Con questi tre maestri, dunque, Marti apprese, per riprendere il titolo di un suo volumetto, il «mestiere del critico», mestiere che poi insegnò per lunghi anni ai suoi allievi salentini. Tra coloro che gli sono stati particolarmente vicino e che lo consideravano un punto di riferimento, mi piace ricordare, oltre a quello di Valli, i nomi di altri due italianisti, anch’essi scomparsi: Gino Rizzo e Antonio Mangione. Con loro diede vita a un progetto complesso e ambizioso che dimostra anche il profondo legame che aveva con la sua terra, la “Biblioteca Salentina di cultura”, poi diventata “Biblioteca di Scrittori Salentini”, che aveva lo scopo di «rifondare» (come diceva lo stesso direttore della collana) la cultura di una regione rimasta ingiustamente ai margini dell’attenzione nazionale.
Ma Marti, com’è noto, ha offerto contributi fondamentali anche su vari autori e momenti della nostra storia letteraria: dalla prosa del Duecento ai poeti giocosi e agli stilnovisti, da Dante a Boccaccio, da Ariosto a Bembo, da Leopardi al Novecento. Peraltro, per avere un’idea della sua produzione scientifica, è sufficiente dare uno sguardo alla sua sterminata bibliografia che conta oltre millecento titoli tra volumi, edizioni critiche e commentate, studi e saggi, articoli, rassegne, recensioni, schede critiche, voci di dizionari e di enciclopedie.
Egli rappresentava un esempio di rigore assoluto nella ricerca a cui era fedele fino alle estreme conseguenze. Non aveva alcuna difficoltà, ad esempio, a “stroncare” volumi o saggi, anche di colleghi autorevoli, quando non lo convincevano, a costo di rompere amicizie e rapporti consolidati, come in effetti è avvenuto più di una volta. E, a questo proposito, gli piaceva ripetere la nota locuzione latina: «Amicus Plato, sed magis amica veritas». In qualche occasione, gli stessi suoi allievi fecero le spese di questo carattere inflessibile, poi attenuatosi nel corso degli anni, ricevendo critiche per i loro lavori anche in occasioni pubbliche.
Fino agli ultimi tempi della sua lunga vita, Marti non ha mai cessato di studiare, di scrivere, di pubblicare, di intervenire a Convegni, sempre con un impegno e un entusiasmo ammirevoli. Ricordo che nel 2010, alla bella età di novantasei anni, partecipò al Convegno di studio su Michele Saponaro, organizzato dallo scrivente, tenendo una relazione lucidissima sulla biografia di Leopardi dello scrittore salentino, accolta dal pubblico presente in sala, alzatosi in piede, con un lungo applauso, anzi, come si usa dire oggi, con una standing ovation. D’altra parte, l’ultimo suo volume, una raccolta di saggi, da lui accuratamente selezionati, Recuperi. Scavi linguistico-letterari italiani fra Due e Seicento, a cura di Marco Leone, uscì proprio nel 2014, il penultimo anno di vita.
Donato Valli, invece, ha avuto il merito di introdurre nell’Università di Lecce lo studio della Modernità letteraria, verso la quale anche Marti era piuttosto diffidente, anche se seguiva sempre attentamente le vicende della letteratura novecentesca. A questo lo portavano, da un lato, la sua formazione e, dall’altro, la sua sensibilità. Egli si formò, infatti, in un ambiente letterario estremamente raffinato, aperto alle suggestioni della cultura contemporanea, che ruotava intorno all’Accademia salentina e alla rivista «L’Albero», fondate a Lucugnano, rispettivamente nel 1948 e nel 1949, da Girolamo Comi. Non a caso, fece il suo esordio recensendo libri di poesia su quella rivista, di cui diventò segretario di redazione e che, dopo la morte di Comi, riprese insieme a Oreste Macrì. In ambito novecentesco, egli ha offerto contributi importanti, ad esempio, sulla poesia italiana contemporanea, sull’ermetismo, su alcuni generi tipici dei primi decenni del secolo scorso, a metà strada tra poesia e prosa, come il “frammento” e la cosiddetta “prosa d’arte”. In particolare, Valli è stato un interprete acuto e profondo di alcuni dei maggiori poeti italiani del Novecento come Rebora, Onofri, Ungaretti, Montale e Saba. Una delle sue qualità migliori di critico è stata, infatti, proprio quella di “saper leggere” i testi, soprattutto quelli poetici, con una capacità di scavo davvero rara, alla ricerca del messaggio più intimo e nascosto dell’autore con cui tendeva ad entrare in ideale contatto.
L’altro grande suo merito è stato quello di avere letteralmente “inventato” il Salento letterario novecentesco, che prima di lui non esisteva, valorizzandolo con una serie di volumi, articoli, edizioni di testi e imponendolo all’attenzione nazionale. Senza il suo lavoro non si sarebbe conosciuta la ricchezza culturale di una regione che può vantare, ad esempio, nomi di poeti di assoluto rilievo nazionale e respiro europeo, come Girolamo Comi e Vittorio Bodini. E questo lavoro era da lui considerato come una sorta di dovere civile e di missione di tipo etico a favore del territorio e della comunità salentina. A tal proposito, non è un caso che il primo corso di Letteratura italiana moderna e contemporanea, da lui tenuto nell’anno accademico 1970-‘71, sia stato dedicato proprio alla “Cultura letteraria del Salento dal 1860 al 1950”.
Ma al di là delle profonde differenze esistenti tra le rispettive storie personali e i percorsi di ricerca seguiti, Mario Marti e Donato Valli erano accomunati dalla dedizione per lo studio, che per loro non era finalizzato esclusivamente a esigenze di carriera o al rispetto di dettami esteriori, come purtroppo succede oggi, ma era un abito mentale, una necessità dello spirito, un modo di essere. Anche per questo forse personificano un’idea di università che è assai lontana da quella attuale. Anche quando ricoprivano importanti cariche accademiche (oltre che rettori, sono stati anche presidi e direttori di dipartimento) non hanno mai cessato di studiare, di fare ricerca, di pubblicare. E proprio perché autentici uomini di cultura, non sentivano il bisogno di sfoggiare titoli, ostentare riconoscimenti, come fanno oggi alcuni con gusto discutibile.
Entrambi, infine, hanno avuto il merito di creare una “scuola” composta da studiosi qualificati i quali, a loro volta, hanno formato altri allievi tuttora operanti, per cui si può dire che la lezione di questi maestri duri, in una certa misura, ancora oggi. E in questo modo essi continuano a tenere alto il nome dell’Università del Salento, nel campo umanistico, presso la comunità scientifica nazionale e internazionale.
[Prefazione
a “L’Idomeneo”, n. 27, 2019]