi testi e questi autori vennero raggiunti, per vari motivi che qui sarebbe troppo lungo elencare, ma forse soprattutto perché i tempi stavano rapidamente cambiando. La Nazione, insomma, se vogliamo dirla tutta, non sempre dimostrò di apprezzare questo dono, questa offerta generosa da parte della Regione, nonostante l’indubbia autorevolezza del fondatore e direttore della collezione e l’impostazione scientificamente rigorosa di essa.
Ma se la “Biblioteca” è stata senza dubbio il contributo più importante in questo campo, Marti, nel corso della sua attività (e anche qui, possiamo dire per essere più precisi, dalla fine degli anni Settanta in avanti), ha affrontato anche numerosi altri argomenti salentini in campo letterario. E, sorprendentemente, si tratta in massima parte di autori novecenteschi, come vedremo. Ho detto sorprendentemente, perché Marti, com’è noto, nutriva una certa diffidenza per certe espressioni della Modernità letteraria, soprattutto per quelle di tipo più sperimentale, anche se comunque ha sempre seguito con attenzione le vicende della letteratura novecentesca, come ebbe a scrivere in una occasione all’autore di questo articolo[8].
Marti dunque si è occupato dei massimi esponenti della letteratura salentina contemporanea, in dialetto e in lingua, usando sempre, anche in questo caso, un criterio rigorosamente selettivo. Per quanto riguarda i “dialettali”, forse gli autori che preferiva, occorre dire che Marti, insieme a Donato Valli e Oreste Macrì, ha avuto il merito di scoprire e valorizzare i due maggiori poeti in dialetto salentino del secolo passato, Nicola G. De Donno e Pietro Gatti, i quali, non a caso, sono i soli che compaiono nelle principali antologie della poesia dialettale italiana, quella curata da Giacinto Spagnoletti[9], dove figurano entrambi, insieme a un altro salentino, Erminio G. Caputo, e l’altra a cura di Franco Brevini[10], nella quale c’è solo Gatti.
I suoi primi interventi in questo specifico settore risalgono alla fine degli anni Settanta-primi anni Ottanta, quando si assisteva a un vero e proprio revival della poesia in dialetto in campo nazionale che veniva apprezzata e ‘riscoperta’ anche di fronte alla crisi, all’impasse della coeva poesia in lingua. Ovviamente, è superfluo aggiungere che né in questi né in altri studi dedicati ad autori salentini c’è in Marti un’intenzione o un atteggiamento di tipo provincialistico e meno che mai campanilistico.
Al poeta magliese Nicola G. De Donno Marti dedica vari saggi e interventi, presentazioni, recensioni. Intanto, nel 1979, dopo l’apparizione della sua raccolta Paese, gli scrive una lunga lettera che De Donno pubblicherà quello stesso anno su «La Rassegna salentina». Poi, nel 1981, dà alle stampe un saggio dal titolo Un parere sulla poesia in dialetto di Nicola G. De Donno, mentre, nel 1987, gli presenta la raccolta La guerra guerra e infine recensisce ancora altre opere come Lu senzu della vita (1992) e Lu Nicola va alla guerra (1994), entrambe edite da Scheiwiller.
Ma qual è il De Donno che Marti sembra apprezzare di più? Ecco, non è né il poeta satirico-polemico del primo libro, Cronache e paràbbule (1972) e di altre plaquettes consimili, quello cioè che se la prende con i politici locali, con le autorità, con i ministri della pubblica istruzione, né il poeta-filosofo delle ultime raccolte, Palore (1993) e Filosofannu? (2002), sulle quali, non a caso, si astiene dall’intervenire con articoli o recensioni, ma il De Donno legato al «paese» che – a suo giudizio – è «la materia privilegiata»[11] della sua poesia, anche se – precisa – «il paese reale rinvia costantemente a un “metapaese”, a un “paese” destoricizzato o meta storicizzato, che è il vero bersaglio della satira e della condanna»[12], un paese insomma che diventa a un certo punto un vero e proprio «paese dell’anima»[13].
Negli stessi anni, come s’è detto, si rivelò l’altra notevole figura di poeta in dialetto del Salento, il cegliese Pietro Gatti, al quale Marti riserva ugualmente una costante attenzione. Incomincia nel 1980, scegliendolo, addirittura, per rendere omaggio al suo maestro, Raffaele Spongano, in occasione dei suoi settantacinque anni e quindi della sua ‘quiescenza’ accademica. Questo corposo studio sulla prima raccolta di Gatti, dal titolo A terre meje (1976), apparve infatti, in origine, negli Scritti in onore di Raffaele Spongano. Ma dopo prende in esame i successivi libri di poesia di Gatti, Memorie d’ajere i dde josce (1982) e ‘Nguna vite (1982), con due scritti successivamente compresi, col primo, nel suo volume Dalla Regione per la Nazione.
