Itali-e-ni 38. “A ogni giorno il suo affanno”

In particolare, ci sono alcune categorie di persone che destano il mio sgomento, che non riesco proprio a tollerare; e per non uccidere qualche esponente di questa congerie quando lo incontro, devo davvero saggiare la pazienza di Giobbe. Siano date, nella mia narrazione, come dei tipi umani, quasi delle maschere, figure universali che tutti avranno incontrato almeno una volta (se  fortunati) oppure tantissime (se scarognati) nella vita.

Il cortigiano

Che dannata genia quella dei cortigiani. Davvero infesta la terra, questa nefanda colluvie di servi, eunuchi disposti al soldo di qualche padrone a vendersi. A volte è la dura necessità, l’indigenza, la disperazione. A volte, l’ozio, la ripulsa per il lavoro, una naturale predisposizione al parassitismo, un talento innato per l’inchino e la riverenza. Sono adulatori, cretini che senza alcuno slancio del cuore, lusingano chiunque capiti loro a tiro, sperando di poter ottenere qualche impreveduto vantaggio. Vi sono infatti gli adulatori occasionali, quelli che sono predisposti alla piaggeria anche una tantum, e gli adulatori di professione, quelli prezzolati, arruolati, intruppati, ai quali si attaglia la definizione di “cliente” di derivazione latina. Marziale bersaglia volentieri nei suoi epigrammi questa categoria: “Tuccio, che moriva di fame, andava a Roma, venendo dalla Spagna. Gli arriva all’orecchio la storia della sportula: a Ponte Milvio, ritorna indietro”(L.III, 14). La sportula era la borsa nella quale il cliente riponeva quello che gli era dato dal padrone.

Costoro sono disposti a tutto pur di servire il loro benefattore, ma siccome la cortigianeria va di pari passo con la doppiezza, l’imbroglio, può succedere anche che siano servitori di due padroni. Sarà stato per loro forgiato il motto “Franza o Spagna purché se magna”? A pro del Mecenate, sono disposti anche a buttarsi nel fuoco. Cavalier cortese, intendente, portaborse, luogotenente, delfino, sono alcuni dei sinonimi che indicano la professione del lusingatore. Più smaccata è la loro riverenza, quanto più essi hanno da perdere, più curva la schiena, prono il deretano, quanto maggiori i profitti che traggono dall’utile servaggio. E quando qualcuno può attentare al loro status quo, magari un altro arrampicatore che con maggiore destrezza abbia scalato la benevolenza del dominus, oppure può scalfire la loro dignità, il loro amor proprio, facendogli notare l’abiezione della loro condizione di leccapiedi, allora hanno pronta una giustificazione che spazza via ogni sospetto: “tengo famiglia!”. Il cortigiano tipo si fa uno scudo di questa manfrina. Narra Baltasar Gracian, polemista del Seicento (nella sua opera“Il saggio”),  che una volta il Sovrano Turco che si trovava alla finestra del suo palazzo iniziò a leggere quando i fogli volarono via a causa del vento e andarono a finire fra le foglie. Tutti i paggi si precipitarono giù per le scale sulle ali dell’adulazione ma uno di essi, Ganimede del proprio ingegno, si gettò dal balcone. Quasi per miracolo non si sfracellò. Raccolse il foglio e risalì le scale ché gli altri ancora scendevano. Si guadagnò così la riconoscenza del suo signore perché il sovrano lo innalzò alla più importante carica. Questi adulatori vanno elemosinando incarichi e prebende in genere nei posti pubblici. Stanno sempre all’ombra di qualche potente, come formiche pronte a cogliere le briciole che cadono dal desco. Fanno scorta al politico, marciano dietro alle eminenze grigie della finanza, ai guru della cultura e della televisione, fanno shopping insieme ai personaggi famosi, jogging insieme alle star della musica. Hanno sempre un vezzeggiamento, una parola buona, un’espressione di lode, sono prodighi di vanterie per il loro beniamino, largiscono prestazioni sessuali ai loro signori. Ma i loro complimenti sono frutto di finzione, non di ammirazione, altrimenti dovrebbero essere parchi. Quella dei leccaculo è una schiatta dura ad estinguersi, anzi sempre crescente.

