Scritti ecologici. Anno 2010

Il governatore della Puglia, Nichi Vendola, ha fondato un nuovo partito. Si chiama Sinistra Ecologia Libertà. La biodiversità è uno dei temi di cui si occupa l’ecologia, assieme al funzionamento degli ecosistemi. E’ magnifico che una personalità di primissimo piano si renda conto dell’importanza di questi problemi. Ma questo porterà a identificare l’ecologia con una parte politica. Se essere di sinistra significa curarsi dell’ambiente e della biodiversità, allora chi è di destra deve negare che esistono problemi ambientali? E chi è di centro, ovviamente, ammetterà che c’è un problema ma che non è gravissimo? Pare proprio che sia così. Ed è un errore madornale. Anche il Vaticano mette la cura dell’ambiente, e quindi l’ecologia e la biodiversità, al primo posto. Il Vaticano è di sinistra?

In Salento, in questi ultimi anni, le porzioni di territorio dove la biodiversità viene protetta sono aumentate significativamente, e altre sono in procinto di essere protette. L’opposizione a queste iniziative da parte della popolazione sta diminuendo e la percezione che sia importante prendersi cura di quel che Benedetto XVI chiama il Creato è sempre più diffusa. L’Università del Salento ha una posizione di rilievo internazionale per quel che riguarda l’ecologia. Fa parte del Network Europeo di Eccellenza che studia la Biodiversità Marina e il Funzionamento degli Ecosistemi. A Lecce ha sede il Centro Euromediterraneo per i Cambiamenti Climatici, e sempre a Lecce sono di punta le ricerche sui sistemi acquatici di transizione. E’ di Lecce l’unico rappresentante dell’ecologia italiana nella prestigiosa Faculty of 1000, fondata da Jane Lubchenco, l’attuale consigliere di Obama per i problemi ambientali. Quest’anno si terranno a Lecce i congressi mondiali sulle meduse e sui vermi marini, porzioni importantissime della biodiversità. A novembre, ricerche sulla biodiversità marina svolte a Lecce erano sulla copertina di Time Magazine e sul New York Times. L’Università ha grande sensibilità anche nel campo dell’educazione ambientale, con quattro strutture museali. Quest’anno partirà una laurea specialistica su Biologia ed Ecologia Marina e Costiera, completamente in inglese. Il primo dottorato di ricerca con sede a Lecce è stato quello di Ecologia Fondamentale, ed è su temi ecologici che è nato il primo spin-off accademico della nostra Università. Non esiste altra Università italiana con una così grande concentrazione di approcci allo studio della biodiversità e con così grandi potenzialità. Se ci fosse una capitale italiana della biodiversità, in campo sia scientifico sia didattico, Lecce sarebbe un’ottima candidata. Perché queste potenzialità trovino sbocco è necessario che, finalmente, la società civile si renda conto dell’importanza di problemi che tutti, dalle Nazioni Unite al Vaticano, ritengono di assoluta priorità. Dalle parole è ora necessario passare ai fatti. I tagli finanziari al sistema universitario non lasciano ben sperare. Tutte le amministrazioni, di destra e di sinistra, quando c’è stato da tirare la cinghia, hanno penalizzato ambiente e ricerca. L’ambiente non è né di destra né di sinistra ma, nei fatti, è l’indifferenza nei suoi confronti che non è né di destra né di sinistra. E non saranno certo le celebrazioni a cambiare questa aberrazione culturale.

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Niente ecologia nella scuola!

La riforma delle medie superiori vede un grande sviluppo della matematica, e questo viene applaudito da tutti. In effetti gli studenti che arrivano all’università (almeno quelli che incontro ormai da 25 anni) sono di un’ignoranza quasi totale su tutto. Non sanno come funziona il loro corpo, non parliamo di come funziona un ecosistema, spesso non parlano italiano correttamente e, ovviamente, non sanno neppure come risolvere un’equazione. Se però inizio con “Ei fu siccome immobile…” tutti sanno andare avanti. Se dico: “Nulla si crea, nulla si distrugge” tutti, in coro, mi rispondono “tutto si trasforma”. Se poi chiedo cosa significhino queste parole, raramente lo sanno. Bevi un litro di birra, poi vai a fare la pipì. Che strada ha fatto la birra per diventare pipì? A questo non sa rispondere nessuno. Il mistero della pipì. Per qualcuno il bue è il maschio della mucca, e il toro è il maschio della vacca. Ovviamente respiriamo per portare dentro ossigeno, e portiamo dentro ossigeno per respirare. Respiriamo continuamente, e ogni tanto facciamo la pipì. Raramente risolviamo equazioni. Non avere neppure curiosità per il quotidiano che più ci riguarda da vicino è il più cocente fallimento della scuola. I ragazzi imparano a dare risposte, ma sono rari i casi in cui fanno domande. Il mio ricordo della matematica è legato a teoremi da imparare a memoria e esercizi da risolvere. In moltissimi casi, a detta degli studenti, è ancora così. Lasciatemelo dire: fatta così la matematica non serve a niente, e si ottiene l’effetto opposto: si allontanano gli studenti dalla disciplina. Non vorrei essere frainteso, la matematica è importantissima, ma deve essere insegnata per quel che è: una lingua che mette in rapporto cose, non uno strumento di calcolo con regole stereotipate, da imparare a memoria. Questo è l’aspetto più triviale della disciplina. Una domanda facile facile: come scrivevano i numeri i romani? Lo sanno tutti. Ecco la prossima domanda: come scrivevano i numeri i greci? Non lo sa quasi nessuno. Se lo sapete, buon per voi, se non lo sapete: andatevelo a cercare! Se avete la curiosità. Ma di solito non c’è, la curiosità.

Tutti comunque parlano di italiano e di matematica come le fondamenta dell’istruzione. Concordo per l’italiano, ma permettetemi di dire che matematica non è sinonimo di scienza, come invece pare che sia. La matematica è la lingua della fisica, ma man mano che la complessità degli oggetti da investigare aumenta, la matematica diventa sempre meno potente. Non pensiamo che tutto possa essere ridotto in numeri, e che esistano formule magiche che ci permettano di prevedere il futuro. Questo è possibile in alcuni ambiti, ma è impossibile in altri. La storia, per esempio. La storia non si può prevedere con un’equazione e con la misurazione di qualche indicatore. Eppure gli economisti hanno pensato di poter prevedere il funzionamento dei sistemi economici usando potenti modelli matematici. Il funzionamento dei sistemi economici dipende dalla storia, da quel che avviene. E abbiamo visto quanto questi modelli matematici siano affidabili: non lo sono affatto. La storia è regolata da leggi, forse esprimibili con qualche notazione matematica, ma è anche condizionata da piccoli fatti, da contingenze, che non possono essere tutte comprese in un modello matematico, e che possono mettere in crisi le leggi. In certi posti una piccola scappatella di un uomo politico (una contingenza) fa crollare un sistema di potere, in altri posti eventi ben più gravi non scalfiscono chi detiene il potere. Non si spiega con un’equazione. Solo gli astrologi fanno previsioni in sistemi storici, e nessuno li considera scienziati, anche se fanno astrusi calcoli basati su congiunture astrali.

Benissimo la matematica (fatta bene) ma non dimentichiamo le altre scienze. Quelle in cui la matematica serve a poco. Oppure quelle in cui la matematica è stata adoperata e ha fatto disastri (ad esempio le scienze economiche, o le scienze naturali).

Darwin ha espresso bene questo concetto. Ha scritto: gettate in aria una manciata di piume e tutte cadranno al suolo obbedendo a precise leggi. Darwin si riferiva alle leggi della gravitazione universale di Newton, e ai principi di Galileo sulla caduta dei gravi. Ma poi ha aggiunto: ma come è semplice questo problema se confrontato alle azioni e reazioni delle innumerevoli piante e animali che hanno determinato, nel corso dei secoli, le abbondanze relative e le specie di alberi che ora crescono in un determinato luogo.

Darwin parlava di storia naturale, e l’evoluzione è la storia della vita. Non si può prevedere l’evoluzione con un’equazione. L’origine delle specie, il più importante libro scientifico di tutti i tempi, quello che ha cambiato la nostra visione del mondo, non è basato sulla matematica.

Benissimo imparare la matematica, lo ripeto ancora a scanso di equivoci, ma malissimo pensare che tutto possa essere ridotto in numeri e che esistano strumenti matematici in grado di predire il futuro di sistemi complessi. I disastri attuali nella gestione dell’economia e degli ecosistemi si basano proprio su questa presunzione.

Benedetto XVI, nel suo discorso di inizio d’anno “Se vuoi custodire la pace devi custodire l’ambiente” ha chiesto di mettere più ecologia nei programmi di insegnamento. Maria Stella Gelmini che, a quanto si dice, è nipote di don Gelmini, pare non abbia seguito l’esortazione papale. Peccato! Sarà per un’altra riforma.

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Conciate per la festa

L’otto marzo si inscena un rituale che, ogni anno, associo alla settimana della cultura scientifica. E di settimana della cultura scientifica voglio parlare, non di giorno della donna.

Anche se la parola è molto impegnativa, e mi vergogno ad attribuirmela, di mestiere faccio lo “scienziato”. E’ un ruolo che, in Italia, non gode di molto rispetto. Tanto che i più bravi sono costretti a fuggire. Io sono rimasto… appunto. E’ stata coniata la parola scientismo per connotare in modo negativo la fiducia nella scienza. Questa parola viene usata da fini umanisti che, ovviamente, morirebbero alla prima malattia se gli scienziati non avessero sviluppato conoscenza sul corpo e tecnologia farmaceutica. Ma lasciamoli alle loro miserie e continuiamo il ragionamento.

Per far fronte alla scarsa considerazione per la scienza e per chi la pratica, il Ministero che si cura dell’educazione e della ricerca (ha cambiato nome così tante volte che ho rinunciato ad imparare la dicitura corrente) ha istituito la Settimana della Cultura scientifica. In quella settimana ferve un ardore scientifico in tutte le scuole, i fanciulli (e le fanciulle) si impegnano in arditi progetti e celebrano le gesta di grandi scienziati. Finita la settimana, celebrati i fasti della scienza, si torna alle cose serie: poesie a memoria, e dimostrazione di teoremi. Insomma, si torna alla vera Cultura. Quella con la c maiuscola. Se si celebra la Settimana della Cultura Scientifica, significa che le altre 51 settimane dell’anno sono dedicate (senza bisogno di dedica) alla Cultura che non necessita di alcun aggettivo: la cultura umanistica. Io mi ribello a questa visione che mette l’uomo fuori dalla natura. La cultura è una sola. Si divide in molte branche e tutte hanno la stessa dignità. Ma perché la chimica, per essere apprezzata, deve essere ridotta in versi? La chimica si fa in un certo modo. Non deve diventare poesia, lo è già di per se stessa, senza bisogno di scimmiottare  la poesia-poesia.

Trovo che questa celebrazione sia un insulto alla scienza. Trovo che sia un insulto alla scienza pensare che una persona si formi se impara rosa rosae rosae rosam…, mentre fa lo stesso se non sa come si forma la pipì. Scommetto che non lo sapete neppure voi. Se bevete un litro d’acqua e poi andate a fare pipì, che strada ha fatto l’acqua? Non lo sa quasi nessuno, forse neppure l’ex miss Italia che si vanta di essere bella perché ne fa tanta. Non sapere come funziona il proprio corpo non è visto come una carenza culturale.

Propongo di abolire la Settimana della Cultura Scientifica e di riformare invece la scuola in modo che la formazione dei nostri giovani virgulti avvenga senza questa dicotomia tra scienza e cultura. Abolendo i compartimenti stagni che dividono le discipline. Non fummo fatti a apprendere per materie distinte, ma per acquisire virtute e conoscenza in modo fluido e continuo, senza paratìe.

Bene, ora siamo pronti per il Giorno della Donna. Non mi piace! Mi pare una fregatura per le donne. Significa che ci sono poi, impliciti, 364 giorni dell’uomo. Tutti i giorni sono il giorno della donna (e dell’uomo, e del bambino/a), e si devono celebrare abolendo le differenze ingiuste, dando però rilievo alle differenze che, per fortuna, ci sono tra i due generi principali (no, non dimentico gli omosessuali e i transessuali). Mi fanno arrabbiare i negozi di giocattoli. Le femmine hanno a disposizione ferri da stiro, bambole a cui cambiare il pannolino o da far diventare veline, e batterie di pentole, forni a microonde. I maschi hanno missili per andare su altri pianeti, sottomarini per esplorare gli abissi, mostri componibili per assemblare i loro incubi, laboratori da scienziato pazzo, fucili intergalattici per uccidere gli alieni. Le femmine in cucina, a cambiare i bambini, oppure ad agghindarsi per attirare i maschi. I maschi nel cosmo! Però, l’otto marzo, le femmine, anzi, le donne, possono andare fuori da sole, e guardare lo spogliarello maschile. Una volta tanto, tocca a loro! Ma come, questo è il modello? Gli uomini perdono la loro dignità pur di avere la possibilità di accoppiarsi con una donna, e altri uomini riducono in schiavitù le donne per questo, e le donne, per reazione, vogliono fare uguale?

Durante il servizio militare mi sono sempre sorpreso del nonnismo. Le reclute più deboli subiscono atroci trattamenti da parte dei militari più anziani (i nonni) ma, una volta diventati anziani, i vessati si tolgono la soddisfazione di fare altrettanto. Invece di dire no, e di rompere la catena del nonnismo, la perpetuano. A volte lo fanno persino i popoli. Il nonnismo delle donne nei confronti degli uomini dura un giorno. Mi direte che sono un maschilista insensibile, ma a me il giorno della donna pare una fregatura per le donne, proprio come la settimana della cultura scientifica è una fregatura per gli scienziati.

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I pini di Lecce

I pini di Lecce sono stati tagliati quasi tutti. Ricordate quando si è tentato di tagliare i primi, sul Viale degli Studenti? C’è stata gente che si è incatenata ai poveri alberi, condannati a morte. Poi, dopo un po’, uno è caduto su una ragazza che passava di lì, rovinandole la vita.  A Roma un motociclista è stato ucciso da un pino, caduto all’improvviso, e incidenti simili si stanno verificando un po’ in tutta Italia.  Tutt’a un tratto, i pini han cominciato a cadere. E dopo le prime vittime sono stati eliminati.

