Come è stato osservato da A. Borriello nell’introduzione al numero monografico di aprile della rivista Esprit dedicato a questo tema (“Le populisme en débat”), manca ancora una storia intellettuale universale del populismo, soprattutto delle linee di continuità e di frattura che ne hanno contrassegnato le trasformazioni in relazione ai movimenti sociali e ai contesti geografici e politici ad esso sottesi. Tuttavia, per orientarci nella vastissima letteratura esistente ci serviremo anche questa volta di tre testi recenti. Il primo è di Nadia Urbinati, Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia (il Mulino 2020), il secondo di Carlo Formenti, Il socialismo è morto, viva il socialismo! Dalla disfatta socialista al momento populista (Meltemi 2019), il terzo di Federico Tarragoni, L’esprit démocratique du populisme (La Découverte 2019). La scelta di quest’ultimo testo si deve al fatto che l’autore, per quanto sociologo di professione, a differenza della maggior parte degli studiosi che indagano il fenomeno con strumenti politologici o sociologici, adotta un approccio filosofico rivolto a identificare i connotati ideologici specifici del populismo, per non dire la sua “essenza” concettuale. Ora, una data periodizzante nella storia del populismo è il 1989 con ciò che ne seguì: il collasso dell’URSS e la fine della Guerra Fredda. Come rileva Tarragoni, la caduta del socialismo reale ha favorito l’egemonia planetaria del neoliberalismo. Dopo quella data, nell’America latina abbiamo una prima fase, definita dei “neopopulismi”, i cui protagonisti sono leader che innescano una serie di riforme neoliberali al di fuori di ogni legittimità parlamentare, riducendo la libertà di stampa e reprimendo i movimenti sociali e politici di opposizione. In Messico C. Salinas de Gortari (1988-1994), che sigla l’accordo nord-americano di libero scambio, mette fine alla proprietà comune delle terre garantita dalla Costituzione e provoca una spaventosa crisi sociale nel 1994; in Perù A. Fujimori (1990-2000) applica all’economia nazionale una terapia d’urto di tipo liberista (il “Fujichoc”) e smantella le libertà costituzionali; in Argentina C. S. Menem (1989-1999), che porta avanti un programma di liberalizzazione forzata, precipita il Paese nella crisi del 2001. Lo stesso dicasi, in questi anni, dei leader neopopulisti del Brasile (F. Collor de Melo), dell’Ecuador (A. Bucaran), del Venezuela (C. A. Pérez), della Bolivia (G. S. de Lozada). Come reazione ai disastri prodotti dai regimi neopopulisti prende avvio, agli inizi degli anni 2000, una seconda fase della storia del populismo sudamericano, che è stata chiamata l’”onda rosa”, durata una quindicina d’anni, in cui dei movimenti popolari di sinistra arrivano al potere con capipopolo come U. Chavez, E. Morales e Lula da Silva. Per comprendere la peculiarità di questi regimi Pierre Ostiguy, nel numero di Esprit sopra menzionato, invita a interpretare il populismo, più che come uno “stile” di comportamento da showmen dei suoi leader (peraltro, un tratto comune a tutte le varianti di populismo), come espressione di una frattura socio-culturale tra l’ambiente popolare locale (ciò che è “basso”) e ciò che viene definito come “altro” (qui l’oligarchia vicina allo straniero e la classe media bianca, in Europa saranno gli immigrati, i mussulmani o l’establishement). La tesi di Ostiguy è ancor più interessante se la mettiamo a confronto con le letture della Urbinati e di Formenti. I governi populisti dell’”onda rosa” dell’America latina sono stati l’equivalente della sinistra europea nell’epoca dei “trent’anni gloriosi”, quando nei paesi europei del secondo dopoguerra fu costruito il welfare State. E, aggiunge Ostiguy, a quest’impresa parteciparono, sia pure da sponde diverse, partiti socialisti e partiti cattolici: caso esemplare l’Italia con la presenza di comunisti e democristiani.