Il vanaglorioso

Altra cimmeria torma che rende questo pianeta più inospitale è quella dei vanitosi. Certuni hanno delle reali capacità, del talento per qualcosa, ma essendo affetti da questo grave difetto, risultano sgraditi, antipatici ai più.  Per la maggior parte, gli esponenti della categoria, però, sono soltanto delle mezze figure, buoni a nulla, al più mediocri, che si danno arie da grandi signori, da esperti del mondo, se hanno fatto qualche viaggetto magari al risparmio, da valenti scienziati, se sono nella ricerca, luminari della scienza medica, quando sono solo dei dottorini, da grandi campioni, se appena si distinguono nella partita di calcetto del sabato pomeriggio, o nella bocce con gli amici sessantenni, o nella partitella di pallavolo nel campetto del quartiere. Amano i propri discorsi, si compiacciono di sé stessi, si imbrodano nella sbobba della propria vanteria, ostentazione, presunta superiorità. Già Plauto descrisse il vanaglorioso in una sua celebre commedia, “Il soldato fanfarone” (“Miles gloriosus”). Credono la propria mediocrità altezza d’ingegno, la propria intraprendenza, vera capacità. Si reputano dei fenomeni. Ma la grandeur, che ne offusca il discernimento, rende anche i virtuosi molesti. Sono per natura ottimisti, intraprendono con ardire qualsiasi iniziativa, in ogni campo, e anche quando questa fallisce, essi ne attribuiscono le cause a fattori esterni e contingenti, sempre tenendosi salvi da qualsiasi responsabilità in merito. Anzi, a volte, sanno trasformare la reale sconfitta in una immaginaria vittoria adducendo motivazioni assurde. Fanno di un castello di sabbia il tempio della vanagloria, il santuario della spocchia. Si danno arie da superuomini quando sono solo mezzi uomini, anzi quaquaraquà, per dirla con Sciascia.  Questi vanterini, si fanno credere espertissimi amanti, capaci di grandi prestazioni sessuali, millantano crediti e conoscenze in tutti i luoghi di potere, amicizie influenti. Si fanno passare per gentiluomini, amici degli altolocati, quando tutt’al più sono fac totum di qualche famiglia aristocratica. Sono dei pataccari ma si spacciano per grandi managers o capitani d’industria. Sono “traffichini”, faccendieri, ma vogliono passare per banchieri, non hanno il becco di un quattrino ma si gabellano per ricconi. Hanno la faccia come il culo. La loro, più ancora che vanteria, è iattanza. Gonfi, maneggioni, ciurmatori, cerretani. Baciatemi il culo.

Bisogna dire che molto spesso le categorie sopra descritte, il cortigiano e il vanitoso, vanno a braccetto. Infatti l’adulatore non fa altro che ripetere quello che l’adulato pensa di sé e vuole sentirsi dire.