Molti di quei pini sono stati piantati durante il ventennio mussoliniano. Tutti assieme, in tutto il paese. I pini hanno una vita media: passato un certo numero di anni tendono a cadere, naturalmente. Quegli anni di vita media sono passati, e i vecchi pini muoiono. I pini, inoltre, non sono alberi da città. Le loro radici sono superficiali, e alzano l’asfalto, rovinano le pavimentazioni. Non vanno bene, e poi non sono alberi che naturalmente vivono qui. Qui un tempo c’era la lecceta, e il leccio ha dato il nome e il simbolo alla nostra città. Piantiamo lecci, come abbiamo fatto in Piazza Mazzini. Le palme se ne stanno andando per il punteruolo rosso, un insetto venuto dai loro luoghi di origine. Le palme sono importate e, a volte, assieme a loro importiamo i loro predatori. Mettiamo vegetazione nostrana, nelle nostre città.

Quando i pini sono stati tolti, quindi, ho visto con grandissimo favore la scelta di mettere i lecci al loro posto. A Lecce ci devono essere i lecci. Ma ricordate che si era parlato di tagliare i lecci sul viale che separa la Villa Comunale dal Palazzo della Provincia? Il motivo era che i rami stavano rovinando il palazzo storico. Poi, per fortuna, c’è stato un ripensamento e una bella potatura è stata sufficiente.

Quei lecci distano circa cinque metri dal palazzo, eppure rappresentavano una grave minaccia alla sua integrità e, anche, alla sua visibilità. Sono begli alberi maestosi, i lecci.

Ora, in Viale Imperatore Adriano ci sono dei giovani lecci piantati a un metro di distanza da un palazzo. Ce n’è una fila bella lunga. Gli alberi sono quelli giusti. Ma il posto è sbagliato. Quell’albero crescerà, e andrà a sbattere contro quel balcone, cercherà di sfuggire e si piegherà verso la strada, crescendo sghembo. Ma è troppo vicino e renderà comunque la vita difficile agli abitanti dei primi piani di quella casa, oltre a rendere difficile l’agibilità del marciapiede. Non si può piantare un leccio a un metro da un palazzo. E’ una follia. Eppure eccola lì.  Ci sono strade in cui gli alberi ormai coprono la segnaletica, e il codice viene rispettato “a memoria”. Ma se viene qualcuno da fuori, che non sa, come la mettiamo?

Quando si pianta un albero, bisogna considerare lo spazio necessario per la pianta adulta. Sembra una cosa talmente logica, no? Se si costruisce un edificio pubblico, bisognerebbe pensare anche che poi necessiterà di manutenzione. Il tempo passa e, se gli alberi crescono, gli edifici invecchiano. Ma i soldi ci sono sempre per costruirne di nuovi, mai per fare manutenzione ai vecchi. Bisogna aspettare che crollino, come sta succedendo allo Sperimentale Tabacchi.

E’ vero, noi siamo il paese in cui si affrontano oggi i problemi di ieri, e non si ha il tempo di pensare a quelli di domani. Ma non ci vuole gran che a piantare quell’albero un pochino più lontano, lo spazio c’è. Si sarebbe fatta la stessa fatica. Chi sarà il responsabile di questa scelta? Come la giustificherà? Basta guardare i lecci più grandi per capire come diventerà quel piccolo leccio. Non ci vuole un esperto di botanica per capirlo, lo capisco persino io. Ma ora forse ho capito cosa ha spinto a questa scelta apparentemente dissennata. Quando quell’albero sarà cresciuto sarà un problema, che renderà necessario l’investimento di nuove risorse per essere risolto. Verranno i giardinieri, scale, camion per portare via i rami tagliati. Forse lo si dovrà espiantare e se ne pianterà uno nuovo. L’economia si muoverà e il PIL aumenterà. Mentre, se si fosse messo nel posto giusto, non avrebbe richiesto altri interventi, e l’economia sarebbe rimasta stagnante.

Ora finalmente ho capito la logica di quel giardiniere. Potrei spiegare che i soldi necessari per fare quelle operazioni derivano da fondi pubblici, sottratti ad altri bisogni dei cittadini, ma questo ai misuratori del PIL non interessa. Se l’albero dà fastidio e necessita di manutenzione, il PIL aumenta. E quindi quel giardiniere non è un incompetente, è un benefattore dell’economia che non pensa solo all’oggi, garantendo anche un prospero domani. Ha una sua logica tutto questo, non lo nego. Ma non la condivido affatto.

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Ciclisti a Lecce

Se la mattina, verso le 8.30, e la sera, verso le 18.30, vedete un ciclista con zaino sulle spalle e un caschetto azzurro, destreggiarsi nel traffico tra il centro di Lecce e Ecotekne, bè, quello sono io. Ho scelto la bicicletta per muovermi tra casa e ufficio, all’Università. Quei quaranta minuti, tra andata e ritorno, sono la mia ginnastica quotidiana, e ne sono molto contento. Anzi, sarei molto contento se non ci fosse qualche problemino lungo il mio tragitto. Prima di tutto il fondo stradale. All’ingresso di Lecce, dopo la salita da Monteroni, la strada è dissestata in modo quasi intollerabile per la parte del corpo che poggia sul sellino. Ma se l’abbiamo appena asfaltata! potrebbe dirmi un solerte amministratore. Sì, è vero, ma l’asfalto liscio è solo al centro. La parte destra della carreggiata, quella dove devono andare i ciclisti, è rimasta dissestata. Se cerco di stare sul “liscio” le auto mi passano a un millimetro di distanza, per sorpassarmi. D’altronde devo stare molto attento a tenere bene la destra, perché l’apertura improvvisa di uno sportello è sempre in agguato. Le rotonde sono un incubo.

Gli automobilisti ti sorpassano e poi ti tagliano la strada per uscire. Le biciclette non esistono. A metà di Viale Gallipoli c’è una pista ciclabile, sul marciapiede. Ma raggiungerla se si va verso la Questura non è facilissimo. E poi bisogna attraversare la strada tre volte, prima di arrivare in Viale Otranto. Ci sono le strisce, per terra, ma nessuno sa che sono come strisce pedonali, e che le auto si dovrebbero fermare. In più, le piste ciclabili sono spesso utilizzate come parcheggio. Sempre solo per un minuto, ovviamente, proprio nel minuto in cui passo io, però!

Insomma, più che piste per bici, ci sono percorsi di guerra. Con morti e feriti.

Io sono uno dei feriti. Nel 2005, facendo il sottovia lungo il mio percorso casa-ufficio, la ruota anteriore della mia bici è andata a finire in un insidioso gradino a destra della carreggiata, proprio dove devono passare i ciclisti (ora non c’è più, per fortuna). Sono caduto sulla faccia, e sembravo Berlusconi dopo il lancio del Duomo. Ho sputato un dente, e altri tre sono ormai morti. Il mio dentista ha fatto un ottimo lavoro, ma prima o poi quei denti si romperanno, sono morti. Un collega giurista mi ha detto che la responsabilità è del Comune e mi ha consigliato di far causa. Cosa che ho fatto. Paride, il mio avvocato, sta seguendo la questione. L’ho visto l’altro giorno, e mi ha detto, sconsolato, che la prossima udienza è stata fissata per novembre, non ho capito se 2010 o 2011. Ho fatto visite, sono già andato di fronte al giudice, con tanto di testimoni, la Stradale ha fatto il sopralluogo e ha confermato che la strada era pericolosa (tanto che il Comune l’ha aggiustata). Mi è stato detto che le cause per questi motivi sono tantissime, e che il Comune non ha i soldi per pagare tutti, e la sua assicurazione non è sufficiente a coprire tutte le richieste di danni. Il che significa che non sono il solo. Avevo cercato strade alternative, in campagna. E le ho anche trovate, passando dall’istituto Agrario. Bellissime. Ma ci sono i cani randagi, che si divertono a inseguire le bici. Una volta ho incontrato un rottweiler libero. Non ho mai pedalato così velocemente in vita mia, per uscire da quello che, per lui, era il suo territorio. Meglio le automobili. E son tornato sulla strada.

Se mi vedete, salutatemi, mi fa piacere. Se tra i lettori di questo articolo ci sono anche il Sindaco e il Presidente della Provincia, mi permetto di chiedere che si mettano d’accordo e facciano una bella pista ciclabile tra il centro e Ecotekne, magari con un’illuminazione dedicata. Già, perché ora sono tranquillo, le giornate sono lunghe, ma d’inverno torno con il buio, e una parte del mio percorso è priva di illuminazione. Lecce è un paradiso, e io sono felice di vivere in un posto così bello. Spero solo di potermelo godere il più a lungo possibile, e vorrei anche vedere centinaia di studenti venire a Ecotekne in bici. Ma se mia figlia dovesse un giorno frequentare la nostra università, le proibirei di andarci in bici: troppo pericoloso.

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Orfani di Manuela?

Qualche anno fa, un esperto di comunicazione, credo fosse Gianni Ippoliti, escogitò un modo geniale per far parlare di Porto Cesareo: erigere un monumento a Manuela Arcuri. Gianni Ippoliti è un genio della comunicazione ironica. Le mattina fa la rassegna stampa delle cronache rosa e, in modo serissimo, deride quelle false notizie di cui si beano molti lettori e lettrici di popolarissime, improbabili riviste di improbabile attualità. Il momumento a Manuela Arcuri è, ovviamente, un’operazione di cultura ironica. Solo che è stato preso sul serio. Un monumento di pietra leccese, con opimi quarti posteriori e generose ghiandole mammarie, stringe a sè un corno dell’abbondanza. Sotto, una lapide marmorea informa il passante che è il Mare di Porto Cesareo a decantare Manuela Arcuri, simbolo di bellezza e prosperità. La lapide informa poi, burocraticamente, che sono gli operatori turistici ad aver offerto alla posterità questa imperitura celebrazione. Qualche folle iconoclasta, emulo del deturpatore della Pietà di Michelangelo, ha violato l’opera, mozzandole il naso. Ma la deturpazione è stata presto riparata, restituendo alla cultura cesarina il suo simbolo più bello e qualificante.

Quando, nel 2002, la statua fu eretta, è vero che di Porto Cesareo parlò tutta Italia. Ma lo fece con la stessa ironia con cui Gianni Ippoliti legge delle disavventure amorose di starlet e tronisti. Basta che si parli del paese… non ha importanza a che titolo! Credo sia questa la filosofia che sta dietro questa scaltra operazione mediatica.

Se Porto Cesareo non fosse quel che è, forse ci sarebbero motivi validi per sostenere questa iniziativa. Ma Porto Cesareo è sede di un’Area Marina Protetta, dell’unico parco nazionale presente in Provincia di Lecce. Lo Stato Italiano ha scelto il mare di Porto Cesareo per “fare un monumento” alla sua qualità, decretandone l’importanza per l’intera nazione. Da quando c’è l’Area Marina Protetta, di Porto Cesareo hanno parlato decine e decine di trasmissioni televisive dedicate al mare. Da Linea Blu, a Pianeta Mare, Linea Verde e molte altre. Messe assieme, queste trasmissioni sommano a ore di copertura mediatica su canali nazionali, ore in cui si mostrano a milioni di persone le cose più belle che il territorio di Porto Cesareo ha da offrire. Il monumento a Manuela Arcuri ha goduto di qualche secondo di copertura nel momento in cui è stato “offerto” alla popolazione, e poi è sprofondato nell’oblio. Ogni tanto qualche turista si faceva fotografare di fronte alla statua, qualcuno, con un po’ di sforzo, cercava di accarezzare le chiappe di Manuela che, pare, abbiano proprietà taumaturgiche.

Ora la statua fa ancora parlare di sé, perché l’amministrazione comunale l’ha fatta rimuovere. Gli operatori turistici sono in rivolta. Possono tollerare tutto, possono tollerare le strade che si allagano alla prima pioggia, lo sbancamento delle dune, l’abusivismo selvaggio, il porto che si intasa, le spiagge erose dalle onde, ma Manuela no, non si tocca. E’ la cosa più importante che hanno fatto per l’immagine del paese.

Un giorno ho sentito un amministratore cesarino che si prefiggeva questo obiettivo: Voglio fare di Porto Cesareo la Rimini dello Ionio. Rimini? Ma a Rimini il mare è una schifezza, e gli amministratori, di concerto con gli operatori turistici, hanno dovuto inventare attrattive alternative: piscine sulle spiagge, locali da ballo e da sballo, e altre attività che, loro malgrado, attirano fiorenti attività legate al mercato del sesso. Rimini è diventata anche grande centro congressuale. Rimini è nota e rinomata per decine di cose, ma non certo per la qualità del suo ambiente naturale.

Porto Cesareo è l’opposto di Rimini. Il turista che vuole Rimini ha l’originale a disposizione, perché mai dovrebbe andare a Porto Cesareo?

Come si può essere così ciechi da non capire che di Porto Cesareo si parla continuamente per ben altri motivi? Come si può essere così miopi da non essersi resi conto che di Porto Cesareo parla tutta Italia, continuamente, perché ogni anno, sommate, ci sono ore di trasmissioni televisive dedicate alla sua Area Marina Protetta? I salentini che vanno a Porto Cesareo ci vanno per il pesce e i ristoranti e, in estate, per il mare. Non hanno bisogno della statua di Manuela per sapere di Porto Cesareo. Vent’anni fa, sulla guida del Touring Club, Porto Cesareo era segnalata per un solo motivo: la presenza del Museo di Biologia Marina. Oggi il Museo è ancora un motivo di vanto per il paese, ma ormai è l’Area Marina Protetta ad essere il marchio di qualità che fa la differenza. Se, ormai, di Porto Cesareo si parla più che di Gallipoli, il motivo è solo uno: l’Area Marina Protetta. L’obiettivo degli operatori turistici deve essere uno solo: mantenere con la qualità e l’onestà delle proposte quel che promette il marchio di altissima qualità conferito dalla presenza di un parco nazionale. Sabato mattina Gianni Ippoliti ha mostrato gli articoli di giornale che “denunciavano” il sopruso della rimozione del monumento, e in uno di questi c’era una foto di una turista che fotografava due turisti, uno a destra e uno a sinistra, sghignazzanti, che toccavano uno la chiappa destra e l’altro la chiappa sinistra della Manuela marmorea. Ed è proprio con questo spirito che tutti hanno parlato di Porto Cesareo, uno spirito sghignazzante. Fare i pagliacci per attirare l’attenzione è una strategia vincente quando non si ha altro da offrire. La rimozione della statua è un segnale di comprensione delle qualità di Porto Cesareo, forse gli operatori turistici potrebbero offrirla a qualche paese costiero meno fortunato. Se trovano qualcuno che la vuole…

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Il cancro no!