Non c’è dubbio che tutto si complica a partire dalla prima crisi della globalizzazione, quella economico-finanziaria del 2008, che spiazza i governi dell’”onda rosa” e inaugura in Europa e negli Stati Uniti, secondo ritmi e caratteristiche differenti Paese per Paese, quella che si annuncia come una vera e propria “lunga durata” del(i) populismo(i) occidentale(i). È a questo punto che il populismo s’incontra con la crisi della democrazia rappresentativa e il declino delle forze che fino ad allora l’avevano sostenuta. L’attenzione degli studiosi si concentra sulla dialettica sempra più aspra che si apre tra le istituzioni, i dispositivi e le regole dello Stato democratico da un lato e i movimenti populisti dall’altro. Infatti, come osserva Urbinati, la domanda che dobbiamo porci è che cosa significa sostituire la “democrazia dei partiti” con una “democrazia populista”, che è esattamente l’obiettivo perseguito dai movimenti populisti al di là delle differenze che ne caratterizzano la fisionomia nei vari contesti nazionali. Questo obiettivo non è solo una costruzione retorica, ma va preso sul serio. Il populismo è, per così dire, l’ospite inaspettato delle democrazie rappresentative del XXI secolo, di cui minaccia le dinamiche e i meccanismi di funzionamento: usa le procedure e i mezzi del sistema dei partiti in una campagna elettorale permanente allo scopo di rimodellare/sfigurare le istituzioni piegandole alla volontà di una maggioranza considerata inattaccabile. Sotto questo profilo, la Urbinati si colloca nella schiera di quegli interpreti che considerano il populismo una nuova patologia storica della democrazia o addirittura, per usare l’espressione forte di Pierre Rosanvallon, come una sorta di “virus letale”. A Urbinati interessa evidenziare che il populismo, nel momento in cui assume responsabilità di governo, tende a creare un “nuovo tipo di governo rappresentativo”, che mira a smantellare i pilastri di ogni autentica democrazia rappresentativa: la decisione e le opinioni, che costituiscono gli elementi fondamentali di quella che lei chiama teoria “diarchica” della democrazia. Infatti, la volontà si esprime, attraverso libere elezioni, nelle istituzioni parlamentari incaricate di deliberare; le opinioni si confrontano nella sfera pubblica attraverso la libera stampa e le associazioni civiche. Entrambe sono poteri dei “cittadini sovrani” e sono, pur senza confondersi mai, in costante interazione reciproca. Il populismo, al di là delle sue varianti, si propone di costruire una sorta di “rappresentanza diretta”, cioè l’idea che i leader possono parlare direttamente a nome del popolo e per il popolo, eliminando qualsiasi tipo di intermediazione. In questo modo, i populisti pervertono la concezione procedurale del popolo (così come ad es. è contemplata dalla nostra Costituzione) in una concezione “proprietaria”, dove la maggioranza diviene qualcosa come il possesso di un capo. Con tutti i rischi, se non di fascismo, di slittamento in regimi dittatoriali.
Ora, se la Urbinati ci dà una descrizione fenomenologica delle logiche di funzionamento del populismo (una sorta di “parassita” del sistema politico democratico in decomposizione), non ci dice nulla, per sua stessa ammissione, sul perché il populismo emerge e cresce sempre di più al giorno d’oggi. Si limita a registrare da un lato il rafforzamento di una “oligarchia nazionale e globale sempre più rapace” e dall’altro l’acuirsi di una diseguaglianza sociale ed economica che impedisce a larghe fasce della popolazione di ambire ad una vita dignitosa o migliore. Qui si innesta il volume di Formenti che incrocia la prospettiva analitica di Tarragoni, dal momento che entrambi argomentano la tesi che il populismo è sì un fenomeno che segna in profondità le democrazie attuali, ma, contrariamente agli interpreti come Urbinati, ritengono che il “momento populista” che stiamo vivendo può rappresentare l’occasione di una loro reinvenzione e rivitalizzazione. Retroterra di quest’approccio sono due autori come Ernest Laclau e Chantal Mouffe, di cui ci siamo occupati il mese scorso. Per Formenti, il “momento populista” sorge tutte le volte che una determinata formazione egemonica come il sistema liberaldemocratico, soprattutto dopo il 1989 e con la crisi del 2008, non riesce più a soddisfare le domande di giustizia sociale e di riconoscimento che maturano in senso alla società. È in una congiuntura di questo genere che nasce la contrapposizione popolo/oligarchia, alto/basso, gente comune/casta. La posizione di Formenti è molto netta: il populismo è la forma che la lotta di classe assume nell’epoca del capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Ma, a differenza della sinistra radicale à la Negri che sostituisce alla classe operaia la moltitudine dei perdenti della globalizzazione, Formenti ripropone la prospettiva gramsciana della costruzione di un blocco storico di classi eterogenee, in cui la democrazia rappresentativa sia integrata da istituzioni popolari di democrazia diretta come “contrappesi sociali autonomi”. Si tratta di un sovranismo di sinistra, che si spinge fino a proporre un “delinking” dal mercato mondiale. È una lettura che rischia di sottovalutare la torsione identitaria ed escludente che i sovranismi tendono a conferire al concetto di democrazia (sia rappresentativa che diretta): la democrazia siamo noi o, come afferma Trump, i diritti sono i nostri, ecc. Infine, a fronte degli immani problemi sociali, economici ed ecologici, con cui le democrazie odierne devono misurarsi, la posta in gioco non è forse immaginare una sovranità nazionale e una cittadinanza europea imperniate su una nuova cultura politica capace di dar vita a un patto di alleanza e di solidarietà tra i Paesi membri?
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 25 aprile 2020, p. 21]