E se, nell’ultimo di questi saggi, Marti scriveva che le prime tre raccolte del poeta cegliese componevano «un trittico di tutto rispetto» e ancora che l’arte di Gatti era andata «raffinandosi e arricchendosi in essenzialità e potenza ed asciuttezza»[14], nel primo di essi indicava già con sicurezza la vera molla generatrice del suo canto nell’«irrefrenabile impulso verso le cose, gli uomini, le vicende, gli aspetti naturali delle “terra”, terra di contadini, terra di sempre»[15].
Negli ultimi anni è ritornato due volte su Gatti in occasione della edizione completa, in due volumi, delle sue poesie (Pietro Gatti poeta, San Cesario di Lecce, Manni, 2010), che ha accuratamente descritto nel primo intervento, confermando la sua interpretazione[16]. Nel secondo articolo, con la consueta acribia, ha messo in rilievo alcuni limiti di questa edizione e si è soffermato, in particolare, sugli Inediti che, a suo giudizio, rispecchiano «i vari tempi dell’operosità poetica di Gatti»[17], sottoponendoli a una strenua analisi tematica, metrica e linguistica.
Ma, per concludere questo discorso, non posso non accennare a uno studio che per la prima volta delineava lo svolgimento della poesia dialettale salentina, dal titolo appunto Nicola De Donno e Pietro Gatti: per una linea della poesia dialettale salentina (1984), che in origine era una relazione presentata al Convegno di studi su «La letteratura dialettale in Italia», svoltosi a Palermo nel 1980. Ebbene, qui Marti partiva dalle prime testimonianze di poesia dialettale riflessa nel Salento e poi soprattutto da Francesc’Antonio D’Amelio, l’iniziatore di questo genere, per arrivare a Giuseppe De Dominicis, il maggiore esponente tra ‘800 e ‘900, e poi ancora a Giuseppe Susanna, Agostino Chimienti, Francesco Marangi, Enrico Bozzi, Raffaele Pagliarulo, Oberdan Leone e gli altri più significativi, fino appunto a Gatti e De Donno, sui quali però rinviava agli altri suoi scritti. Nel 2005 infine tornò a occuparsi di De Dominicis (il Capitano Blak), in occasione di un Convegno di studi a lui dedicato, con un ampio e analitico studio sulla sua opera più famosa, i Canti de l’autra vita[18].
Accanto ai dialettali, Marti si è occupato anche di alcuni autori in lingua e in questo ambito spiccano gli studi sui due maggiori scrittori che può vantare il Salento nel Novecento, Girolamo Comi e Vittorio Bodini, due scrittori (non occorre ripeterlo) di assoluto livello nazionale e di respiro europeo. E proprio questi due poeti lo studioso, in un articolo sulla “Biblioteca salentina di cultura”, prendeva, non a caso, come esempio per impostare correttamente il problema dei rapporti fra culture regionali e cultura nazionale:
Dio mio; sembra un giuoco di parole, o una trappola sofistica per irretire gl’inermi. Veniamo allora al concreto storico; esemplifichiamo su personaggi noti al comune dei possibili lettori (quanti?) di queste pagine. Nessuno di loro vorrà negare che Girolamo Corni e Vittorio Bodini siano poeti “salentini”, e non soltanto per ragioni anagrafiche. Il loro modo di essere “salentini”, e la loro “salentinità”, è oggetto di studio, è insomma un’ipotesi di lavoro. Ma nessuno di loro vorrà negare che Corni e Bodini siano poeti italiani ed europei; e il loro modo di essere italiani ed europei è anch’esso oggetto di studio, anch’esso insomma un’ipotesi di lavoro Mi si perdoni il procedere per asserzioni apodittiche; ma almeno fin qui queste mi sembrano del tutto oggettive, estremamente lapalissiane. Sarebbe pazzesco fare allora un passo avanti, e dedurre che nel loro europeismo, nel loro alto e possente respiro europeo, si innalza e si sublima, viene innalzata e sublimata, la realtà del loro Salento (almeno come componente della loro poetica e della loro poesia), e che proprio il loro sentirsi europei, la loro “condizione” europea, si cali nella realtà di quello stesso loro Salento, permettendo loro di ricrearla, reinventandola nei modi che di ciascuno di loro sono ben peculiari, e che ciascuno di loro singolarmente caratterizzano? E non si tratta, sia chiaro, di momenti o di movimenti cronologicamente distinti o strutturalmente diversi, ma di un solo moto creativo, per il quale Corni e Bodini sono europei per il Salento e sono salentini per l’Europa. [19].