Il saputone

Fra gli implumi terrestri, il saputone è uno dei più fastidiosi. Credo che nessuno possa sopportare in cuor suo il saccente, il “tuttosalle”, come veniva definito in passato quello che vuole saperla sempre più lunga di noi e spiegarci tutto. Nessuno lo sopporta, anche se il nostro atteggiamento nei suoi riguardi cambia in base ai caratteri: chi è più paziente, tollerante, disposto all’ascolto, riesce a sorbirsi la broscia che il saccente gli fa inghiottire, chi invece è più intollerante e meno disposto al martirio, non si fa scrupolo di liquidarlo su due piedi appena lo incontra o di mandarlo a cagare, come ogni rompiscatole meriterebbe. I tediosi appesantiscono ogni discussione con il racconto delle loro eroiche gesta, avvelenano il miele di un incontro conviviale con il fiele della loro saccenteria. Ché, il più delle volte, la loro non è cultura, ma solo arido nozionismo. A causa del loro difetto, in un rendez vous campeggiano sugli altri, parlano solo loro, sfiancano gli astanti con talmente tante panzane che, a fine serata, li trovi assisi su quel desco di annoiati, trionfanti e ancora schiumanti nell’orgasmo della propria logorrea. I convitati invece giacciono sulle seggiole riversi, tramortiti dalla gragnola di colpi inferti senza pietà dal cazzone. Succede infatti che chi è davvero colto sia anche schivo, non riesca a farsi avanti, sicché il sapientone continua con la sua sicumera a martellare i coglioni di quei pochi che non sono riusciti a svignarsela per tempo. Chi è davvero colto conosce la dote della discrezione e sarà impossibile vederlo abbassarsi al livello del sapientone. Chi molto sa, poco mostra, e non sgomita per farsi largo, non giustappone l’apparire all’essere, non scalmana per dimostrare. È certo, l’arte del conversare non è prerogativa di tutti, certe volte nemmeno degli uomini saggi e misurati, figurarsi dei pedanti. Ci vuole mestiere, garbo e raffinatezza, nel condurre una conversazione mantenendola nei confini di una “impegnata leggerezza”, del buon gusto. E difatti sono stati scritti vari trattati in materia. Quando per somma ingiuria della sorte, incontro qualcuno di questi maledetti logorroici in qualche luogo di convegno sociale, come il bar, l’edicola, il supermercato, cerco di darmela a gambe, esecrando la scarogna, ma spesso quel cane rabbioso mi rincorre e mi assale e allora non c’è modo di svincolarmi dalla sua filippica. Che inopportuni parolai, questi vecchi tromboni. Quando non sono fluviali, inarrestabili, sono sentenziosi. Comunque sono da evitare.

Il politico di paese

Pesti della convivenza civile, vergogna di una comunità, sono i politici di paese. Seminatori di sospetti e dicerie, più doppi di una moneta fuori corso, più falsi di una Lacoste contraffatta, più puzzolenti di un caprone, più rapaci di un condor, più furbi di una volpe, più menagramo di un gufo, più viscidi di un serpente, ciarlatani, masanielli, fanfaroni, arruffapopolo, pettegoli.  Il politicante spende molto del proprio tempo in giro per il paese ad intercettare bisogni, difficoltà, problematiche della gente, che egli si offre prontamente di risolvere. Di ogni accadimento si interessa. È amico di tutti, tutti saluta, a tutti stringe la mano, dà un buffetto ai bambini, una pacca sulle spalle al giovanotto, una carezza alla beghina, fa un fischio di approvazione alla bella donna, strizza l’occhio a quello che gli ha confidato un segreto (che quindi tale non sarà più), mostra il pollice alto al tifoso del Milan e  il dito medio al tifoso dell’Inter, o viceversa, si prostra di fronte all’aristocratico, riverisce il parroco, si genuflette e bacia l’anello al vescovo, si mette sull’attenti di fronte al maresciallo, batte il  cinque al cretino tutto muscoli e tatuaggi, riverisce il superiore e incoraggia il sottoposto, si esprime in italiano con il professionista e il borghese e in dialetto con l’uomo della strada, usa un linguaggio alto con l’intellettuale e il turpiloquio con il malavitoso. Preferibilmente fa il medico di base, oppure l’infermiere professionale (e può quindi largire analisi del sangue a domicilio e anche gratis all’enorme pletora di potenziali elettori), il sindacalista (quindi con un grosso bacino di utenza fatto di pensionati e disoccupati che pendono dalle sue labbra), o l’agente di pratiche automobilistiche. Insomma svolge delle professioni che lo portano a contatto con la gente, funzionali a quella politica di piccolo cabotaggio, fatta di favori, disbrigo di pratiche, voto di scambio, in cui egli è maestro.