Ieri ho comprato due uova di Pasqua. A me non piacciono le uova di Pasqua, e so che si tratta di un prodotto commerciale che sfrutta un momento particolare. Però le ho comprate lo stesso, perché comprandole ho finanziato la ricerca sul cancro. Praticamente si tratta di una colletta. Facciamo la colletta con le azalee, le uova, le arance, e con tante altre cosette con cui si cerca di racimolare fondi per finanziare ricerche. Come mai? E’ semplice: perché i finanziamenti alla ricerca sono scarsissimi. Oramai è un luogo comune parlare di fuga dei cervelli. I ricercatori scappano perché qui non trovano condizioni buone per lavorare. Non ci sono soldi per pagarli e non ci sono soldi per farli lavorare. Il nostro paese ha rinunciato alla ricerca scientifica. Le Università sono in bancarotta e, compresa la nostra, rischiano di chiudere. Non sta succedendo altrove, succede qui, da noi.

Ieri però ho sentito un signore importante promettere che “vogliamo vincere il cancro”.

A me è simpatico quel signore, non lo nego. Però sul cancro non si scherza. Tutti, nelle nostre famiglie, o tra le nostre amicizie, abbiamo qualcuno che è morto di cancro. Non si scherza.

Come può uno stato che non investe in ricerca pensare di promettere di vincere il cancro? Intanto ci sono decine e decine di tipi di cancro. E moltissimi tipi di cancro derivano dalle condizioni ambientali. A Taranto c’è uno dei più alti tassi di tumori all’apparato respiratorio del mondo. Del mondo! Non basta una pastiglietta o un passaggio in una macchina miracolosa per guarire i tarantini malati. Il cancro se lo prendono a causa di quello che respirano. Debellare il cancro significa prima di tutto rimuovere le cause ambientali che fanno venire il cancro. Discariche abusive, fabbriche inquinanti, fumi non filtrati, scorie tossiche (nucleari e non), residui di lavorazione. Tutta questa roba fa venire il cancro. E’ inutile curare i sintomi se non si rimuovono le cause. Il cancro non si vince solo con la medicina. Si vince con l’ecologia, con la cura dell’ambiente. Non basta dare tanti soldi a un ospedale dove lavorano alcuni bravi ricercatori. E’ importante, grazie! ma non basta. Non basta a poter affermare di poter debellare il cancro. Assieme alle cure bisogna rimuovere le cause. Ma come mai di ambiente, alla fine, non parla mai nessuno, se non in modo generico? Noi, qui in Salento, abbiamo molte polveri sottili nell’aria. Non sembra, ma ci sono. Vengono da grandi impianti industriali. E poi dalle auto, ovviamente.

Queste fabbriche danno occupazione, danno da mangiare a tanta gente. Però danno anche la morte. In modo sottile. Non uccidono direttamente, ma fanno morire piano piano. Non sono problemi facili da risolvere. E richiedono serie, serissime riflessioni. Non ci sono bacchette magiche, soluzioni miracolose.

Sono disposto a bermi tutto, a pensare di poter pagare meno tasse (ricevendo servizi migliori, lo promettono tutti), ad avere un lavoro garantito per mia figlia (ce ne sarà uno nel milione di posti di lavoro che arriveranno, no?), a pensare persino di vivere 120 anni (mia nonna Ottavia è arrivata a 101, quindi magari ce la faccio), ad essere circondato di bellissime donne (almeno sul mio schermo televisivo, mentre altri le hanno vere, a destra e a sinistra), e ad avere la possibilità di diventare milionario (con una bella lotteria: prima o poi toccherà anche a me, no?). Me le bevo tutte. Però col cancro non scherziamo. Un po’ di rispetto per chi è malato, per chi ha dei malati in casa, per chi ha perso persone care. Queste non sono cose da promettere. Perché non si può vincere il cancro con le sole medicine. Non si può.

Se qualcuno ve lo promette, vi sta prendendo in giro o, in alternativa, è stato preso in giro da qualche ciarlatano e ripete quel che gli han fatto credere. In entrambi i casi non fa buona figura. Purtroppo queste affermazioni sono state fatte in un momento politicamente rilevante, e io non voglio influenzare nessuno con questo, il mio è un intervento di tipo tecnico, ed è mio dovere di ricercatore dire quel che penso, per informare chi magari non è in grado di capire. Sul cancro non si scherza. Un po’ di rispetto!

Ma poi, risentendo la frase, ho capito che non si tratta di una promessa. La frase dice: “vogliamo vincere il cancro” e tutti vogliono vincere il cancro no? Mica ha detto che lo vince. Ha detto che lo vuole vincere.

Alle poste una volta ho visto una pubblicità di fondi di investimento. La scritta grossa diceva: Obiettivo: Rendimento Garantito. Poi chiedere il rimborso quando vuoi.

Sotto, la scritta piccola diceva: Non vi è garanzia di rendimento nè di restituzione del capitale. E’ una truffa, ho pensato. Ma no! L’obiettivo è di garantire un rendimento, ma poi magari non lo si raggiunge. Succede. E tu i soldi li puoi chiedere indietro: ecco il modulo. Ma loro poi non te li restituiscono. Lì si dice solo che c’è un obiettivo e che puoi chiedere i soldi indietro. Non c’è scritto che te lo danno il rendimento, e neppure i tuoi soldi.

E quindi è vero: Vogliamo vincere il cancro! Che scemo sono stato a non capire. Esiste qualcuno così cattivo da non voler vincere il cancro? Vincerlo davvero è un altra storia. Obiettivo: vincere il cancro. Mica ha promesso che lo vince. Ha solo detto che vuole vincerlo. Tutto a posto. Ma le Poste di chi sono ora?

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Cultura da cani

Niki Vendola, a chi gli chiedeva di indicare un punto importante, non affrontato nei suoi cinque anni di presidenza e da affrontare nel caso dovesse essere rieletto, ha risposto: il problema del randagismo e i diritti degli animali. Mi ha sorpreso, devo dire. Perché si tratta di un problema talmente grosso che, sempre usando il linguaggio di Vendola, la promessa di risolverlo potrebbe essere una “balla spaziale”. Però è bene che se ne parli.

L’Italia è l’unico paese dell’Europa Occidentale dove le persone muoiono sbranate dai cani randagi. E’ successo a una turista tedesca che correva su una spiaggia, a una contadina umbra, e a molti bambini. Se vi capita di girare per le strade di campagna del Salento, in bicicletta, vi sarete accorti che è frequente incontrare cani randagi e, a volte, succede che attacchino. Io andavo in campagna con mia figlia, in bicicletta, e ho dovuto smettere. Pare che il Salento detenga il record italiano di numero di cani randagi. Da dove vengono?

Se in casa c’è un bambino, la tentazione di comprargli un cucciolo con cui giocare è grande. I cuccioli delle specie che necessitano di cure da parte dei genitori hanno fattezze che stimolano l’attenzione benevola. I segnali sono gli stessi in moltissime specie: occhi grandi, emissione di suoni accattivanti, atteggiamenti sottomessi. Si tratta di segnali irresistibili. Nessuno resiste a un cucciolo. In questi casi i cuccioli sono due. Uno è il nostro cucciolo (il figlio) e l’altro è il cucciolo di cane, lo stimolo è doppio.

I cani, però, crescono molto in fretta rispetto agli umani, e tutte le caratteristiche che rendevano irresistibile il nuovo membro della famiglia si trasformano in difetti. Sporca, abbaia, morde i mobili e i tappeti, magari morde persino la zia. Il bambino, dopo l’entusiasmo iniziale, se ne disinteressa. E il carico cade su papà e mamma, che hanno altro da fare. Si deve partire per le vacanze, e quella che sembrava una buona idea diventa un problema. La soluzione è semplice: si abbandona il cane per strada. Non fraintendetemi, non dico che tutti i rapporti tra cani e umani siano di questo tipo. Gli anziani, per esempio, rarissimamente abbandonerebbero un cane. Non lo abbandonerebbe neppure un cacciatore. Però tutti quei cani in campagna ci sono perché qualcuno li ha abbandonati. Certo, poi si riproducono e il numero aumenta, ma l’innesco del processo deriva dal comportamento degli umani.

E’ quindi un problema culturale, ed è difficile modificare la cultura. Di sicuro non possiamo pensare di modificare la cultura dei cani. Si tratta di animali sociali, che formano branchi, e che sono carnivori. Inseguono prede, le uccidono e le mangiano. Oppure mangiano rifiuti. Ma l’istinto del carnivoro rimane, non si estirpa. Rimane inespresso se i bisogni fondamentali sono soddisfatti dalle amorevoli cure del padrone, ma può anche succedere che riesploda senza apparente motivo. Nessun problema se l’amico dell’uomo è un barboncino, ma il problema è grosso se è un pitbull. Tra parentesi, quante volte avete letto di ladri sbranati dai cani, e quante volte avete letto di figli dei proprietari del cane sbranati dal cane? Può anche succedere che animali particolarmente aggressivi vengano abbandonati da veri e propri delinquenti. Dietro ogni cane abbandonato c’è un umano, non dimentichiamolo mai.

Intanto occorrerà catturare tutti questi animali, come minimo fare una campagna di sterilizzazione, in modo che non aumentino. E poi cercare di affidarli a famiglie che li possano tenere. I costi per la collettività saranno grandi, e non mi piace pensare che molti animali finiranno per essere soppressi.

Oltre a morderci, i cani possono ucciderci provocando incidenti con la loro presenza sulla strada. Di solito sono loro a morire. Ma li contate i cani schiacciati sulla strada, mentre guidate? Provate. Sono tanti, tantissimi.

Vendola ha ragione a sollevare il problema. Perché è un problema grave, che intacca l’immagine della nostra terra, minaccia la nostra vita e mette a repentaglio la dignità dei cani. In quel brano di intervista, Vendola non ha spiegato come pensa di risolvere il problema, e mi dichiaro molto interessato. E vorrei anche conoscere l’opinione degli altri tre candidati.

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Non nel mio cortile

Gli anglosassoni hanno coniato un modo di dire molto efficace per dipingere un comune comportamento: Not In My Backyard (Non nel mio cortile) che viene poi abbreviato nell’acronimo NIMBY.

Tutti sono d’accordo che sia bello avere l’energia elettrica. Ma nessuno è disposto ad avere le centrali nel proprio territorio. In Salento dovremmo esser messi molto bene, abbiamo la più grande centrale a carbone d’Europa, però quando ci sono i temporali l’elettricità viene erogata in modo saltellante. Chi usa un computer lo sa bene, e tutti devono avere il gruppo di continuità, altrimenti sono guai.

Da più parti si dice che le centrali nucleari risolveranno il problema. Io sono molto ignorante in campo di energia, ma un pochino mi intendo di ambiente. Le scorie delle centrali non trovano opportuna collocazione. Forse possono essere usate per fare armi a uranio impoverito (che bello!), oppure possono essere sepolte, come fanno i gatti con le loro cacche (ma dove sono ora le scorie che a Scanzano Ionico non hanno voluto?), oppure possono essere affondate con navi obsolete, magari di fronte alla Somalia (ma anche di fronte alla Calabria). Credo che le centrali, nel loro periodo di funzionamento, diano buone garanzie di sicurezza. Ma non ci sono risposte al problema della dismissione (le centrali non hanno vita infinita, dopo un certo periodo devono essere smantellate) e a quello dello smaltimento delle scorie. Ma a noi delle generazioni future non interessa gran che.

Ho letto da qualche parte che, a livello nazionale, molti partiti sono a favore al nucleare. Ma ho anche letto che tutti i candidati alle regionali, di qualunque colore politico, dicono che se loro diventeranno governatori diranno no al nucleare. I politici nazionali dicono che il nucleare ci vuole, i politici locali non lo vogliono nel loro cortile. Noi siamo già il cortile del resto d’Italia, visto che produciamo più energia di quella di cui abbiamo bisogno e, inoltre, l’erogazione a noi che la produciamo è di basso livello (vi assicuro che a Milano non ci sono sbalzi di tensione durante i temporali). E giustamente i nostri politici non vogliono una bella centrale nucleare lungo le nostre coste. Il sito, prima del referendum che chiuse la nostra esperienza nucleare, era già stato trovato: lungo le coste di Avetrana, al confine tra la provincia di Taranto e quella di Lecce. Vicino alla grande pista di collaudo.

Ci potrebbero essere altri modi per produrre energia, ed è bello che la nostra regione sia al primo posto per la produzione di energie alternative. Ma pare che queste non possano essere la soluzione definitiva. Ci vogliono tante piccole soluzioni per arrivare a farne una grande. Noi ci crediamo furbi, giusto? Però sentite questa storia: produciamo tantissimi rifiuti, però non sappiamo cosa farne. A volte li lasciamo per strada (vedi Napoli) in attesa che “qualche santo” ci pensi. Ho letto che i nostri rifiuti vengono caricati su treni e portati in Germania, dove vengono inceneriti per produrre energia. Noi paghiamo i Tedeschi per questo servizio e loro guadagnano sia con i nostri pagamenti che con l’energia prodotta dai nostri rifiuti. Chi sono i fessi? Pare che l’Italia sia molto capace nella progettazione, realizzazione, e gestione di impianti di termovalorizzazione. Però nessuno vuole i termovalorizzatori nel proprio territorio. Capisco perfettamente, perché spesso c’è puzza e l’aria è malsana. Ma questo non dipende dagli impianti, dipende dal fatto che sono messi in mano a persone che non li sanno far funzionare.

Ho moltissimi rapporti con l’Università di Vienna, e vado spesso a trovare i miei colleghi e amici austriaci. Dietro l’edificio dell’Università c’è una costruzione coloratissima, opera dell’architetto Hudertwasser, spesso avidamente fotografata dai turisti giapponesi (e anche da me). Poi ho scoperto che è l’inceneritore. Non c’è puzza, non c’è rumore e, visto da fuori sembra un pochino il Centro Pompidou di Parigi, la prima volta che l’ho vista ho pensato che fosse un museo di arte contemporanea. Insomma, possibile che non si possano fare delle belle centrali a spazzatura (invece che a carbone o ad uranio) e trasformare i problemi in soluzioni? Gli altri riescono a farlo, perché noi siamo così fessi?