Incominciamo allora da Comi, al quale Marti ha dedicato quattro studi, che vanno dal 1977 al 1999, raccolti in un opuscolo dal titolo Comi poeta dell’amore[20]. Il primo di questi studi, Comi: notizie e problemi di un’edizione (1977), è un’accurata e analitica recensione dell’Opera poetica di Comi curata da Donato Valli nel 1977 per l’editore Longo di Ravenna, ricca di osservazioni filologiche e critiche, come succede spesso con le sue recensioni che diventano contributi originali, veri e propri saggi.
Il secondo, Un modesto tributo d’anamnesi comiana, vent’anni dopo (1988) è uno scritto, almeno all’inizio, di carattere autobiografico, perché con Comi, come d’altra parte con il lucano Albino Pierro, con De Donno e Gatti, Marti ebbe un rapporto diretto di conoscenza e di amicizia. Egli infatti fece parte, com’è noto, dell’Accademia salentina, dove però – come afferma lui stesso – ebbe una posizione di “isolato”, in quanto i suoi interessi filologici contrastavano con quelli “creativi” di Comi e degli altri membri. Nella prima parte, dunque, come dicevo, lo studioso rievoca questo rapporto e la sua partecipazione all’Accademia salentina e all’«Albero», poi, nella seconda parte, entra nel merito della poesia di Comi e nota la compattezza della personalità del poeta ma anche la presenza di aritmie metriche che, a suo giudizio, sono segni di una vita che è anche disarmonia e contraddizione.
Questa ipotesi viene sviluppata nel terzo saggio, Girolamo Comi, la vita, la poesia (1998), nel quale, di contro alle interpretazioni più consolidate, che insistono sull’armonia cosmica di Comi e sulla celebrazione di essa, Marti parla invece di aspirazione, di tendenza, di ansia verso questa armonia, la quale nasce dalla sua inquietudine religiosa. Ma anche qui l’ipotesi del critico è formulata sulla base di un elemento tecnico-formale, l’irregolarità della metrica comiana. Nel quarto studio, infine, intitolato «Canto per Eva»: Girolamo Comi poeta d’amore (1999) esamina quello che, a suo giudizio, è il capolavoro del poeta, Canto per Eva (1958), che Marti privilegia rispetto alla sua raccolta forse più rappresentativa, Spirito d’armonia (1912-1952), apparsa nel 1954. Qui il tema dell’amore prende il posto di quello “cosmico”, che aveva caratterizzato tutta la fase precedente, ma l’amore diventa – precisa lo studioso – «viatico verso Dio e ansia di conoscenza del trascendente, mentre la grazia, la conoscenza, la bellezza della donna diventano soltanto un segno, un simbolo, una testimonianza di Lui»[21].
Ma passiamo ora a Bodini, su cui Marti, suo coetaneo (nacquero entrambi nel 1914), è intervenuto in più occasioni, dal 1980, anno di un memorabile Convegno di studi dedicato all’autore della Luna dei Borboni, fino al 2010, in cui si è occupato dell’edizione commentata della raccolta Metamor, curata da Antonio Mangione[22]. Pur essendo lontano da lui per sensibilità, formazione, esperienze biografiche e culturali, Marti ha cercato ripetutamente di penetrare nel complesso mondo dello scrittore leccese, non riuscendo però sempre, a mio avviso, a entrare in sintonia con esso.
Sarebbe lungo ora ripercorrere tutte le tappe della sua interpretazione. Dirò soltanto che essa è basata, come egli stesso affermò in un suo intervento, sull’individuazione dell’«ulissismo» come «chiave centrale per comprendere tutto Bodini, la sua vita, la sua cultura e la sua poesia»[23]. In ogni caso, Marti ha privilegiato la poesia della Luna dei Borboni rispetto a quella di Metamor, verso la quale ha manifestato apertamente le sue riserve. Ma forse qui, ancora più di quelle esegetiche, sono notevoli le osservazioni di Marti sul piano filologico. Ricordo, ad esempio, quelle relative all’edizione mondadoriana delle Poesie di Bodini del 1972, curata da Oreste Macrì, le quali vennero fatte proprie, almeno in parte, dallo stesso Macrì allorché nel 1983 curò l’edizione di Tutte le poesie negli Oscar Mondadori.