Il politicante non è longanime. Di fronte ai drammi e agli eventi luttuosi, simula solidarietà, scorcia compartecipazione, commozione. Si veste a lutto nei funerali a cui partecipa, dispiaciuto, compunto, ma la sua è affettazione, finto cordoglio, ipocrisia. Il politico di paese è vendicativo, quando giunge al potere si ricorda di chi lo ha osteggiato e non perde occasione per fargliela pagare. Raramente accade quanto Baltasar Gracian riferisce a proposito del re Giovanni II d’Aragona che, conquistata Barcellona, perdonò tutti i catalani che avevano preso le armi contro di lui.  È un essere multiforme, che cambia pelle all’occorrenza, un Proteo della simulazione e dissimulazione, double face man, l’uomo per tutte le stagioni. Si contraddice spesso perché segue gli umori del momento e ciò che era buono poco prima non è più valevole dopo. Appare docile, arrendevole, mellifluo in certe circostanze, e duro, severo, indisponibile in altre, solo per il calcolo delle convenienze. Ha la schiena dritta oppure a 90 gradi, si vende la camicia e il culo, venderebbe anche la madre, rinnegherebbe il padre. Lo trovi in piazza che arringa le folle, al bar che offre il caffè a tutti, alla sala giochi che se la fa coi ragazzi, al centro anziani che gioca a carte coi pensionati. È invitato ai matrimoni, fa il padrino di cresima e di battesimo, interviene quando c’è una rissa per sedare gli animi, si presta ad accompagnare il malato terminale nei viaggi della speranza, a testimoniare (a favore del proprio elettore) quando accade un incidente automobilistico. Il politicante parla per frasi fatte, inserisce nei suoi interventi espressioni idiomatiche, termini abusati. Gli studiosi hanno scritto interi saggi sul linguaggio della politica.

Questi imbroglioni sono mossi solo dalla loro ambizione smisurata, dall’interesse, dall’odio per gli avversari. La loro predeterminazione al compromesso, all’intrigo, al calcolo però a volte è un’arma a doppio taglio. Quando la fortuna muta i suoi favori, il politicante può finanche diventare sgradito a tutti, e finire abbandonato e dimenticato.