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L’uomo è una bestia

L’uomo è una bestia, diceva il comico Bracardi. E in effetti siamo animali. Il nostro nome scientifico è Homo sapiens sapiens Linneo, 1758. Linneo, nel 1758, pubblicò la prima lista di animali conosciuti a quei tempi, usando la nomenclatura binomia che ancora oggi viene adoperata. Forse ricorderete che poco tempo fa è stato decodificato il genoma dello scimpanzé e si è visto che è identico al nostro per il 98%. Una bella somiglianza. Lo scimpanzé si chiama Pan troglodytes (Linneo, 1758). Linneo è tra parentesi, questa volta. Perché Linneo non attribuì lo scimpanzé al genere Pan. Gli autori tra parentesi hanno descritto con un nome generico differente una specie oggi ascritta a un certo genere (in questo caso Pan). Sapete a quale genere è stato ascritto lo scimpanzé? Linneo lo ha chiamato Homo troglodytes. Eh già, c’era l’uomo sapiente (noi) e l’uomo delle caverne (lo scimpanzé). Poi qualcuno disse: non è possibile che lo scimpanzé sia nel nostro stesso genere. E così fu coniato il nome Pan e Linneo finiì ingloriosamente tra parentesi.

In seguito si vide che quelli che chiamavamo scimpanzé erano in effetti due specie: lo scimpanzé vero e proprio e il bonobo, a cui, nel 1929, Schwarz diede il nome di Pan paniscus.

Torniamo alla genetica. La somiglianza genetica tra i due scimpanzé e noi (il 98%)  di solito indica che le specie appartengono allo stesso genere. I generi, infatti, contengono specie molto vicine tra loro, specie che derivano da antenati comuni molto vicini. La genetica vorrebbe che le tre specie fossero messe nello stesso genere e che si chiamassero, quindi, Homo sapiens Linneo, 1758 Homo troglodytes Linneo 1758 e Homo paniscus (Schwarz, 1929). In questo caso Linneo esce dalla parentesi, dove invece finisce Schwarz, visto che per lui paniscus era Pan e invece è Homo.

Ci sono tre specie di uomini a passeggiare sul pianeta. Siamo meno soli. E forse questo ci dovrebbe rendere un pochino più umili.

La Chiesa è squassata dagli scandali sessuali, e i religiosi sono visti sempre più come pervertiti. I religiosi sono uomini (e donne) e appartengono ad una specie animale. L’imperativo categorico per tutte le specie è quello biblico dell’andate e moltiplicatevi. Il successo di una specie si vede dal numero di esemplari che la rappresentano e il successo di un individuo si misura con il suo successo riproduttivo. Il motivo ultimo degli individui è di procreare. E’ scritto nella Bibbia e ce lo ha insegnato prima Darwin, con la selezione sessuale, e poi Freud che, alla fine, ritrovava quasi sempre motivazioni sessuali nei nostri comportamenti (soprattutto da parte degli uomini). Ci sono differenze, infatti. Se volete vendere una cosa ad un uomo, mettete una donna nuda e il risultato è garantito. Con la donna nuda si vendono anche i copertoni. Per le donne, invece, funzionano i bambini. In effetti gli uomini fanno i bambini (vanno e si moltiplicano) attraverso le donne, e quindi vogliono le donne, mentre le donne fanno i bambini, e quindi a loro interessano direttamente i bambini. I pubblicitari lo hanno capito benissimo. I religiosi sono uomini. Secondo me è giusto che facciano voto di castità e non si possano sposare, perché quando hai figli sono loro la cosa più importante, il resto passa in secondo piano. La Chiesa sopravvive da 2000 anni perché di solito premia il merito e non si cura dei vincoli familiari. Però i religiosi restano uomini. Alcuni resistono alle pulsioni sessuali. Ma pare proprio che molti facciano solo finta. Dato che non hanno figli ufficiali, il problema non si dovrebbe porre (il nepotismo deriva dal favorire i figli dei religiosi, spacciandoli per nipoti). Ma questa repressione del nostro essere animali evidentemente crea dei problemi a molti. Perché siamo animali! Reprimere gli stimoli può addirittura portare ad aberrazioni e la sessuofobia a volte nasconde pulsioni diametralmente opposte. I famosi vizi privati nascosti da pubbliche virtù.

Non so che suggerire ai religiosi, da una parte la loro scelta di castità mi pare strategicamente giusta, dall’altra pare che si stia rivelando un fallimento biologico, perché la natura vince su tutto. O meglio, no, non credo. Credo che la stragrande maggioranza dei religiosi sia coerente con i propri voti e che le coperture dei cedimenti al peccato siano state fatte per vergogna e, ovviamente, non per approvazione di comportamenti contrari ai voti. Questi religiosi deviati, comunque, ci stanno dando una profonda lezione di umanità, e anche loro ci mostrano come siamo vicini ai nostri fratelli Homo troglodytes e Homo paniscus.

La differenza tra i due scimpanzé, e questo chiude questa piccola storiella, fu scoperta per via di comportamenti differenti. Prima scimpanzé e bonobo venivano tenuti assieme, negli zoo. Poi si è visto che alcuni erano aggressivissimi tra loro, in caso di conflitto, e potevano arrivare a gesti molto violenti, mentre altri non litigavano praticamente mai perché le femmine, alla prima avvisaglia di conflitto, si rendevano disponibili ai rapporti sessuali con tutti e i contendenti dimenticavano la lite e si svagavano con attività amorose. Gli scimpanzé fanno la guerra, i bonobo fanno l’amore. A quali saremo più affini noi?

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Ecologia a scuola… finalmente!

Lo ha chiesto Benedetto XVI, nel suo discorso di inizio d’anno: ci vuole più ecologia nelle scuole.  Da sempre, nelle scuole italiane (per fortuna) ci sono le olimpiadi della matematica, e quelle del latino. Sono queste le materie considerate “serie” nel nostro sistema educativo. Quelle che “insegnano a ragionare”. I ragazzi imparano la consecutio temporum e le equazioni differenziali, e questo farà di loro dei perfetti cittadini, però non sanno come mai ci sono così tanti problemi con l’anidride carbonica, anche se ne sentono parlare tutti i giorni, quando si parla di cambiamento climatico. Perché c’è più anidride carbonica nell’atmosfera? Oramai abbiamo imparato che dobbiamo preoccuparcene, ma non sappiamo veramente perché. Non sapere come funziona un ecosistema, oltre che definirci come ignoranti, ci rende anche pericolosi. Un valore aggiunto all’ignoranza “innocua” di consecutio temporum e equazioni differenziali. Perché se non sappiamo davvero quali sono i problemi che arrechiamo all’ambiente, magari non ci preoccupiamo davvero di alleviarli con il nostro comportamento. Ci vuole più ecologia nelle scuole. Il papa ha proprio ragione. Gli adulti sono culturalmente irrecuperabili, ma con i bambini si può fare. E allora perché non fare le olimpiadi dell’ecologia? L’idea è venuta a Alberto Basset, professore di ecologia presso l’Università del Salento e responsabile dell’Osservatorio su ecologia e salute degli ecosistemi mediterranei. La gara si svolge via internet, ed è sotto il controllo della Società Italiana di Ecologia. Sono tre anni che si svolgono queste olimpiadi, intitolate EcologicaCup. Quest’anno i temi sono stati: cambiamenti climatici, lagune, biodiversità, competizione. Si sono iscritte 93 scuole da 13 regioni italiane e, in un crescendo di difficoltà sempre maggiore, hanno risposto a centinaia di domande, tipo questa:

Il 2010 è l’anno della biodiversità. I governi devono dimostrare di avere attivato misure idonee per prevenire estinzione di specie. Ma abbiamo capito cosa è la biodiversità e cosa la controlla? Vediamo se trovi l’errore

A)  La biodiversità è la diversità tassonomica negli ecosistemi;

B)  La predazione, che è una interazione negativa tra popolazioni, generalmente favorisce la biodiversità;

C)  L’uomo utilizzando circa il 30% della produzione netta della biosfera causa direttamente una perdita di biodiversità;

D)  Le grandi metropoli sono ecosistemi con elevata diversità di specie nella biosfera

per chi non lo sa, l’errore è nella risposta A.

Per rispondere a queste domande i ragazzi hanno dovuto studiare, pensare, confrontarsi, discutere. Non ci sono cose da imparare a memoria, non c’è la regoletta da applicare. E molte cose non sono nei libri di scuola. I docenti diventano essenziali, nel guidare i ragazzi, e le fonti sono più nella rete che nelle biblioteche.

Ci sono state due graduatorie, una per le scuole e una per le squadre. La classifica e la descrizione della gara sono in rete:  www.ecologicacup.unile.it

L’Università del Salento è leader internazionale per le sue ricerche in scienze dell’ambiente, e dedica molta cura all’educazione ambientale: oltre all’Osservatorio su Ecologia e Salute degli Ecosistemi Mediterranei, ci sono il Museo di Biologia Marina di Porto Cesareo, il Museo dell’Ambiente e l’Orto Botanico. Il risultato di questa intensa attività probabilmente si riflette sul territorio, perché le scuole salentine figurano ai primissimi posti nelle graduatorie. Una grande soddisfazione per l’ideatore dell’iniziativa, il presidente della Società italiana di Ecologia, il prof. Pierluigi Viaroli, dell’Università di Parma, consegnerà i premi alla cerimonia di premiazione, il prossimo 14 Maggio.

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Le leggi della natura

Lunedi avrei dovuto partire per la Finlandia, per una serie di conferenze. Mi ha fermato il vulcano islandese. Non si vola in tutta Europa. C’è una lezione in tutto questo, ed è molto semplice: crediamo di essere così importanti e potenti, e invece basta un pochino di fumo per fermarci, una scossetta di terremoto, una frana, un’onda un pochino più alta del solito. Qualche mese fa ero sul Leonardo Express, per andare da Fiumicino a Roma, e ho iniziato una discussione “da treno” con un amico incontrato per caso… sul treno. Con lui c’era un signore molto serio che, per un po’, è stato a sentire le mie elucubrazioni sull’ambiente e sull’uomo. Ma a un certo punto il mare di castronerie che stavo dicendo (secondo lui) ha superato il limite ed è sbottato: tutto questo va contro le leggi dell’economia, e non si può scherzare su queste cose! Si devono valutare i costi e i benefici, e su questo si decide! Il resto sono chiacchiere! Io, ovviamente, chiedevo che nei costi fossero inclusi anche i costi ambientali, che gli economisti furbamente esternalizzano (una bella parola per dire: non considerano… tanto li pagano gli altri) nelle loro analisi. In quel momento, però, non volevo rispondere con sottili ragionamenti, e mi è venuta in mente un’obiezione che ha annichilito il mio interlocutore, come un diretto al mento. Eccola qui: se le leggi dell’economia e le leggi della natura entrano in conflitto, quali saranno quelle che prevarranno? Fine della storia. Non possiamo essere così arroganti da pensare che prevalgano le leggi dell’economia. Se infrangiamo le leggi della natura, a favore di quelle dell’economia, la natura ce la farà pagare cara, carissima. Anche in termini economici. Vuoi costruire una città vicino a un vulcano? Poi non ti lamentare se ti ritrovi una colata di lava nel soggiorno. Costruisci una ferrovia su un terreno franoso? Poi non ti lamentare se viene portata via (vi viene in mente qualcosa?).

Noi siamo parte della natura. E non possiamo essere così arroganti da pensare che sia lì al nostro servizio e che possiamo fare tutto quel che ci pare. Mi spiace. Il mondo non funziona così. Dobbiamo conoscere la natura, la dobbiamo rispettare, e ci dobbiamo adattare ai suoi ritmi, e alle sue leggi. Dobbiamo impararle, e dobbiamo costruire le nostre leggi rispettando le sue. Perché vengono prima delle nostre.

Pensiamo di essere importanti, pensiamo di poter dominare la natura, di soggiogarla ai nostri voleri, e se non si vuole assoggettare diciamo che è cattiva. Mi è rimasto in mente il concetto di natura matrigna, di leopardiana memoria. Concetto profondo e più complesso di quanto io lo possa adesso banalizzare, ma è questo che rimane in mente: la natura è cattiva, perché non fa quel che ci attendiamo da lei. E se le cose non vanno come ci attendiamo (tipo una gobba sulle spalle, e scarso successo nel corteggiare fanciulle), attibuiamo un volere malvagio alla natura.

Ma se io vado in Africa e mi avvicino a un branco di leoni che mangiano una zebra, e quelli mi attaccano e mi mangiano, sono loro ad essere cattivi o sono io che sono scemo? Lo devo sapere che i leoni non si disturbano. Lo devo sapere che le case non si costruiscono sulle dune a dieci metri dal mare, o vicino a un vulcano, o sopra una frana. Di chi è la colpa se il vulcano, o il mare, o la frana mi porta via la casa? Del vulcano?

Il mondo non è stato messo lì per soddisfare i nostri bisogni. Siamo di passaggio, e dobbiamo obbedire alle regole del gioco. Regole che, purtroppo, non vengono insegnate a Scuola, e neppure all’Università. Gli economisti, e gli ingegneri e tanti altri non conoscono le leggi della natura, perché non fanno parte dei loro programmi formativi. Se le conoscessero non ci avrebbero messo nei pasticci in cui ci troviamo ora. Intendiamoci, non sto dicendo che io le conosco. Ne conosco qualcuna, so che ci sono, che sono importanti. Ma molte cose ancora non le conosciamo. Ci siamo troppo concentrati su noi stessi, e abbiamo perso il contatto con la realtà, con il resto del mondo. Ci attendiamo dalla medicina che ogni causa di morte venga rimossa, e che non si muoia più! E ci attendiamo dalla tecnologia che un aereo ci porti a destinazione anche se c’è un vulcano in eruzione.

Questo vulcano ci sta dando una lezione di umiltà, e faremmo bene a comprenderla, e a cambiare il nostro modo di vedere il mondo, la nostra filosofia.

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La vita non è stata prodotta in provetta…

Craig Venter è un tipico uomo d’affari che opera, però, in campo biotecnologico. E la pubblicità è l’anima degli affari. Così ha lasciato intendere di aver “rifatto” la vita in laboratorio e di essere, quindi, una sorta di novello creatore.