Oltre che di Comi e Bodini, Marti si è occupato di altri letterati salentini del Novecento col consueto rigore filologico e critico e con l’animo e l’abito mentale dello “storico” piuttosto che del “militante”, tanto per riprendere due termini da lui usati in un saggio su Macrì, nel quale invece, a suo giudizio, sullo storico prevale il «fervido e attivo militante […] furiosamente impegnato in prima linea, all’attacco, o in trincea, in difesa»[24]. Vediamo ora rapidamente qualche esempio.
Per quanto riguarda Vittorio Pagano, Marti mette in rilievo lo stretto rapporto esistente tra l’attività di poeta e quella di traduttore, al punto che egli – sostiene – è «traduttore anche quando crea, e magari poeta autentico quando invece traduce»[25]. Nel saggio su Salvatore Toma invece sottolinea il «falso storico» e l’«inganno ideologico»[26] costituito dal Canzoniere della morte, raccolta apparsa presso Einaudi nel 1999 a cura di Maria Corti, ma che Toma non ha mai composto. E quindi fa notare le aporie filologiche e ermeneutiche che ne derivano, giungendo alla fine, in tal modo, a una più obiettiva valutazione di questa poesia, di contro a facili e acritiche esaltazioni. Ancora, di Francesco Politi, germanista e poeta, esamina l’Orazio vivo, in cui l’autore ci offre una «metamorfosi stilistica attualizzante»[27], cioè una traduzione assai libera e inventiva che cerca di rendere attuale la poesia di Orazio attraverso la lingua, lo stile, la versificazione e che quindi cerca di reinventarla.
In uno dei suoi ultimi interventi pubblici, nel 2010, alla bella età di novantasei anni, Marti si occupò anche di Michele Saponaro, tenendo una relazione in occasione di un Convegno di studi, dal titolo Michele Saponaro cinquant’anni dopo, organizzato dallo scrivente. In particolare, Marti si soffermò su una delle più note biografie di Saponaro, quella appunto su Giacomo Leopardi, giudicandola ancora, a distanza di quasi settant’anni dalla sua pubblicazione, «gustosa e ancora piacevolmente leggibile».
Ma a proposito della sua disposizione da “storico”, la prova maggiore offerta da Marti, per quanto riguarda il Novecento, è costituita forse dal lungo e impegnativo capitolo sulla Cultura, apparso nel terzo volume, curato da Mariella Rizzo, della laterziana Storia di Lecce, diretta da Bruno Pellegrino, dal titolo Dall’Unità al secondo dopoguerra (1992). In questo saggio egli tracciava un panorama completo della vita culturale a Lecce dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del Novecento, non trascurando alcun elemento che potesse in qualche modo illuminarla: dallo sviluppo urbanistico della città alle istituzioni culturali, dalla pubblicistica alla fioritura di studi giuridici, economici, scientifici, oltre che alla produzione letteraria, in lingua e in dialetto, con i principali esponenti e le riviste più significative.
Infine,
per completare il quadro degli interessi “salentini” di Marti vorrei citare almeno
i titoli dei cinque volumi nei quali raccolse gli innumerevoli studi, saggi,
articoli, interventi che andava pubblicando su riviste specialistiche, ma anche
su periodici vari, settimanali e quotidiani: Occasioni salentine (1986), Dalla
Regione per la Nazione (1987), Storie
e memorie del mio Salento (1999), Soleto
in grico e altra salentineria (2001), Salento,
quarto tempo (2007). Non erano solo scritti di carattere letterario,
dedicati ad autori antichi e moderni (quasi tutti quelli citati nel presente
intervento sono confluiti poi in questi volumi), ma anche di carattere
storico-culturale, artistico, linguistico, antropologico, e ancora di natura
memoriale, autobiografica, rievocativi di vicende e personaggi. Ecco, anche questa
imponente produzione, di vario genere, testimonia, se ce ne fosse ancora
bisogno, la passione di Marti per la “piccola patria”, per il “suo” Salento.