L’invidioso

Detestabili pure quegli oracoli della maldicenza che sono i biliosi, gli astiosi, quelli che vedono il male negli altri per non vedere il proprio. Gli invidiosi, insomma, delle varie categorie di ominicchi, forse i peggiori. L’invidioso è esperto nell’arte della mormorazione, della calunnia. Sono pericolosi, pronti a pugnalarti alle spalle. Sono come Momo, divinità greca che criticava aspramente l’opera di chiunque. A tutta prima, questi motteggiatori possono risultare divertenti. Essi ne hanno per tutti: Tizio è pieno di debiti, Caio è stato lasciato dalla moglie, Sempronio è indagato, presto verranno ad arrestarlo, quello porta il parrucchino, questa ha il seno rifatto, quell’altra ha una brutta malattia di cui non sa nessuno. Ma prendersi gioco di tutti, burlare chiunque, alla lunga crea disagio nell’ascoltatore, addirittura disprezzo. Questi invidiosi odiano ferocemente e, incancreniti nel loro livore, giungono a maledire apertamente quelli che detestano. Anche quando non lo fanno apertamente, nei loro discorsi traspare la malevolenza. Sono caustici, tranchant, insultanti, sfottenti. Sempre pronti a sparlare di chiunque. E anche se a volte vengono raggiunti da qualche denuncia o picchiati da quelli che insultano, continuano a maldire. La loro natura di calunniatori, come nell’apologo della rana e dello scorpione, li fa recidivi. E proprio degli scorpioni sono, e sputano veleno come le vipere. L’invidia nasce forse da spirito di emulazione, solo che quando questa non è possibile, allora l’ammirazione per chi è più capace o meglio riuscito nella vita, si converte in invidia. E l’invidia si semina come la zizzania. Essendo dunque tanto nocivi, chi ne ha coscienza, cerca di evitarli, oppure, non potendolo fare, almeno di cattivarseli, per non soccombere sotto i loro detti mordaci. “Meglio è onorarli”, infatti scrive, in “L’ uomo di lettere”, Daniele Bartoli, “per non averli nemici, facendo loro sacrifici come i Romani alla Dea Febbre, perché vi favoriscano di starvi alla lunge ed abbiano questa sola memoria di voi, di non ricordarsi in nessun tempo di voi”.  Molto facile finire nel carnaio delle vittime di questi invidiosi. Basta uscire un poco dalla media, sollevarsi un tanto dalla massa ottusa della turba senza volto né voce, per entrare nel mirino di questi maledetti, ed essere impallinati dalla loro cannedoppie.  A nulla vale che ci si allontani il più possibile dalla loro visuale, hanno mira infallibile e prontezza di riflessi. Anzi, la vostra discrezione verrebbe scambiata per ritrosia o spocchia, e lo sputasentenze, con impeto raddoppiato, vi si scaglierebbe contro. Quel linguacciuto bersaglia chi è a lui superiore con fandonie, mettendo in giro cattiverie e mostruosità per screditarlo agli occhi di quel volgo di cui egli aspira ad essere rispettato notiziatore, temuto censore. Sguazza nel guano delle sue fandonie, nello sterco delle sue calunnie. È una cornacchia maledetta che, senza ali, ruzzola nel fango, un Argo centocchi, il Cerbero di ogni occasione, un disgustoso pidocchio. È un malriuscito Menippo, sputato fuori con strepito dal ventre della zoccola di sua madre e cacciato a botte di casa dal magnaccia di suo padre. È già tanto se alcuni, per paura o per viltà, lo ignorano e lo evitano, “raccordando col loro esempio”, per tornare al Bartoli, “la verità di ciò che Pollione disse d’Augusto: che non si deve scribere in eum, qui potest proscribere”, cioè “non si deve scrivere contro uno che ha il potere di proscrivere, mandare in esilio”. Ma è poi il massimo, e succede rarissimamente, se “non s’odono più favellare: che fu la mercede di quel celebre Zoilo (retore greco del IV sec. a.C.), che o fosse abbruciato vivo, o lapidato, o crocefisso con una di queste tre sorti di buona moneta, ricevè l’intero pagamento delle maldicenze sparse contra il principe dei poeti (cioè Omero)”. E una di queste, è la fine che io auguro loro.

Il fighetto

Spesseggiano in questo mondo di imbecillità, anche i signorini, i damerini, versione  anni duemila del “gagà” dei tempi passati.  Per loro l’abito fa il monaco. L’abito, ossia l’apparire, è tutto, forma e sostanza. Qualcuno li tiene per autorevoli, arbitri dell’eleganza. Se sono squattrinati, fanno i personal shopper, i dog sitter, i wedding planner, alla bisogna i gigolò, i puttani d’alto bordo. Se invece sono fuori dalle ambasce, provengono da famiglie facoltose, allora sono degli scioperati che dissipano il tempo. A loro le lancette degli orologi ricordano solo l’appuntamento dal parrucchiere o dall’estetista, oppure la gita in barca. Mantenuti, vivono a spese del papà o di mammà, oppure della milf che li ingaggia come toy boy, bambolotti erotici. Questi fatui, imbellettati Gastoni, li vedi sempre affaccendati, ogn’ora presi dalle loro donnesche occupazioni. Quando li cerchi, non li trovi mai, il loro telefonino è sempre occupato. Idolatrano tutto ciò che è apparenza, glamour, devoti del fashion, adepti del make up, epigoni del nulla. Il loro mondo è fatto di pin, puk, password, username, whatsup, tag, like, ashtag, situation, meeting, vision, file, attachment, fotoshop, tattoo, nail, sky, premium, personal coach, welneess, conversation,  emoticons. I loro motti di spirito sono banali, i loro discorsi, vaniloquio, fanfaluca.