In effetti ha assemblato in modo originale (cioè diverso da come era prima) un patrimonio genetico e lo ha inserito in una cellula pre-esistente che lo ha preso come proprio centro di comando. Il centro di comando di una cellula, il suo DNA, è stato sostituito con un DNA ricostruito artificialmente in laboratorio. Non voglio sminuire l’importanza dell’impresa tecnica compiuta dal gruppo di Venter. Hanno fatto una cosa che non era mai stata fatta prima, non a quel livello. Ma tante cose erano già state fatte prima. Come la clonazione, cioè l’inserimento di un DNA nuovo in una cellula privata del suo DNA. Solo che il DNA trapiantato era quello di un’altra cellula, e non un DNA ricostruito. Con l’ingegneria transgenetica si prendono pezzi di DNA di una cellula e si trapiantano in quelli di un’altra cellula, costruendo chimere genetiche. Una sorta di bricolage. E in questo caso i tecnici di Venter hanno assemblato pezzi di DNA, ricostruendo un patrimonio genetico. Tutte cose già fatte in precedenza, una ad una, ma mai fatte tutte assieme. Una grande impresa, quindi. Ma non è la creazione di materia vivente a partire da materia non vivente, non è una nuova origine della vita. La materia utilizzata per far funzionare quel novello DNA era quella di una cellula vivente.

Una cellula batterica, molto semplice, d’accordo, ma pur sempre una cellula batterica preesistente, che ha ricevuto il nuovo DNA ricostruito. Come mai tanto clamore, allora? Come mai i titoli gridano dai giornali che la vita è stata rifatta in laboratorio? La spiegazione è semplice.

Il mondo scientifico è costretto ad adeguarsi al sistema odierno della comunicazione. Se una cosa non viene enfatizzata e gridata, non si viene presi in considerazione. Tutto deve essere eccezionale, deve aprire nuovi scenari, sia in positivo sia in negativo. Di quante cure contro il cancro avete sentito parlare? Però è vero che, oggi, la diagnosi del cancro non è più una condanna a morte. La maggior parte dei pazienti sopravvive. E questo è frutto di una sola cosa: la scienza, la ricerca scientifica. Tutto quello che abbiamo attorno è frutto di ricerca scientifica. E se non lo è (ad esempio una poesia), come minimo è stato veicolato attraverso mezzi tecnologici che sono il frutto di ricerca scientifica.

Purtroppo, paradossalmente, una parte della società è ostile alla scienza. Alcuni parlano di “scientismo” per connotare negativamente un eccesso di fiducia nella scienza. Non oso pensare a quale altra forma di acquisizione di conoscenza possano riferirsi quelli che non apprezzano la scienza, ma è vero che le esagerazioni (come quella di Venter) possono ingenerare assuefazione nel pubblico. Ottenendo il risultato di non riuscire più a convincere. Intanto, in India, le colture transgeniche di piante che producono sostanze nocive per gli insetti a loro volta nocivi hanno agito da selettori per gli insetti, che sono diventati ancor più resistenti a quelle sostanze e agli insetticidi. Le piante transgeniche hanno risolto un problema ma hanno generato problemi alle piante non transgeniche che, ora, devono fare i conti con insetti potenziati, più resistenti. Sembrava tutto così bello, e invece… Il progresso scientifico, inteso come acquisizione di conoscenza, è ineludibile e non può essere fermato. Ma l’applicazione delle conoscenze e la loro trasformazione in tecnologie deve prendere in considerazione gli effetti collaterali, non solo sull’uomo ma anche sull’ambiente. Molti gli scienziati nucleari, quando hanno assistito agli effetti delle bombe atomiche, si sono spaventati dell’uso che l’uomo era riuscito a fare delle loro ricerche. Forse accadrà ancora, perché le tecnologie molto sofisticate spesso nascondono trappole altrettanto sofisticate e del tutto inattese, almeno da chi le ha sviluppate.

Questo aspetto è ancora poco valutato, e chi chiede cautela viene paragonato agli “anti-scientisti”. In effetti c’è una bella differenza tra fondamentalisti antiscienza e scienziati di altre branche (ad esempio l’ecologia) che chiedono cautela a chi manipola la natura senza comprendere appieno le conseguenze delle sue azioni. Gli scienziati sono dubbiosi per mestiere, e hanno la passione di contraddirsi a vicenda. E’ così che procede la scienza. Quando gli scienziati che studiano una disciplina sono tutti d’accordo, ad esempio nel ritenere valida la teoria dell’evoluzione o nell’essere allarmati dal cambiamento climatico, ci sono buone probabilità che l’idea che ha preso piede sia quella giusta. Non credo proprio che scopriremo che la terra non gira attorno al sole, ma che è il sole a girarle attorno, come non credo proprio che scopriremo che l’uomo discende direttamente da un Creatore e non da un antenato pre-umano. Ma in altri casi la scienza è più possibilista, e le certezze di alcuni non sono condivise da altri. Le novità giustamente devono ingenerare dubbi e critiche, perché solo così vengono vagliate e sottoposte a verifica, e se sono valide sono accettate da tutti gli scienziati e diventano nuovi paradigmi. Come l’evoluzione,  la cui teoria ha ormai convinto tutti gli scienziati, tranne uno: Antonino Zichichi. Che si ostina a dire che il sole gira attorno alla terra, anzi no, che l’uomo è frutto di una creazione diretta. Beh, quanto ad assurdità antiscientifica è bene o male la stessa cosa.

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Marea nera

Nel golfo del Messico la marea nera dilaga. E vediamo ancora immagini di tartarughe e uccelli anneriti dal petrolio, morti o agonizzanti. Non è la prima volta che assistiamo a queste scene. I naufragi delle petroliere ci hanno abituato alle conseguenze delle nostre ”attività”. Incidenti. Per un po’ se ne parlerà, poi, come dopo il terremoto di Haiti, arriveranno altri eventi a scatenare la nostra preoccupazione, o la nostra indignazione. Un vulcano erutta fumo lassù, un’inondazione fa franare un intero paese laggiù. Già abbiamo dimenticato i capodogli del Gargano. Nei miei interventi sul Quotidiano ho ribadito più volte un concetto molto semplice: se le leggi dell’economia e quelle della natura entrano in conflitto, quali saranno a prevalere? In nome dell’economia stiamo facendo violenza al pianeta che ci ospita, e lo facciamo in modo molto maldestro. Naufragano le petroliere, esplodono le centrali nucleari, scoppiano i pozzi di petrolio, franano le città. Questa è solo la punta dell’iceberg. Sotto ci sono tutti gli impatti meno visibili che, giorno dopo giorno, minano l’integrità dei sistemi naturali. Le polveri sottili, i pesticidi, l’ossigeno che si consuma e l’anidride carbonica che si produce, la distruzione degli habitat. E poi l’acqua, che diventa sempre meno “buona”, che viene negata a così tanta gente.

Un altro concetto che ho ripetuto fino alla noia è che la crescita economica non può procedere all’infinito. Se la nostra economia cresce, la natura si consuma, decresce. Il pianeta è un sistema finito, non può sostenere una crescita infinita. Cosa deve succedere perché questi semplici concetti diventino patrimonio di tutti noi? Le risorse rinnovabili non risentono molto del nostro uso se sono il sole e il vento, ma se sono i pesci o i boschi, o i campi coltivati, il rinnovamento avviene se il consumo non è troppo intenso. Se il consumo supera le possibilità di rinnovamento, le risorse si esauriscono. E avvengono i disastri.

Mi direte, cinicamente, ma a me che importa di una tartaruga, qualche delfino e qualche uccello marino? Son cose che avvengono lontano da qui. Abbiamo ben altri problemi, noi. Giusto. Come faccio a impietosire per qualche uccello e qualche foca chi ha perso il lavoro e non sa come arrivare alla fine del mese? Chi mi deve interessare di più, i figli dei cassintegrati e le loro famiglie, o i delfini del Golfo del Messico? Non ho dubbi. Mi interessano di più i figli dei cassintegrati. E i cassintegrati.

State tranquilli, la Natura ci penserà da sola a risolvere il problema rappresentato dalla nostra specie. Una rivista scientifica ha calcolato che, una volta che la nostra specie sarà scomparsa, ci vorranno circa diecimila anni perché le nostre tracce scompaiano quasi del tutto. Resterà qualche reperto, per archeologi alieni, ma la Natura si riprenderà il pianeta. Non è la Natura ad essere in pericolo, qui si tratta di un problema egoistico. La nostra specie sta esagerando con le sue aspettative di crescita e consuma più di quello che il sistema che la sostiene (la Natura) è in grado di produrre. Più chiediamo alla Natura e più ci dà, ma ci sono limiti. Non lo vogliamo capire. Quando la parte di Natura che ci sostiene sarà stata rovinata, il resto della Natura prevarrà, quel resto che “non ci serve”. Basta pensare a quanto ci affanniamo per far scomparire alcune specie (topi, scarafaggi, zanzare, parassiti, etc.) e a quanto esse resistano ai nostri goffi tentativi, mentre le specie che non vogliamo far scomparire… scompaiono. Stiamo rimuovendo i pesci dagli oceani, e la Natura ci regala le meduse. E ora come le togliamo? Gettiamo veleno in mare? Forse qualche pazzo ci sta pensando.

Lo “sviluppo” deve prendere altre strade, e le nuove strade non possono essere dettate da chi ci ha portato al disastro. Se capiremo questo, ci sarà futuro per i figli dei cassintegrati (e anche per gli altri). Dobbiamo ridurre le nostre aspettative, e dobbiamo vivere in modo più semplice, rispettando la Natura. L’intera economia deve essere reinventata e le sue leggi devono basarsi sulle leggi della natura. Questo rinnovamento richiederà molto più lavoro della costruzione di qualche ponte o di qualche superstrada, le vie allo sviluppo proposte un po’ da tutti coloro che perseverano nell’errore della crescita.

Intanto vogliamo tornare al nucleare (senza sapere dove metteremo le scorie), per avere sempre più energia, vogliamo trivellare il fondo del mare proprio come abbiamo fatto in Florida, per avere sempre più petrolio da bruciare. Se non ce lo lasciano fare qui, lo andiamo a fare in Albania, o in Cina (creando altri cassintegrati a casa nostra). Catastrofe dopo catastrofe, continuiamo allegramente a pensare che “qualche santo ci penserà”. E quando capiterà a noi, i nostri vicini, ancora non toccati, avranno un po’ di compassione ma poi si rallegreranno che non sia toccato a loro. Fino a quando non toccherà anche a loro. La specie in pericolo è la nostra, e i nostri peggiori nemici siamo noi. La Natura sa badare benissimo a se stessa. E quindi non ho nessuna pietà per le foche, per i delfini, neppure per le tartarughe. Se fossi di fronte a un bimbo che muore di fame e l’unica cosa che potessi dargli da mangiare fosse l’ultimo panda, farei a pezzi il panda e lo cucinerei per sfamare quel bimbo. Con buona pace del WWF. A me interessano i bambini, le donne, gli uomini. Il bello è che, se il mondo tornerà ad essere “usato” in modo razionale (ora è usato in modo folle), staremo meglio noi e staranno bene anche le foche, i delfini, e le tartarughe. Persino i panda.

E quindi eccomi qui a ripetere ancora una volta: la nostra cultura è distorta. Diamo valore a cose che hanno poco valore, e non consideriamo cose che hanno grande valore. Se la nostra cultura non cambierà, la selezione naturale farà il suo corso. Vorrà dire che non ci saremo adattati al nostro stesso impatto, mitigandolo, e ci spazzeremo via da soli. Se avessi tempo da perdere mi piacerebbe fondare una nuova associazione ambientalista, e come logo metterei un esemplare della nostra specie. Una specie da salvare da se stessa.

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Erosione costiera: soluzioni a confronto

Continua la polemica, tutti contro tutti, sull’erosione che sta affliggendo i nostri litorali. I tecnici che propongono soluzioni miracolose al problema si attaccano tra loro, demolendo la validità delle proposte dei concorrenti e vantando le proprie. I gestori degli stabilimenti sono in rivolta, i proprietari di case sull’arenile chiedono che vengano salvate.

Intanto, ai difensori del litorale con soluzioni ingegneristiche suggerisco un bel viaggio in treno, lungo la linea adriatica. A Nord del Gargano si sviluppa un sistema continuo di barriere che io chiamo la Lunga Muraglia Adriatica. Il problema dell’erosione è stato risolto: ora al posto della spiaggia c’è un bel muro. A volte direttamente sulla spiaggia, a volte a qualche metro di distanza, in modo che si formi una bella lagunetta putrida. Tutto è cominciato con il primo comune che ha fatto il suo muro. Quella difesa ha innescato una reazione a catena che ha portato in erosione i litorali vicini, anch’essi difesi con un bel muro (ce ne sono di tutti i tipi: barriere soffolte, barriere di massi naturali, tetrapodi in cemento, pennelli perpendicolari alla costa) e, nel giro di pochi decenni, tutta la costa è stata cementificata e massificata. Come mai c’è questo problema? Il motivo è molto semplice: abbiamo costruito direttamente sul mare, dalla linea ferroviaria, alle strade, alle case. E abbiamo pensato che la costa, soprattutto quella sabbiosa, sarebbe rimasta al suo posto per sempre. In modo da garantire a noi la possibilità di goderne. Aspettative da bambini viziati. La costa sabbiosa si muove, è una cosa naturale. L’erosione è una cosa naturale. La linea di costa cambia. Caso strano, poi, si costruiscono i porti e si insabbiano. Pare che la sabbia sia molto restia ad andare dove vogliamo noi! Non si costruisce dove non si deve, le conseguenze le stiamo subendo e le subiremo ancora. Alla natura deve essere lasciato lo spazio per “muoversi”. Le soluzioni messe in atto, invece, sono per imbrigliarla con pietre e cemento.

Qualche anno fa, a Tangeri, ho organizzato un convegno sull’erosione costiera nell’ambito delle attività della Commissione per il Mediterraneo. Sono venuti i migliori specialisti da tutto il mondo (potete scaricare gli atti del convegno, gratuitamente, qui: http://www.ciesm.org/online/monographs/Tanger.html) e alla fine, dopo giorni di discussioni e di confronti, si è arrivati alla conclusione che, dove possibile, sia meglio ritirarsi e lasciare spazio alla natura. A meno che non ci si trovi in Olanda. E’ anche normale che le falesie crollino. Se andate sulle Dolomiti, ci sono i ghiaioni. I ghiaioni sono fatti da massi e da ghiaia crollati, nel corso di milioni di anni, dalle montagne in erosione. Le nostre spunnulate sono il risultato del crollo delle volte di grotte formate dall’erosione dell’acqua di falda o di quella del mare.