[1] Cfr. Bibliografia diacronica e tematica degli scritti di Mario Marti, in M. Marti, Ultimi contributi dal certo al vero, Galatina, Congedo, 1995, pp. 255-316 e la continuazione per gli anni 1995-2005, nell’altro suo vol., Da Dante a Croce proposte consensi dissensi, Galatina, Congedo, 2005, pp. 175-181. A questi volumi si rimanda per indicazioni bibliografiche più dettagliate degli studi di Marti citati nel corso del presente articolo.
[2] Cfr. M. Marti, Opere di Alberico Longo nel cod. vat. 9948, in «L’Albero», n. 34-35, 1960, pp. 56-64.
[3] Cfr. Id., Per Giuseppe Buttazzo, sconosciuto rimatore salentino del primo Novecento, in «Rassegna Pugliese», I, 1966, pp. 756-772.
[4] Cfr. Id., Il difficile punto sulla “B. S. S.”: proposte e prospettive, in Soleto in grico e altra salentineria, Nardò, Besa Editrice, 2001, pp. 67-77. Ma su questo argomento Marti è intervenuto anche altre volte per presentare la collana e per farne il punto. Cfr. È nata una Biblioteca Salentina di cultura, in «Apulia». Rassegna della Banca Agricola di Matino, IV, 1978, p. 76; La “Biblioteca Salentina di cultura”, in «Apulia». Rassegna della Banca Agricola di Matino, VII, n. 2, 1981, pp. 53-60; La “Biblioteca Salentina di cultura”, in «Panorama salentino». Periodico di politica e letteratura, I, n.1, 1985, p. 20
[5] Id., È nata una Biblioteca Salentina di cultura, cit. , p. 76.
[6] Id., La “Biblioteca Salentina di cultura”, cit., p. 55.
[7] Ivi, p. 56.
[8] Cfr. A.L. Giannone, Il Novecento di Mario Marti, in Una vita per la letteratura. A Mario Marti Colleghi ed amici per i suoi cento anni, a cura di M. Spedicato e M. Leone, Lecce, Edizioni Grifo, 2014, pp. 213-221, ora in Id. Sentieri nascosti. Studi sulla Letteratura italiana dell’Otto-Novecento, Lecce, Milella, 2016, pp. 181-194.
[9] Cfr G. Spagnoletti, a cura di, Poesia dialettale dal Rinascimento a oggi,Milano, Garzanti, 1991.
[10] Cfr F. Brevini, a cura di, La poesia in dialetto: storia e testi dalle origini al Novecento,Milano. Mondadori, 1999.
[11] M. Marti, Un parere sulla poesia in dialetto di Nicola G. De Donno, in Id., Dalla Regione per la Nazione, Napoli, Morano, 1987, p. 376.
[12] Ivi, p. 378.
[13] Ivi, p. 382.
[14] Id., L’ultimo Gatti: «Nguna vite», in Dalla Regione per la Nazione, cit., p. 372.
[15] Id., La poesia di Pietro Gatti: lettera a Raffaele Spongano per i suoi settantacinque anni, ivi, p. 349.
[16] Ora in M. Marti, Il trilinguismo delle lettere ‘italiane’ e altri studi d’Italianistica, a cura di M. Leone, Galatina, Congedo, 2012, pp. 107-124.
[17] Ivi, p. 118.
[18] Id., «Pietru Lau»: ricognizione critica e proposta di ipotesi, in Giuseppe De Dominicis e la poesia dialettale tra ‘800 e ‘900, a cura di G. Rizzo, Galatina, Congedo, 2005, pp. 51-69; poi col titolo Ipotesi sul «Pietro Lao» di Giuseppe De Dominicis, in M. Marti, Salento, quarto tempo, Galatina, Edizioni Panico, 2007, pp. 23-43.
[19] Id., La “Biblioteca Salentina di cultura”, cit., p. 53.
[20] Id., Comi poeta dell’amore (quattro studi), «Presenza Taurisanese», Galatina, Editrice Salentina, settembre 1999.
[21] Ivi, p. 40.
[22] Questo intervento si può leggere ora in Id., Il trilinguismo delle lettere ‘italiane’ e altri studi d’Italianistica, cit., pp. 101-106.
[23] Id., I fiori e le spade di Vittorio Bodini (a proposito di un’edizione degli “Scritti civili”), in Dalla Regione per la Nazione, cit., p. 319.
[24] Id., Il Salento letterario di Oreste Macrì (a proposito di un libro di A. Macrì Tronci), in Salento, quarto tempo, cit., p. 53.
[25] Id., Ipotesi per Vittorio Pagano, in Storie e memorie del mio Salento, Galatina, Congedo, 1999, p. 210.
[26] Id., Salvatore Toma poeta: un Canzoniere inventato da Maria Corti, in Da Dante a Croce proposte consensi dissensi, cit., p. 140.
[27] Id., L’«Orazio vivo» di Francesco Politi: una metamorfosi attualizzante, in Su Dante e il suo tempo con altri scritti di italianistica, Galatina, Congedo, 2009, p. 116.
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Appendice
Le due lettere inedite di Mario Marti, che qui si pubblicano, risalgono rispettivamente al 13 luglio 1997 e al febbraio dell’anno successivo e vennero inviate, in copia, allo scrivente e agli altri studiosi che erano stati invitati a far parte della redazione della “Biblioteca di Scrittori Salentini” in vista degli sviluppi auspicati dal suo fondatore e direttore. Sono entrambe dattiloscritte, con firma autografa: la prima di due facciate, la seconda di una. A distanza di vent’anni dall’uscita del primo titolo, le Opere di Rogeri de Pacienza di Nardò, da lui stesso curato, della “Biblioteca salentina di cultura” pubblicata dall’editore Milella di Lecce, e quasi alla fine della prima serie della collezione edita da Congedo di Galatina, che continuava la precedente, Marti, nonostante l’età avanzata (aveva ormai 83 anni), non aveva perso l’entusiasmo né la fiducia in questo ambizioso progetto che anzi voleva rilanciare e incrementare con una seconda e addirittura una terza serie. Per questo aveva deciso di ampliare il gruppo dei redattori e ai primi, “storici”, Antonio Mangione, Gino Rizzo e Donato Valli, ai quali si era unito Giovanni Papuli, docente di Storia della filosofia presso l’Università di Lecce, aveva pensato di aggiungere forze più giovani e precisamente: Fabio D’Astore, allievo di Rizzo, Domenico Fazio, allievo di Papuli, e lo scrivente, allievo di Valli. Non erano ancora insorte quelle difficoltà di natura economica, dovute alle vicende della Fondazione bancaria che finanziava i volumi, e la navigazione per la collana sembrava ancora abbastanza tranquilla e senza problemi. Marti quindi, con queste lettere, voleva fare il punto sullo stato dei lavori della prima serie, che avevano quasi toccato il traguardo e programmare quella successiva. Nella prima lettera, perciò, chiedeva ai redattori vecchi e nuovi di avere «uno scambio di idee […] per riconfermare gli aspetti positivi, rilevare, eventualmente, i negativi e fondare le basi del prosieguo». A tale scopo faceva una serie di osservazioni, di proposte e di ipotesi riguardanti l’impostazione della collana, la struttura interna dei volumi, le scelte degli autori da pubblicare, che dovevano essere discusse in una riunione appositamente convocata. Al tempo stesso, invitava i redattori a scegliere un autore o una silloge per un volume da curare per la seconda serie. La seconda lettera invece, nella quale si prendeva sostanzialmente atto dei risultati della riunione tenutasi il 16 dicembre 1987 in casa di Antonio Mangione, e di cui resta anche un verbale redatto da Donato Valli, è un puro elenco degli undici volumi previsti nella seconda serie e un abbozzo di quelli da pubblicare in una eventuale terza serie, con qualche indicazione per l’affidamento di alcuni di essi. Ciò che colpisce maggiormente, in queste due missive, al di là delle scelte degli autori e dei testi, è l’estrema attenzione che Marti continuava a rivolgere a questa sua “creatura”, per la quale immaginava ancora una lunga vita, con l’obiettivo finale di ricostruire integralmente la storia culturale di una regione e restituire ad essa una sua dignità anche in questo campo. (A.L. G,)
Due lettere inedite di Mario Marti sulla Biblioteca di Scrittori Salentini
I
Lecce, 13 luglio 1997
Cari amici collaboratori della “Biblioteca”,