Il damerino si cambia d’abito anche tre volte al giorno: la mattina per la colazione nel bar del centro, lo shopping e l’aperitivo rinforzato con i debosciati suoi accoliti, il pomeriggio per l’happy hour e l’incontro intimo con l’amante, la sera per l’ingresso nel tempio della lussuria e del divertimento, anzi del “divertentismo”, come recitano gli analfabeti deejay che infestano le radio locali.

Con i loro abiti firmati e le loro t shirt inamidate col colletto alzato, vanno a passeggio sul corso oppure stanno sul muretto del circolo della vela. A volte ci troviamo, nostro malgrado, in mezzo al vuoto chiacchiericcio di questi ominicchi. Allora li senti parlare della discoteca di tendenza, del lido più in di Gallipoli, della vacanza ad Ibiza, del deejay appena arrivato da New York, del concerto di Lady Gaga, e l’aggettivo che ricorre immancabilmente per descrivere qualsiasi cosa vada loro a genio è “figo”. La loro è pochezza, pruderie, cretineria.

Sempre fashionable, si recano al cocktail party ciarlottando fra di loro dei miracoli dell’ultima crema anti age oppure delle prestazioni del nuovo iphone. Spendono somme spropositate in trattamenti estetici e quando palestra, massaggi, saune, anti età, maschere, peeling, scrub, pressoterapia, drenaggi, bendaggi, cataplasmi, savonage, manicure, pedicure, Ayurveda, non bastano più, ricorrono alla chirurgia estetica per rifarsi naso, labbra, glutei, ecc. Nessun figurino fa a meno di un lifting ad una certa età. Loro lo chiamano restyling.  Entrano, con i pantaloni coi risvoltini e i mocassini lucidi senza calzette, nel bel mondo, che sembrava aspettarli a braccia aperte, e parlano con la erre moscia come i muscadins,  quei giovani francesi del Settecento che si vestivano in maniera alquanto ricercata e per snobismo parlavano in siffatto modo, tanto che venivano messi in burla. E proprio come i moscardini, questi molluschi, esponenti della odierna jeunesse dorée, finiscono spesso come cavalier serventi di autorità, grossi imprenditori, politici, ai quali dispensano i loro preziosi consigli estetici per tenerli lontani dalla minima volgarità o sciatteria e invece sempre al passo con qualsiasi tendenza. Si definiscono bon vivant, ma sono dei microcefali. E per bilanciare la scarsezza del loro cervello, posseggono cani di grossa taglia, con pedegree, che esibiscono portandoli a passeggio per le strade di città e in campagna. Quando questi omuncoli si incontrano con gli altri della propria risma, allora è una gara a chi la spara più grossa.

Una sottocategoria dei fighetti è dotata di un livello di istruzione medio, e costoro, per il fatto di aver letto appena un poco di più dell’etichetta delle camicie o del foglio di istruzioni dell’iphone, definiscono sé stessi “dandy” o “ flaneur”. Rido per non piangere. Questi perdigiorno non hanno proprio nulla della celebre categoria letteraria, descritta magistralmente da Louis Huart nel 1841 in “Fisiologia del Flaneur” (recentemente ripubblicato da Stampa Alternativa). Creduloni, superstiziosi, vezzosi, superficiali, smorfiosi, i profumati bellimbusti rappresentano l’involuzione della specie umana.