Le nostre costruzioni si devono adattare ai ritmi della natura. E’ ovvio che i gestori di stabilimenti balneari siano disperati. Non possono arretrare, se la spiaggia arretra. Subito a ridosso della spiaggia ci sono edifici in cemento (a volte gli stessi stabilimenti balneari) o una strada, o case. Se non ci fosse nulla, a parte la natura, la spiaggia si riformerebbe in un altro posto (dove magari ora c’è un porto, e se si insabbia ecco che arrivano le proteste). Come è sempre successo, nel corso della storia geologica del nostro pianeta. Il mare toglie da qualche parte e riporta da qualche altra parte. Pensare di fermarlo con il cemento e i massi non dà buoni risultati, basta andare lungo tutta la costa adriatica per capire come diventerà la nostra costa se perseguiremo quella strada.

Dobbiamo cominciare a pensare alla ritirata dalla linea di costa, ritirata delle infrastrutture, prima di tutto le strade, e poi le case, le decine di migliaia di case abusive che abbiamo costruito direttamente sulle nostre spiagge. Dobbiamo rifare tutto il nostro territorio costiero, c’è grande lavoro per gli ingegneri e gli architetti ma, per favore, che lavorino di concerto con geologi ed ecologi. Da soli hanno già fatto abbastanza guai, e il prodotto del loro lavoro passato non è una buona credenziale. Tutto il territorio nazionale è a rischio idrogeologico (per frane o erosioni) perché si è costruito dove non si doveva. Ci vuole una diversa cultura del costruire, una cultura che riconosca i diritti della natura, e che non pensi che si possa correggere tutto con un po’ di cemento o un po’ di massi. Le soluzioni proposte sono solo dei lifting che maschereranno il problema, ma non lo risolveranno. La natura ha escogitato una soluzione infallibile al problema dell’invecchiamento: la produzione di nuovi individui. Noi vogliamo che tutto resti fermo e che nulla cambi. Ma il mondo non funziona così e la natura vincerà sul cemento. La soluzione al problema è radicale: occorre rinaturalizzare il sistema costiero, soprattutto nelle zone sabbiose. Le strutture, se proprio necessarie, devono essere temporanee, con palafitte di legno di facile rimozione. Se non lo faremo… accadrà lo stesso. Oppure il Salento diventerà come l’Olanda, o Rimini.

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La Stazione Zoologica di Napoli … un ente inutile!

La razionalizzazione degli Enti di ricerca messa in atto dal Governo prevede la soppressione della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, accorpandola ad altre strutture di ricerca del Ministero dell’Istruzione e della Ricerca Scientifica, togliendole autonomia e facendola diventare un istituto “qualunque”. La Stazione Zoologica è stata recentemente valutata da un Consiglio Scientifico composto, tra l’altro, da tre Premi Nobel per la Biologia e Medicina, e il parere unanime è stato di grandissimo apprezzamento per il lavoro che in essa si svolge. Il segreto del successo della Stazione Zoologica è la sua autonomia, la sua indipendenza. La ricerca scientifica, nel caso della Stazione Zoologica, è libera da lacci e lacciuoli burocratici e può esprimere al meglio le sue potenzialità, con intensissimi rapporti a livello internazionale. Anche la valutazione a cui si è sottoposta deriva da decisioni interne, per non restare nel ghetto dell’autoreferenzialità che affligge molte istituzioni di ricerca italiana. E’ paradossale che, invece di incrementare l’autonomia della ricerca, si tenda a burocratizzarla e ad  ingessarla sempre più, con la scusa delle razionalizzazioni. Da una parte è vero che l’autonomia dell’Università non è stata un’esperienza positiva (personalmente penso che si debba tornare alla centralità ministeriale) ma questo non vale per la Stazione Zoologica. E’ una grande responsabilità che l’Italia si assume. La Stazione Zoologica non è solo nostra, fa parte del patrimonio scientifico mondiale. La sua statura è dovuta al lavoro di centinaia di ricercatori di tutto il mondo che in essa hanno operato in piena libertà, con uno spirito che è stato “copiato” a livello globale, ispirando tutte le istituzioni di ricerca marina del mondo. La Stazione Zoologica è il simbolo mondiale della ricerca marina. Definirla “inutile” come entità autonoma è un insulto alla scienza e alla cultura. E’ una decisione che ci rende incomprensibili agli occhi della comunità scientifica internazionale. La mobilitazione del mondo scientifico sarà grande, ma sono ormai troppe le mobilitazioni in corso per difendere la scienza e si corre il rischio che questo gravissimo evento passi inosservato.

Forse chi ha preso questa decisione non conosce appieno la storia e il significato odierno della Stazione Zoologica, il simbolo che essa rappresenta. Sopprimere la Stazione Zoologica di Napoli come Ente autonomo e accorparla ad altri Enti è come accorpare la Basilica di San Pietro alla parrocchia di Monte Mario!

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Bianchi bastardi

La genetica, con la ricostruzione dei genomi, permette di comparare le specie e di ricostruirne la storia. Ovviamente la specie che ci interessa di più è la nostra, e siamo molto curiosi di trovare risposte alla domanda “da dove veniamo?”. La paleontologia, lo studio dei fossili, ci ha risposto ormai da molto tempo: veniamo dall’Africa. E sempre più si cerca di trovare la sequenza di reperti fossili che ci faccia vedere il momento della nostra venuta al mondo. Per decenni si è parlato di “anello mancante” alla catena della vita. Ma l’evoluzione si rivela sempre più tortuosa e strana, non ci sono linee così ben definite e le domande semplici (da dove veniamo) a volte hanno risposte molto complesse.

I paleontologi e gli antropologi, dopo quello che hanno combinato Hitler e Mussolini, sono molto attenti a parlare di “razze umane”. E’ comunque evidente che qualche differenza ci sia, tra i vari modi in cui la nostra specie si “esprime” nelle varie parti del mondo. I neri, i bianchi, i gialli, etc. sono effettivamente un’espressione di diverse tipologie di umani. Siamo tutti una sola specie perché tutte queste tipologie sono interfeconde e, quindi, non esistono barriere allo scambio di geni tra i vari tipi di umani, c’è piena compatibilità, e quindi siamo una sola specie.

In passato, invece, c’erano due specie di uomini che, per molto tempo, hanno convissuto. Noi e i neanderthal. Ci sono anche due specie di scimpanzè che ancora convivono, gli scimpanzè veri e propri e i bonobo. E’ una cosa normale, nel regno animale. Ma ora ci siamo solo noi, uniti nella diversità, a rappresentare gli umani. Unici.

Intanto i genetisti hanno decodificato il nostro genoma, e hanno anche decodificato il genoma dei neanderthal. E poi hanno iniziato a confrontare i genomi e, in questi giorni, abbiamo avuto una sorpresa inaspettata. Come in una telenovela, in cui il protagonista scopre di non essere figlio di quelli che credeva i suoi genitori, e improvvisamente si “vede” in modo completamente diverso, così noi, ora, dobbiamo guardarci con occhi differenti. Sono stati guardati i genomi di umani provenienti da Africa, Europa, Asia (in America siamo arrivati molto dopo) e si è visto che europei e asiatici hanno geni comuni con i neanderthal, mentre gli africani no.

I veri uomini, quelli “puri”, completamente originali, sono gli africani, i neri. Gli altri (inclusi noi) sono il frutto di incroci tra umani e neanderthal. Specie talmente vicine da permettere lo scambio di geni. Chissà se i neanderthal si sono davvero estinti, o se siamo noi i loro discendenti?

Le ricerche future ci diranno di più. Ma questa notizia ci deve far riflettere. E’ come se Bossi e Calderoli scoprissero di essere i nipoti di migranti musulmani arrivati in Padania poche generazioni fa.

Siamo meticci, bastardi, creoli… quante parole abbiamo coniato per etichettare in modo spregiativo i figli di genitori appartenenti a diverse tipologie di umani? E ora scopriamo di essere NOI il frutto di incroci tra veri umani e i neanderthal. Gli scienziati, lasciatemelo dire, amano il sensazionalismo e magari un giorno questa “scoperta” verrà ridimensionata e si rivelerà una bufala. Ma a me piace moltissimo.  Loro, i neri, i reietti dell’umanità, decimati dalla fame e dalle malattie, respinti alle nostre frontiere, ridotti a vendere cianfrusaglie per la strada, considerati quasi bestie da chi si sente così superiore, ridotti in schiavitù anche nel nostro paese… sono i VERI uomini. E noi, i bianchi, la razza superiore, quelli che hanno fatto tutto quel che di buono c’è nella nostra civiltà, siamo dei… bastardi, un incrocio.

Che lezione di umiltà, che ridimensionamento dei complessi di superiorità, delle origini “divine” della razza eletta. Avevo visto le ricostruzioni dei neanderthal e mi ero trovato spesso a dire: ma io in quelli rivedo tratti e fisionomie di persone che conosco. Ora mi guardo allo specchio e capisco. Certo che li conosco, siamo noi. Quasi. Non buttiamoci troppo giù, siamo anche umani, non tanto quanto i neri, ma in buona parte siamo umani. E anche un po’ neanderthal, però. Almeno fino alla prossima scoperta.

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Come da copione

Come da copione: cade la piaggia e succedono i disastri. E tutti siamo sorpresi che la Natura, cattiva, ci voglia così male. Natura matrigna, diceva il poeta, e quindi la colpa è sua. Noi, poverini, siamo le vittime. Le vittime, ovviamente, ci sono e su questo non si scherza, ma che sia la Natura ad essere responsabile… beh, permettetemi di esprimere qualche dubbio.

Siamo il paese dell’abusivismo,  e siamo il paese dei condoni. Condonare una costruzione abusiva significa metterla a posto con le leggi degli uomini, ma alla Natura, come ha detto Bertolaso in televisione, non gliene importa nulla delle nostre leggi. Ha le sue, e valgono più delle nostre. Se costruisci su un terreno che si muove, nell’alveo di un fiume (che magari è in secca da tanto tempo), su una duna di sabbia a cinquanta metri dal mare, in un avallamento del terreno, prima o poi ti devi attendere qualcosa di spiacevole. Noi facciamo persino le leggi per impedire che queste costruzioni si facciano, però non siamo un Paese che rispetta le leggi. Uno dei nostri proverbi più in voga è: fatta la legge… trovato l’inganno! Un bel condono e tutto diventa regolare. Tutt’al più si butta giù un edificio perché è brutto e non ha le carte in regola (come è avvenuto sul lungomare di Bari), ma quante centinaia di migliaia di costruzioni meno evidenti hanno devastato la bellezza del nostro territorio nazionale? Tutto condonato. Poi, quando arriva la catastrofe, chi ha creato queste situazioni di pericolo (costruendo in modo folle) chiede che lo Stato ci pensi, che si faccia carico di rimediare. Il “pubblico” deve rimediare alle follie del “privato”. Dove è lo Stato? Chiedono i cittadini imbestialiti, nel mezzo del disagio. Ma lo Stato non era il male assoluto? Quello che ti mette le mani in tasca, che limita la tua libertà, che interferisce nei tuoi affari privati? Lo Stato porta tutto alla rovina, meglio privatizzare! Non abbiamo sentito questa cantilena un milione di volte? Poi, quando siamo nei guai, allora esigiamo che lo Stato si faccia carico dei nostri problemi. E ci pare cosa inaudita che non sia subito lì, pronto a risolvere situazioni critiche. Ma con quali risorse, visto che gli unici fessi che pagano le tasse sono i lavoratori a stipendio fisso?

Certo, c’è il cambiamento climatico e ci stiamo tropicalizzando. Chi non è mai stato ai tropici, pensa che questo significhi che dovrebbe esserci sempre il sole, e un bel calduccio. Non è così. In molti paesi tropicali ci sono i monsoni, e le piogge provocano spesso allagamenti e frane. Lo vediamo anche in televisione, ma non ci facciamo molto caso.

Ci dobbiamo adattare a questo, dobbiamo costruire pensando anche a queste eventualità, rispettando le peculiarità della natura, cercando di prevedere le situazioni critiche, anche quelle che si verificano ogni venti, trenta, magari cento anni. Se ci sono problemi con un fiume, la soluzione non è di cementificare l’alveo. Non si risolve sempre tutto con il cemento.

Come non si risolve il problema dei rifiuti con la tecnologia a valle della produzione di rifiuti (con i termovalorizzatori o le discariche). Lo si risolve a monte. E non sto parlando di raccolta differenziata. Mi spiego: molto, moltissimo di quel che buttiamo è costituito da involucri, da confezioni. Servono solo ad attirare il cliente che si aggira per i banchi del supermercato. Possiamo farne a meno. In ogni casa americana, nel lavandino della cucina, c’è il tritarifiuti. La spesa si deve fare con la rete o con la borsa, basta buste di plastica. Magari partendo da casa con le barattoli e bottiglie vuoti, e riportandoli a casa pieni.  La gran parte dei rifiuti che produciamo ha avuto pochissima utilità e avremmo potuto tranquillamente non produrla.

Si parla di rilanciare l’economia con grandi opere. Mettiamo a posto il nostro territorio, casa per casa, strada per strada, tratto ferroviario per tratto ferroviario. E’ una grandissima opera. Cambiamo il nostro modo di produrre, in modo da non lasciarci dietro montagne di spazzatura che, prima o poi, ci sommergeranno. E’ un’impresa ciclopica. Produciamo automobili che non inquinano. Costruiamo le case in modo che non abbiano bisogno di troppo riscaldamento e di troppa aria condizionata. Non c’è niente di più grande da intraprendere. E per farlo ci vuole innovazione, coraggio, intelligenza. E bisogna guardare lontano. Torno alla mia ossessione: la cultura. Ci siamo abituati male e stiamo pagando un conto molto salato per le nostre cattive abitudini. La cultura del rispetto della natura deve tornare a far parte del quotidiano. Deve essere insegnata a scuola. Come anche la cultura del rispetto della cosa pubblica, dello Stato.

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Informazione, conoscenza, saggezza

Qualche giorno fa, al Museo di Maglie, ho fatto una lezione nell’ambito della Settimana della Cultura scientifica. In aula c’erano più di cento studenti delle medie superiori salentine. Ho manifestato subito la mia contrarietà alla Settimana della Cultura Scientifica perché, come per il giorno della donna, dedicare una settimana (o un giorno) a “qualcosa” fornisce l’alibi per dimenticarsene per il resto dell’anno. La Cultura è Cultura e, dato che non c’è la Settimana della Cultura Umanistica, come non c’è il giorno dell’uomo, queste celebrazioni automaticamente designano, per tutto il resto dell’anno, la supremazia di chi non viene celebrato.

Per caso, durante la mia chiacchierata con gli studenti, ho avuto ulteriore modo di esprimere la mia critica al sistema educativo italiano (che considera la Cultura Scientifica come cultura di serie B: è per questo che si è pensato di celebrarla almeno una settimana all’anno) quando ho nominato il PIL. Ho chiesto agli studenti: ma voi sapete cos’è il PIL? e tutti, in coro, hanno risposto: il Prodotto Interno Lordo. Soddisfatti di essere in grado di dare una risposta. Poi ho chiesto: ma chi sa fornire una definizione tecnica di queste parole? Chi mi sa spiegare cosa vogliono dire? Si sono alzate due mani. Due! Sapere che il PIL è il Prodotto Interno Lordo è una Informazione. E gli studenti erano informati. Sapere cosa significa è, invece, Conoscenza. Evidentemente, dietro quell’informazione non c’è conoscenza. Ho spiegato poi che misurare la bontà di un sistema economico con il PIL, e pretendere che le cose vadano bene solo se cresce, è poco saggio. Perché molto spesso, se cresce il PIL, decrescono altre cose, per esempio la qualità dell’ambiente, o la dignità umana. Queste misure non vengono considerate. La crescita infinita del PIL è impossibile in un sistema finito, quale è il nostro pianeta. Pretendere che il PIL cresca sempre è poco saggio. Ha senso un’economia “sana”, in termini di PIL, se si è distrutto l’ambiente? E qui entra in gioco la terza fase dell’essere istruiti: la Saggezza. Informazione, Conoscenza, Saggezza. Apparentemente siamo infarciti di informazioni non supportate da conoscenza, e questo non permette un modo saggio di pianificare la nostra esistenza. Esempio: prendiamo il Salento. Su cosa basare il suo futuro? Io penso a tre cose: agricoltura che produca ad altissimo livello qualitativo; beni culturali di ogni tipo; ambiente rurale e marino di alto livello. Penso quindi ad un patrimonio culturale e ambientale di qualità.  Ci sono cose che mi sono dimenticato? Cose che non si possono delocalizzare altrove (la nostra forza è l’unicità!)? Abbiamo questa informazione. Abbiamo anche la conoscenza per valorizzare questo patrimonio in modo da far progredire il nostro territorio? Abbiamo la saggezza di perseguire politiche tese a questi scopi? La scuola deve dare una visione del mondo, e deve dare un protocollo di azione. Informazione, conoscenza, saggezza. Chi viene formato in questo modo agirà secondo logiche sane, qualunque sia la strada intrapresa. Un’altra parola importante è: valutazione. Investiamo in certe direzioni, poi dobbiamo valutare se gli investimenti hanno avuto un ritorno. Ogni città e ogni paese del Salento ha qualcosa di bello da offrire. Abbiamo speso montagne di danaro per restaurare e recuperare beni culturali e ambientali. Spesso, poi, non sappiamo cosa fare in questi bellissimi oggetti rimessi a nuovo. Spesi i soldi per il restauro, poi non restano soldi per la gestione. C’è una tensione verso il contingente, ma poi non si ha la visione d’insieme per gestire il nostro patrimonio. Ogni azione rimane fine a se stessa e non si vede una strategia. Questa è una carenza legata al fatto che i politici hanno sempre obiettivi a breve termine, scanditi dalle tornate elettorali. E non hanno prospettive di lungo respiro. Manca una cultura che guardi oltre il contingente.

Ma di che sto parlando? Cultura? Oramai la cultura è un lusso, non si mangia. Però pensate, pensate al nostro Paese senza la Cultura. Pensate al nostro Paese senza un buon sistema pubblico di formazione. Manderemo i figli a studiare all’estero? Stiamo delocalizzando anche la nostra cultura, oltre alle fabbriche. Chiudiamo qui e, chi può, vada a farsi una cultura all’estero. Ma siamo sicuri che è quello che vogliamo? Non ci sono soldi, ci dicono. Ma intanto abbiamo speso 29 miliardi di euro per navi, cacciabombardieri ed elicotteri. Per le macchine da guerra i soldi li troviamo, per la cultura no. La causa di tutto questo è chiara: la mancanza di cultura genera ulteriore carenza culturale. E solo la cultura ci può salvare. Ma come si fa ad avere cultura se la si è persa? Un circolo vizioso che ci sta distruggendo. Intanto i vari partiti sprecano parole magiche: libertà, sinistra, destra, centro, democrazia, cristianesimo, repubblica, ecologia, progresso, popolo, lega, movimento, circolo, fabbrica. Non uno ha scelto cultura. La cultura non si mangia. Ma questo ragionamento ci relega al mero ruolo di animali. E’ la cultura che ci distingue dalle altre specie! Eccolo, ho trovato il termine giusto per definire il partito trasversale: il partito degli animali. Anzi, meglio: il partito delle bestie. Dopotutto sono uno zoologo, di queste cose dovrei intendermene.

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Delocalizzare

L’altro giorno, tornando da Palermo, ho fatto la Salerno Reggio-Calabria e poi ho cercato di immettermi nella Ionica. Ma mi hanno fatto tornare indietro, perché c’era una manifestazione di agricoltori che aveva bloccato la strada. Il 16 ottobre c’è stata la manifestazione dei metalmeccanici a Roma. Gli agricoltori producono beni primari (quel che mangiamo) e i metalmeccanici anche (la materia da cui derivano i manufatti, e i manufatti stessi). La manodopera di entrambe le categorie si trova sull’orlo del baratro della disoccupazione. Il motivo è semplice: ci sono paesi dove la manodopera costa pochissimo e quindi conviene spostare le produzioni in quei paesi.

I primi che lo hanno fatto (la FIAT in Polonia e in Brasile, per esempio) ne hanno tratto grandi vantaggi, ma ora lo stanno facendo tutti. Il capitalismo si basa su un principio molto semplice. I lavoratori producono beni che devono essere venduti in grandi quantità e i principali acquirenti sono proprio loro, i lavoratori. Per comprare quel che producono si indebitano (comprano a rate) e lavorano per pagare i debiti che hanno fatto per comprare quel che hanno prodotto. Con le sue spese, quindi, ogni lavoratore garantisce il lavoro ad altri lavoratori e a se stesso/a, ovviamente garantendo un profitto al proprietario dell’azienda che, non dimentichiamolo, ci ha messo il capitale. A un certo punto, però, questi lavoratori si trovano senza lavoro, e le loro aziende se ne vanno in Cina, o in Serbia, o in Polonia, o in Albania. Il processo è iniziato trenta o quarant’anni fa, e ora è diventato la regola. I lavoratori di quei paesi guadagnano così poco da non potersi permettere di comprare quel che producono, e i lavoratori “nostri” per un po’ continuano a comprare, facendo debiti, ma poi non ce la fanno più a pagare. E crollano le banche, travolte dalla bolla creditizia. E’ quel che è successo. E siamo in crisi per questo.

Il nostro olio, spesso, viene prodotto in Italia, ma con olive coltivate in Tunisia, in Marocco, in Turchia. Stiamo delocalizzando anche l’agricoltura. Ed ecco quindi sia operai sia contadini a manifestare per difendere il loro posto di lavoro. In effetti stanno difendendo la “vecchia” economia capitalistica. Spesso vengono descritti come dei dinosauri, però dobbiamo ammettere che la “nuova” visione dell’economia è un disastro. Un disastro sociale e un disastro ambientale, come minimo (ma è anche un disastro economico). Eh, sì, perché in quei paesi così accoglienti per le industrie dei paesi del primo mondo non c’è molta volontà di far rispettare le leggi che proteggono l’ambiente (e la salute umana). Si può inquinare senza alcun pericolo di sanzione. L’ILVA di Taranto viene messa in mora e le si chiede di pagare i polmoni dei tarantini che hanno respirato i suoi fumi? Le si chiede di far funzionare bene i filtri alle sue ciminiere? Ma allora non conviene più! Conviene fare l’acciaio in Cina, dove si può inquinare senza problemi, dove gli operai costano 60 dollari al mese, e dove gli scioperi non ci sono, e neppure quei rompiscatole di sindacati.

Questa politica economica porta benefici a breve termine, ma a lungo termine porta il disastro sociale, economico, e ambientale. Non è una previsione fosca per il futuro, è una descrizione del presente. In tutta Europa i giovani cominciano ad arrabbiarsi moltissimo, perché non vedono un futuro. Sul muro della villa comunale di Lecce ho visto una scritta che mi ha fatto molto riflettere: Non c’è più il futuro di una volta. La mia generazione (sono nato nel 1951) aveva davanti un futuro di riscatto sociale, di opportunità. Le ultime due generazioni hanno davanti un futuro di precariato, sanno che non avranno pensioni dignitose, e dipendono dai genitori in tutto e per tutto. I più bravi se ne devono andare.

L’uomo è fatto così. I pescatori sanno che non si devono prendere i pesci quando sono piccoli, perché poi non ci saranno più quelli grandi, quelli che si riproducono e fanno altri pesci. Ma i pescatori pensano: se non li prendo io, li prendono gli altri, e allora tanto vale che sia io a prenderli. Ecco perché ci vuole lo stato, a regolare le cose. E invece abbiamo deciso che lo stato sia male, e che il privato sia bene. Paradossalmente, le privatizzazioni sono state fatte da un governo di centro-sinistra, capitanato da un ex-comunista, mentre Tremonti parla come un marxista, a volte. Le idee sono molto confuse. Le ferrovie sono state privatizzate. Il servizio costa di più ed è più scadente. Coi telefoni come va? e con l’energia? E la scuola? Stiamo delocalizzando anche quella. Chi vorrà una buona istruzione per i suoi figli li dovrà mandare all’estero. Tutto all’estero, la produzione, la manifattura, l’istruzione. Anche le cure sanitarie si fanno all’estero. Si può pensare a un paese di consumatori che non produce più nulla? L’ecologia dice che non è possibile, per l’economia pare che sia possibile. Ma i risultati di queste pratiche economiche dicono che ha ragione l’ecologia!

Cosa deve accadere ancora per far capire che è una strada sbagliata? Non chiedetemi quale sia quella giusta (anche se qualche idea ce l’ho), per il momento abbiamo bisogno di capire che così non va e dobbiamo cercare di inventare un’altra strada.

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Nobel e etica

Il Nobel a Edwards, il “padre” di milioni di bambini nati con la fecondazione assistita, ha scatenato polemiche tra Chiesa e Scienza. Il problema non è che nascano bambini (cosa che la Chiesa auspica ogni volta che può), ma che, per farli nascere, si producano molti embrioni che poi non continuano lo sviluppo e che, quindi, vanno incontro ad aborto. L’aborto, infatti, è l’interruzione dello sviluppo di un embrione. Con la fecondazione assistita si producono diversi embrioni e poi se ne “sceglie” uno e gli altri sono scartati. In Italia questi embrioni non si possono eliminare e quindi vengono conservati, anche se non si sa bene che farne. L’etica è una materia difficilissima e pone dilemmi difficilmente risolvibili. Ci sono persone, per esempio, che sono contrarie alla sperimentazione sugli animali. In assoluto. E dicono che bastano esperimenti sulle cellule oppure simulazioni al computer. Pensare che una cellula isolata possa essere paragonabile a un organismo multicellulare come il nostro è molto ottimistico. Che poi un computer riesca a simulare il funzionamento del nostro corpo rasenta la follia. Gli effetti collaterali (tipo le malformazioni dei feti causate dal talidomide) possono presentarsi in alcune specie e in altre no. E‘ per questo che, prima di dare una medicina a un bambino è meglio provarla su una scimmia. Magari al topo non fa nulla, ma a animali più vicini a noi potrebbe causare problemi. Non sperimentarla su una scimmia significa iniziare a sperimentarla direttamente sui bambini. Magari africani! Come credete che si sia sviluppata la tecnica dei trapianti di organo?   Prima hanno provato su animali semplici, come le idre d’acqua dolce, e poi via via su topi, cani, scimmie e poi sull’uomo. Oggi donare gli organi è considerata un’azione nobile, ma la strada per arrivare a questa pratica è costellata di esperimenti che hanno previsto la vivisezione. Negare la vivisezione significa negare il progresso della medicina. Il che non significa che ogni esperimento di vivisezione sia giustificato. Ci sono sempre prezzi da pagare, e per avere un grande bene futuro è spesso necessario causare un male nel presente. Io sono contrario alla guerra (e chi non lo è?), ma sono contento che qualcuno abbia fatto guerra a nazismo e fascismo. Se gli USA non fossero entrati in guerra contro la Germania, l’Italia, e il Giappone, oggi il mondo sarebbe radicalmente differente. Sono grato che lo abbiano fatto. Un giorno, parlando a un circolo dell’Azione Cattolica, ho detto che privare un popolo della sua religione è un genocidio culturale. E chi mi ascoltava era completamente d’accordo. Ho vissuto quasi un anno in Papua Nuova Guinea, e la mia affermazione si basava sul fatto che avevo visto i missionari che cercavano di convincere gli indigeni che le loro divinità sono false, e che la nostra religione è quella giusta. Innestare il Cristianesimo in una cultura animista significa privare quelle persone dei loro riferimenti culturali, sostituendoli con i nostri. Però non me la sento di dire che una religione che propone il cannibalismo rituale, o l’infibulazione, sia da accettare senza alcuna riserva, anzi. Magari si può passare a una ritualizzazione del cannibalismo che non preveda che si mangi davvero il corpo di qualcuno e si beva il suo sangue. La comunione, dopotutto, fa proprio questo. Gli scienziati lavorano per diminuire la nostra ignoranza e lo fanno attraverso la scienza. Le loro scoperte non sono né buone né cattive, non ci sono categorie di bene e male nello scoprire che è il DNA a codificare la struttura e il funzionamento delle cellule. E’ l’uso di questa conoscenza che può rientrare in categorie etiche. Molti confondono la scienza con la tecnologia. Edwards, usando la conoscenza derivante dalla scienza, ha sviluppato una tecnica per produrre embrioni anche quando questo è impossibile con il sistema tradizionale (fare l’amore, per intenderci). Ottenere questo risultato ha dei costi (gli embrioni perduti), e io non mi sento così certo delle mie convinzioni da affermare che sia un bene assoluto o un male assoluto. I milioni di bambini nati con questa tecnica non ci sarebbero, e il fatto di cancellarli mi pare mostruoso. Ma ci sono anche milioni di embrioni che non si sono sviluppati. Il peccato originale consiste nell’aver colto il frutto della conoscenza del bene e del male e, quindi, la nostra religione ci dice che questi giudizi spettano al Creatore. Nei comandamenti c’è non uccidere, e questo si potrebbe applicare agli embrioni che non hanno continuato il loro sviluppo. Però c’è un comandamento che dice “non fornicare” e la fornicazione era anche uno spreco del seme (oltre a tante altre cose) e quindi se si trova un modo per non sprecarlo (ad esempio con la fecondazione assistita) si obbedisce a un altro comandamento. Si tratta di questioni molto delicate ed è bene che si affrontino, anche se sarà difficile mettere d’accordo chi la pensa in modi così differenti. Mi preme ricordare, però, che la scienza è l’unico modo per acquisire conoscenza e che pensare di sostituirla con convinzioni dettate dalla religione è male. Su questo non ho dubbi. Magari le convinzioni di qualche religione coincidono con quelle della scienza, ma quando questo non succede, e io devo affidare la mia vita a qualcuno, preferisco andare da un medico piuttosto che da uno stregone. Ognuno, comunque, è libero di scegliere le pratiche che ritiene opportune, l’importante è che non chieda che siano imposte (o negate) agli altri.

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Incontro con i Nobel

Non so bene perché, ma mi hanno nominato nel Consiglio Scientifico (CS) della Stazione Zoologica di Napoli, il tempio della biologia marina mondiale, un istituto di ricerca di cui l’Italia deve essere fiera (anche se a un certo punto ha corso il rischio di essere cancellato da una finanziaria). Il CS esprime pareri sulle attività dell’istituto di ricerca. In quello della Stazione Zoologica ci sono tre premi Nobel. Fa effetto, ve l’assicuro, sedersi a tavola con dei tipi così. Sono persone eccezionali, e star vicino a loro arricchisce. Pochi italiani hanno vinto il Nobel di Medicina e Biologia, e quei pochi lo hanno potuto vincerlo perché sono andati a lavorare all’estero. Il terzetto del CS della Stazione Zoologica è composto da un inglese, uno svedese e una tedesca. Ci siamo riuniti una prima volta l’anno scorso e ci siamo reincontrati la settimana scorsa. Oramai siamo diventati amici. Uno ha scoperto i meccanismi del ciclo cellulare, un altro ha posto le fondamenta della moderna neurobiologia e la terza ha scavato nei segreti di come i geni assemblino la materia vivente. Li ho accompagnati nei negozi, al ristorante, al bar. Nessuno li ha notati e, in effetti, neppure io li avrei riconosciuti se li avessi visti per strada. Gente semplice, normale. Vincere il Nobel è come vincere una medaglia d’oro nei cento metri alle olimpiadi, è come vincere il mondiale di calcio, l’Oscar come migliore attrice.   Si lascia un segno indelebile nella storia della cultura. Uno potrebbe montarsi un pochino la testa, no? E invece, durante le riunione, se hanno avuto qualcosa da dire hanno alzato la mano, e sono stati a sentire gli interventi degli altri, dei non-Nobel, con voglia di capire punti di vista alternativi, a volte hanno persino cambiato idea. Quello che colpisce di più in queste persone è la mancanza di boria, e la disponibilità. Era previsto un pomeriggio con tutto il personale della Stazione Zoologica, e loro non hanno smesso mai di chiedere e di rispondere, senza mai negarsi a nessuno.

Oramai sono decenni che faccio questo mestiere e, se mi guardo indietro, ricordo alcuni “grandi”, molti “medi” e moltissimi “scarsi”. Succede abbastanza spesso che personaggi medio-scarsi si ritrovino ad avere un qualche rilievo, magari più per meriti di “relazioni pubbliche” che per il loro effettivo operato. Ecco, questi sono i più alteri e boriosi. Non hanno tempo da perdere con chi ha meno rilievo di loro, ma sono pronti ad ossequiare in modo untuoso chi potrebbe conceder loro qualche favore. Forti con i deboli e deboli con i forti. Però non ho mai incontrato un “grande” che fosse di questa tipologia.

Chissà perché i Nobel italiani hanno dovuto andare all’estero per veder riconosciuto il loro valore! Uno dei miei nuovi amici ha espresso ripetutamente la voglia di venirmi a trovare a Lecce. Si chiama Torsten Wiesel. Provate a scrivere il suo nome, tra virgolette, in Google, così vedrete chi è. La ricerca porta a 25.000 risultati. Non male, mi son detto. Poi ho provato a scrivere Fabrizio Corona: 580.000 risultati!

Spero proprio che mantenga la promessa, e che venga a trovarci. Anche se sono sicuro che una sua visita non avrebbe lo stesso rilievo di una comparsata di Fabrizio Corona.

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L’anno della biodiversità

Anche se forse non ve ne siete accorti, il 2010 è l’anno internazionale della biodiversità. Si tratta di un segnale che mostra come l’uomo stia gradualmente capendo, dopo un lungo allontanamento dalla natura, di non poter vivere senza di essa. Il resto della natura è costituito dalle altre specie che abitano il pianeta e dagli ecosistemi che esse contribuiscono a formare: la biodiversità. Perché preoccuparsi delle altre specie? E’ semplice:  l’uomo non potrebbe sopravvivere da solo, in un pianeta privo di altre specie e le nostre attività provocano cambiamenti che diminuiscono le possibilità di sopravvivenza di molti organismi. Questo, nel lungo termine, porterà a minori possibilità di benessere per la nostra stessa specie. Si tratta di una posizione egoistica: abbiamo bisogno della natura e dobbiamo salvaguardarla per poter continuare a vivere. Diciamo che la natura è il nostro primo capitale e la dobbiamo gestire con oculatezza. Se la biodiversità è preziosa, e la dobbiamo salvaguardare, la prima cosa da fare è fare l’inventario della sua diversità, e questo si fa rispondendo alla domanda: quante specie ci sono su questo pianeta? Ci affanniamo molto a cercare la vita sugli altri pianeti e, se mai dovessimo trovarla, la prima cosa che ci verrebbe in mente di fare sarebbe di vedere quanto è varia, con quante specie si esprime. Non l’abbiamo mai trovata la vita, sugli altri pianeti, e continuiamo a spendere cifre immani per cercarla ma la cosa più assurda è che non sappiamo quante specie vivono nell’unico pianeta conosciuto in cui si è evoluta la vita: il nostro. Fino ad ora ne abbiamo descritte due milioni, ma si calcola che siano circa dieci milioni, o forse più. Non lo sappiamo. Con grandi ristrettezze finanziarie (se si spendono fondi  per cercare la vita sugli altri pianeti poi non ce ne sono per studiarla dove esiste), la comunità scientifica continua a cercare e, cercando, trova specie nuove in ogni parte del globo dove le capita di poter studiare la biodiversità.

Quest’anno, l’Università del Salento ha organizzato due congressi sullo studio della biodiversità. All’inizio dell’estate, da tutto il mondo, sono venuti gli specialisti di vermi marini e questa settimana si è svolto un convegno mondiale sulle meduse. Centinaia di studiosi sono venuti qui per un motivo ben preciso: perché la nostra Università è un punto di riferimento mondiale su questi argomenti.  Non sto a tediare i lettori sul contenuto delle dottissime relazioni che si sono susseguite, lo spazio non me lo permette. Però una parte interessante di queste manifestazioni ha previsto che i congressisti avessero modo di vedere Lecce e il Salento (li abbiamo portati in giro, ovviamente), interagendo con la gente, andando a visitare i ristoranti, ammirando i paesaggi rurali, la costa e le città barocche. Li abbiamo portati sott’acqua, a vedere le nostre aree marine protette. E i due gruppi hanno espresso lo stesso sentire: Grazie Salento per quel che ci hai fatto provare, torneremo ancora! Hanno gradito molto tutto, ma la cosa che li ha più colpiti è la gente. Vedere il posto dove vivi con gli occhi di quelli che lo vedono per la prima volta te lo fa riscoprire mentre ne illustri le bellezze. Ai congressi, raccontando la nostra biodiversità, e ascoltando le storie sulla biodiversità degli altri angoli del mondo, ci siamo ancora una volta resi conto di vivere in un posto bellissimo da tutti i punti di vista. Lo abbiamo ereditato dai nostri antenati, e è nostro dovere lasciarlo in buono stato a chi verrà dopo di noi. I nostri studi ci dicono che ne stiamo abusando, che questa bellezza è fragile e che i danni che facciamo non si riparano facilmente. Tra i due congressi sulla biodiversità, sono stato invitato a parlare a un altro congresso, per me molto “esoterico”. I miei amici fisici mi hanno chiesto di parlare di meduse a un congresso di fanatici di oscillazioni (non chiedetemi cosa siano) che si è svolto, ancora una volta, qui in Salento. Ho parlato di meduse a tipi strambi che cercavano di spiegarmi come si possa creare la materia dal nulla. Per me hanno qualche rotella fuori posto, ma sono gente fantastica. Non c’è niente di più bello che cercare di capire come funziona il mondo, e come è fatto. Non ha importanza se si studiano quark o gnatostomulidi, l’importante è soddisfare l’ansia di sapere. E ora cominciamo i corsi nella nostra bella Università, e accogliamo i nuovi studenti. Sperando che almeno alcuni di loro possano un giorno avere il privilegio di fare il mestiere più bello del mondo: quello di praticare la scienza.

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Un nuovo modello di sviluppo

Il Papa, domenica 14 Novembre, ha invocato un nuovo modello di sviluppo e ha affermato l’importanza dell’agricoltura nella nostra economia. Il Pontefice viene ascoltato come autorevolissima voce quando dice quel che fa comodo a qualcuno, altrimenti viene tranquillamente ignorato.

Se viaggiate ogni tanto sulla statale ionica vi sarete accorti che questa importante arteria è spesso bloccata dalle proteste degli agricoltori. Nessuno ne parla, forse qualche cronaca locale.  Nell’economia mondiale l’agricoltura ha un ruolo secondario. Chi produce beni di importanza vitale (senza cibo moriremmo) si vede offrire prezzi irrisori e poi quei beni arrivano a noi a prezzi esorbitanti. C’è qualcosa che non funziona. I governi pagano gli agricoltori perché distruggano le colture, e quelli che producono ancora sono sconvolti nel vedere che le spese della raccolta superano i ricavi della vendita. Il sistema “libero” sta producendo effetti disastrosi. Chi produce può essere facilmente ricattato, perché i prodotti sono deperibili. Chi trasforma e confeziona, invece, può stoccare le merci e venderle poco alla volta. Così, chi produce alla fonte guadagna sempre meno, e gli utilizzatori finali (noi) pagano sempre di più. Ci impoveriamo noi, si impoveriscono gli agricoltori, e si arricchiscono gli intermediari. C’è qualcosa che non funziona per il verso giusto. Se gli agricoltori nostrani falliscono, e smettono di produrre, gli intermediari comprano i prodotti cinesi, o turchi, o marocchini. Poi li confezioniamo qui e li vendiamo come prodotti italiani. Truffette… che si scoprono molto spesso nel nostro paese e che sono solo la punta dell’iceberg. Se l’agricoltura collassa si muore di fame. Eppure chi produce il nostro cibo è in gravi difficoltà, mentre gli agricoltori dovrebbero vivere benissimo, visto che producono beni vitali. Ma loro sono giusto il primario (producono le materie prime) poi c’è il secondario (la trasformazione) e il terziario (la distribuzione e la vendita). Noi diamo più importanza al secondario e al terziario, in termini economici, mentre il primario non vale nulla. Ma noi non mangiamo le confezioni, mangiamo il contenuto! Le confezioni contribuiscono a formare le montagne di rifiuti che ci stanno soffocando.

I valori sono rovesciati, la furbizia del mediatore prevale sulla sapienza dell’agricoltore. Certo, gli agricoltori dovrebbero organizzarsi, dovrebbero fare delle cooperative, saltare a piè pari i mediatori e collegarsi direttamente con chi consuma (noi). E invece non lo fanno (spesso sapienza e furbizia non vanno assieme) o, se lo fanno, non lo fanno in modo efficiente. A volte trovano più conveniente prendere qualche sussidio che produrre veramente.

Il Papa ci mette in guardia, e ci dice che l’agricoltura ci dà di che vivere, come nessun’altra attività. Qualcuno (qualcuno molto autorevole) ha detto che la cultura non si mangia. E’ giusto. Se stessi morendo di fame e mi chiedessero di scegliere tra la Divina Commedia e un panino con la mortadella… non avrei dubbi. Però non si mangia neppure la carta moneta, e non si mangiano le transazioni finanziarie. Quel qualcuno non produce roba che si mangia. Produce scartoffie, che poi acquisiscono un valore spropositato, ma che non si mangiano, non sostituiscono il cibo. Lo possono comprare. Ma se non ce n’è più… cosa possono mai comprare? I soldi non si mangiano. Le azioni non si mangiano. Neppure i computer o gli spettacoli televisivi, o le automobili, il petrolio.

Sono nozioni elementari, non dovrebbe essere necessario scomodare un Papa per ricordarcele. Un pochino di cultura in più forse ci risparmierebbe di pianificare in modo idiota la nostra vita, facendoci riconoscere l’importanza di chi produce quello che mangiamo. Il Papa dice che bisogna cambiare il nostro stile di vita. All’inizio dell’anno ha detto che bisogna insegnare l’ecologia nelle scuole.

Sono ansioso di vedere chi si rifà ai valori Cristiani che corre a seguire gli insegnamenti papali, facendoli propri e inserendoli nei propri programmi politici. Cambiando l’impostazione dei suoi programmi politici. Sono proprio ansioso di sentire queste dichiarazioni. Ah! dimenticavo. Non mi risulta che nelle appena generosamente finanziate scuole private (molte di ispirazione cattolica) si sia inserita l’ecologia come materia obbligatoria, seguendo le esortazioni papali. Forse mi sta sfuggendo qualcosa.

Questa voce è stata pubblicata in Ecologia, Scritti ecologici (2009-2015) di Ferdinando Boero e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

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