Non mi date del “rompiballe, vi prego, se vengo a voi con la presente, che da tanto tempo avevo in animo di mandarvi (ve la promisi nientemeno che nell’ultimo nostro incontro), ora che di solito ci si dedica al meritato riposo. Ma è proprio per questo, che ho ritenuto il momento particolarmente opportuno; perché, diminuita la tensione per le gravi occupazioni quotidiane, forse siete più benevolmente disposti a problemi d’altro genere (e sia pure della stessa natura), sui quali riflettere un po’senza fretta, con serenità e a tutt’agio. Sapete bene che saranno da affrontare alcuni problemi organizzativi e strutturali, ora che ci è stata autorevolmente assicurata la prosecuzione della nostra iniziativa dopo gli avvenimenti che potevano anche far temere sulle sorti della “Fondazione”. I più “vecchi” di voi (Valli, Mangione, Rizzo; in parte Papuli) ricorderanno il lavoro che fu necessario e le molte e difficoltose ricerche, per impostare in modo non troppo inadeguato la nostra collezione salentina. Tuttavia essi ricorderanno anche a mano a mano che l’operazione prendeva corpo, e anche grazie agli interessi, e talora agli entusiasmi, che ebbe a suscitare direttamente e indirettamente (e dobbiamo essere, senza alcuna retorica, fieri ed orgogliosi di tutto ciò che è venuto crescendo intorno a noi e anche, in grazia nostra, nella cultura “locale”-nazionale), e sempre di più col passare degli anni; ricorderanno anche – dicevo ‒ che furono necessarie alcune correzioni e anche alcuni correttivi (cambio dell’editore), che si erano rivelati necessari solo strada facendo. Ora che siamo alla soglia del ventesimo volume, e che sta per essere conclusa, per così dire, la prima serie degli interventi già assegnati ai vari collaboratori, redattori e non redattori (Esposito, Mordenti, Raimondi, Capucci), si impone uno scambio di idee soprattutto fra noi della redazione, per riconfermare gli aspetti positivi, rilevare, eventualmente, i negativi e fondare le basi del prosieguo. Eccovi, qui di seguito, osservazioni, proposte e quesiti, rifletteteci su un momento, fate qualche ricerchina, in modo da essere pronti al necessario scambio di idee alla prossima riunione (che dovrebbe essere entro ottobre-novembre).
- Stato attuale dei lavori. Lo conoscete bene. Se ce ne fosse bisogno, potreste dare uno sguardo alle ultime due pagine dell’ultimo volume di Valli. Ivi troverete l’elenco dei 9 volumi pubblicati da Milella; la prima serie di quelli pubblicati da Congedo, e la supposta seconda serie di “Seguiranno”. Sapete che presto uscirà il Grandi di Mangione (due tomi), cui farà sicuro seguito l’ultimo volume di Valli dialettale (Ottocento). Dovrebbero seguire i Trattatisti di Papuli e l’Ammirato di Capucci, nell’ordine. Dopo di che è tutto da costruire.
- Possibilità alternativa. Ferma restando la serie pubblicata da Milella (9 voll. di “Biblioteca Sal. di Cult.”), la prima serie pubblicata da Congedo (“Bibl. di Scritt. Sal.”) è composta di 11 volumi (ma erano 10 in partenza). Chiudere questa “prima serie” con gli 11 volumi pubblicati e previsti e formularne una “seconda” anch’essa di 11 volumi (poi una “terza” e così via)? Questo ci permetterebbe di fissare tappe non molto lontane l’una dall’altra e dunque una maggiore possibilità di movimento.
- Altra possibilità alternativa. Fermi restando i 9 volumi della serie “Milella” (BSC), considerare i volumi finora pubblicati da Congedo non in serie chiusa di 11 volumi ciascuna, ma in unica serie continuativa, che andrebbe da Vanini fino all’Ammirato, e via via di altri volumi che saranno previsti. I quali saranno numerati di seguito, secondo l’ordine di pubblicazione.
- La struttura interna dei singoli volumi finora osservata può essere giudicata soddisfacente? Oppure qualcuno ha delle proposte di miglioramento? Ritenete, ad esempio, che debba essere aggiunto un indice dei nomi (oltre alle “Indicazioni onomastiche” dei testi) relativo al talora ricchissimo corredo critico (intr., bibl., note)? Infatti le “Indicazioni onomastiche” offrono la conoscenza dei nomi ricordati nei testi; non di quelli, per esempio, di eventuali studiosi ecc. ricordati nelle parti critiche.
- Giunti all’ultimo volume dell’Ammirato (già assegnato e in preparazione), quali altri autori inserire nella “Biblioteca”? Le ipotesi sono, mi pare, tre: a) volumi monografici; b) silloge di scrittori d’analogo interesse (per es., trattatisti, scrittori di cronache ecc.); c) antologie mirate, ma unitarie (a pezzi serrati).
- Che fare con gli scrittori in latino? Finora ce la siamo cavata col solo Vanini (ora presto, forse, ci saranno in latino anche i trattatisti di Papuli, penso). Io credo che non si possano lasciar fuori scrittori come Galateo, Corrado, Cicala ecc, per il fatto che essi scrivono in latino. Pensate che si possano dare solo le traduzioni? in una collezione come la nostra?
- Segnare comunque un limite al numero dei volumi da preparare e stampare in “Biblioteca”; oppure lasciare libertà al tempo, alle possibilità e ai collaboratori?
- Ognuno dei redattori (Valli, Mangione, Rizzo, Papuli, Giannone, Fazio, D’Astore, escluso il sottoscritto che non è più in grado di fare delle ricerche faticose) scelga un suo autore, oppure una silloge, fra quelli e quelle che saranno infine approvati dalla redazione, assumendosi l’impegno di preparare il volume nei tempi che saranno concordati.
Riflettete un po’ su quanto finora ho scritto. Se avete altre idee, prendete degli appunti, o delle proposte o dei suggerimenti ecc. Nella prossima riunione si discuterà insieme, nella speranza di giungere a buoni risultati.
Vi saluto tutti affettuosamente e vi ringrazio.
Mario Marti
II
[s. l., s. d., ma Lecce, febbraio 1998]
Biblioteca di Scrittori Salentini
II serie di volumi
Sono stati pubblicati finora:
9 volumi con Milella (“Bibl. Salent. di cultura”); 10 tomi con Congedo (“Bibl. Scr. Salent.”) complessivamente 19 tomi. Seguiranno nell’ordine (speriamo!):Valli, Dialettali Ottocento; Capucci, Ammirato, due tomi; Papuli, trattatisti sec. XVI. Con l’augurio di dare seguito con la “Seconda Serie”. Eccole, dopo qualche correzione (sulla precedente bozza) suggerita dal Comitato il 13 sera (febbraio 1998).
II. 1. Apologie secentesche della Lecce barocca.
(Il volume documenterà la consapevolezza che ebbero i letterati di quel tempo, di vivere un’irripetibile civiltà. Scardino, Angiulli, J. A. Ferrari, Infantino ecc.)
II. 2. Bonaventura Morone, Opere.
II. 3. Cataldantonio Mannarino, Opere.
II. 4. S. Castromediano e i memorialisti dell’Ottocento.
(Memorie e altro di Castromediano; Braico; Gioacchino Toma; Massari; ecc)
II. 5. Letteratura minore del Salento dopo l’Unità
(Attisani Vernaleone, Lupo Maggiorelli, L. Paladini, Barbaro Forleo ecc.; e anche prosatori,
bozzettisti, ecc.)
II. 6. Letteratura salentina tardo umanistica
(Poemi in latino e lirica latina tra Sei e Settecento)
II. 7. Linea della storiografia letteraria (culturale?) salentina
(Il volume dovrebbe contenere la migliore letteratura, per es., sui fatti d’Otranto; pagine da
Bonav. Da Lama, dal De Angelis, la Vita del Sannazzaro di Crispo, ecc. Ma il volume non
dovrebbe oltrepassare il primissimo Ottocento.)
II. 8. Giuristi ed economisti nel Salento.
(Da Pisanelli a Grassi, a De Pietro, Calasso ecc.; De Viti De Marco.
II. 9. Cronache di Lecce
(Quelle di Laporta, tanto per intenderci, integrate).
II. 10. Area antropologica salentina: la letteratura popolare
(in italiano, in dialetto, in grico).
II. 11. Area antropologia salentina: Vincenzo Corrado e l’arte della cucina.
(Opere del Corrado, ed, eventualmente, dintorni e contorni).
Si chiuderebbe così la seconda serie di 11 volumi, come la prima. Ai quali potrebbero seguire i sottosegnati:
III. 1. Antonio Caraccio, Opere.
III. 2. Medicina e scienza nella cultura del Salento (2 tomi)
III. 3. Poesia lirica nel Salento fra Cinque e Ottocento (in lingua)
III. 4. Epica controriformistica nel Salento (Caraccio ecc.)
III. 5. Antonio De Ferraris (Galateo), Opere.
III. 6. Scrittori salentini di teatro (2 tomi)
III. 7. Quinto Mario Corrado – Cesare Raho, Opere
III. 8. Francesco Giovanni Bernardino Cicala, Opere.
III. 9. Filosofi e trattatisti salentini fra XVII e XX secolo (2 tomi)
Resta inteso: II, 2 affidato a Rizzo; II, 3 alla dottoranda; II, 4 a D’Astore: II, 5 a Valli.
Cari saluti
M. Marti
[“L’Idomeneo” n. 27, 2019]