Donnone e donnine

Non sopporto la donna androgina, la virgo potens, l’amazzone potente e distruttrice. Quella che combatte come una Pentesilea (che poi venne sconfitta da Achille) e fa strage dei nemici, vendicativa come Tomiride ( la mitica regina degli Sciiti che sconfisse Ciro il Grande, lo uccise selvaggiamente, ne tagliò la testa e la conservò in un otre pieno di sangue). Oggi, siamo circondati da queste donne battagliere, dominatrici del mondo, determinate, sicure di sé, multiversate. Sono figlie dell’emancipazione e della rivoluzione sessuale, della globalizzazione dei costumi e dei gusti. La donna in carriera è una super manager, dirigente di importante ente pubblico, c.e.o. di una famosa multinazionale, giornalista parlamentare, ha due ipad, cinque telefonini, dieci visa card, dorme pochissimo e viaggia molto. Vola in business class, ha una camera d’albergo prenotata tutto l’anno in tre città diverse, ha l’autista, l’assistente, il cuoco personale, l’interprete, dovunque vada. Frequenta in orari impensati la palestra e lo psicanalista, parla in video conferenza in inglese e in giapponese, fissa gli incontri, pianifica, indice la conferenza stampa, rilascia interviste, lancia il brand, firma il contratto, chiude la fusione, apre una nuova linea di credito, garantisce per i suoi amici, promuove il prodotto, patrocina l’ente, lancia un’opa, manda in crisi la Borsa, chiude la filiale, divide gli utili, copre il debito. È sempre in ritardo alla colazione di lavoro. Al party o alla cena fra amici, è sempre l’ultima ad arrivare e la prima ad andar via. I suoi genitori vanno a trovarla nella città dove vive ma lei non è mai a casa. Sicché  i suoi vecchi restano comunque soli e vanno a visitare musei, al cinema oppure a passeggiare nel parco. Li raggiunge in aeroporto, quando dopo una settimana di permanenza ripartono, che hanno già chiamato l’imbarco, e non riesce nemmeno ad abbracciarli perché sono nel gate, e li saluta con la mano. I suoi accompagnatori sono sempre “amici”. Non ha una relazione stabile, nessuna storia d’amore, ma solo passade, flirt. Fisico nucleare, astronomo, ufficiale di Marina, Capitano di Polizia, avvocato, commercialista, la donna in carriera, dedita alla scalata al successo, se le capita la ventura di aver famiglia, affida i figli h24 alle cure dei nonni o della tata e i mariti alle attenzioni delle amanti, salvo poi, giunta a cinquant’anni ai vertici dell’ azienda, ricordarsi dei figli che nel frattempo sono divenuti dei debosciati ed eroinomani e del marito ormai alcolizzato e ninfomane (il quale, per gradire, si è pure mazzolato tutte le sue amiche). A quel punto, per recuperare il tempo perduto, concede un divorzio a molti zeri, e si prende un toy boy di vent’anni che la colmi di baci ed effusioni a bordo del suo panfilo ormeggiato nel porto esclusivo.

Ma se la donnona, la wonder woman, multitasking, è detestabile, non sopporto nemmeno la donnina tutta svenevolezze e smancerie, brava moglie, brava mamma, premurosa, attenta, delicata, carina. La donna angelica, devota alla famiglia, che non muove un passo senza i propri cari. Questa donna d’altri tempi, vezzosa, fedele, ma in fondo frivola, non prende alcuna decisione senza consultare il padre o il marito e addirittura i figli. Libertà, per questo tipo di donnicciola, è il carcere nel quale si è rinchiusa volontariamente. Se a qualcuno saltasse in mente, a seguito della sua avvenenza, di farle la corte, quella rifiuta sdegnosamente le sue avances, lo fa sentire un depravato, un traditore dell’amicizia, un rovinafamiglie. Ma poi il respinto viene a sapere che in realtà è solo già impegnata, se la intende con qualcun altro da tempo. Eloise dimidiate, signore Bovary in formato Avi, brutte copie di Elena di Troia, le donnine sono demoni sotto mentite spoglie. Chi ha detto “donna e danno”?

SETTEMBRE 2016

Questa voce è stata pubblicata in Itali-e-ni di Paolo Vincenti e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *