Siamo chiusi in casa, le attività esterne sono bloccate. Fin dove è possibile, possiamo lavorare anche all’interno delle mura domestiche, la tecnologia in questo aiuta. Nei telegiornali e nei giornali si usa quasi sempre l’espressione smart working, che nella normativa indica la possibilità di «svolgimento della prestazione lavorativa basata sulla flessibilità di orari e di sede e caratterizzata, principalmente, da una maggiore utilizzazione degli strumenti informatici e telematici, nonché dall’assenza di una postazione fissa durante i periodi di lavoro svolti anche al di fuori dei locali aziendali». Una lunga definizione come quella che precede è necessaria nei documenti ufficiali (da dove l’ho presa), lì conviene essere dettagliati, la legge quasi lo esige (entro certi limiti). Indubbiamente, sul piano operativo, la pratica ha dato buoni risultati: ha aiutato il rifornimento dei beni necessari alla collettività, ha favorito un minimo sbocco commerciale alla produzione, in generale ha consentito di tenere in piedi attività fondamentali di vario genere. Ma perché parlare di smart working quando ci si rivolge ai cittadini comuni? In italiano esistono già «lavoro a distanza» e «telelavoro» (che richiama espressioni analoghe in altre lingue: télétravail nel francese, teletrabajo nello spagnolo, teletrabalho nel portoghese). L’Accademia della Crusca propone «lavoro agile», per indicare che si può lavorare con una certa comodità anche fuori dei canonici orari d’ufficio, magari in piena notte. È inutile ricorrere all’anglicismo, per far capire che si lavora e si continua a lavorare anche a casa l’italiano funziona molto meglio. L’importanza di un uso efficiente della lingua si misura nella chiarezza e nella precisione delle informazioni, che tutti dobbiamo poter comprendere senza difficoltà.
Sono usati occasionalmente altri anglicismi che pure affiorano in questo periodo. Un annunzio pubblicitario diffuso sui giornali proclama: «L’attività della tua azienda è limitata dallo scoring creditizio? #noicisiamo». Non ho la minima idea di cosa significhi. Cercando qua e là in rete intuisco che si tratta di una possibilità di prestito offerta (non so se da una struttura dello stato o da qualche privato o da gruppi di privati, né mi è chiaro a quale tasso d’interesse) a persone e aziende che a causa della crisi sono in difficoltà economica, hanno bisogno di ottenere un prestito e non posseggono (in tutto o in parte) i prerequisiti richiesti. Insomma non raggiungono il coefficiente previsto (scoring vuol dire ‘punteggio’) per la concessione del prestito. Il tecnicismo risulta incomprensibile fuori dai circuiti degli specialisti o delle persone coinvolte. È intenzionale l’oscurità o si tratta di un ricorso involontario al burocratese, come spesso succede a chi redige annunzi del genere? Senza dolo e senza troppo pensarci, per pigra adesione alla consuetudine. Mi auguro, almeno, che la procedura finanziaria sia trasparente e benefica per chi vi ricorre. Altrettanto oscuro mi è il termine compound, usato più volte in una trasmissione televisiva dedicata al coronavirus in Cina, per indicare quei mastodontici complessi di edifici nei quali vivono i cittadini di Wuhan, da cui era impossibile entrare e uscire nei mesi della serrata in quella città cinese. I vocabolari chiariscono che compound indica una ‘aggregazione di più edifici con destinazioni affini o complementari, per lo più recintati’, e quindi può essere appropriato il riferimento alle enormi aggregazioni abitative delle città cinesi. Ma la parola è inglese, non cinese, né (ovviamente) italiana. Davvero non si capisce perché sia usata in una trasmissione televisiva destinata a un vasto pubblico italiano. Risulta incomprensibile, quasi nessuno capisce.
Non è solo il ricorso esasperato ai termini stranieri che rende la comunicazione nebulosa, in questa fase in cui la chiarezza è fondamentale. Ci dicono che per salvarci dal contagio è necessario rispettare il «distanziamento sociale», vale a dire l’insieme delle misure finalizzate a contenere la diffusione della pandemia: quarantena dei soggetti a rischio o positivi, isolamento domestico, divieto o limitazione degli assembramenti, chiusura delle scuole, ecc. Lo spiega il sito che la Treccani ha dedicato a 20 parole del coronavirus (se ne parla in un’intervista che Massimo Bray, Direttore della Treccani, ha rilasciato a Rosario Tornesello sul nostro giornale il 16 aprile). L’espressione è funzionale, visto che è riferita al complesso di misure rivolte a contenere il micidiale contagio, considerate nel loro insieme. Tutti speriamo che le cose migliorino. Ci auguriamo che, in un futuro non troppo lontano, con gli accorgimenti e le cautele necessari, a gruppi sempre più ampi di cittadini sia permesso di uscire da casa e riprendere (almeno in parte) le attività normali. Se ciò avverrà (presto, speriamo) dovremo badare alla distanza della nostra persona rispetto all’interlocutore o al vicino (in cui ci si imbatterà anche casualmente) e allo spazio che sarà necessario interporre tra noi e chiunque altro, quando saremo fuori di casa. Occorre trovare le parole giuste, in grado di spiegare che, quando andremo dal giornalaio, al negozio di alimentari, in farmacia e anche al lavoro (per le attività permesse fuori dalle mura domestiche), dovremo abituarci a rispettare la «distanza personale» o, forse meglio, la «distanza interpersonale» tra noi e gli altri. Parole nuove per una diversa situazione, «distanziamento sociale» indica cose diverse.
«È necessario aumentare il numero dei tamponi», invocano molti. Sembra questa una misura idonea ad evitare che individui contagiati (spesso inconsapevoli di esserlo) diffondano involontariamente la pandemia. Scorrono in televisione le immagini dei controlli fatti usando il tampone, un batuffolo di cotone idrofilo strisciato sulla superficie di naso e faringe delle persone sottoposte all’indagine medica. Quella salutare operazione sanitaria si definisce «fare il tampone». Meglio di «tamponamento», come invece si sente dire nei comunicati di strutture o organizzazioni, centrali e periferiche, della nostra nazione. Il vocabolo, nella percezione comune, fa venire in mente l’urto di un veicolo contro la parte posteriore di un altro che lo precede, e quindi interessa i carrozzieri e gli assicuratori più degli infettivologi (lo spiega Fabrizia Sernia, in un articolo di alcune settimane fa). Nel linguaggio conta la chiarezza e la scelta delle parole. Che possono evocare significati diversi a seconda delle situazioni che ci troviamo a vivere. È cambiata, a seguito della pandemia, la percezione collettiva dell’aggettivo «virale». Negli anni dell’ossessione telematica e della ricerca spasmodica della popolarità attraverso la rete, al significato originario legato a virus (quindi indicante una condizione patologica) si era aggiunto uno più recente (e sostanzialmente positivo) riferito a comportamento, evento, notizia che si diffonde o diventa popolare molto velocemente. Oggi, che parliamo sempre più spesso di «malattia virale» e di «infezione virale», l’aggettivo riassume un valore sinistro.
La battaglia contro il coronavirus si vincerà con le indicazioni della scienza, che paiono aver riacquistato peso (dove sono finiti i proclami dei no-vax? dove sono finiti gli sproloqui dei negatori della xylella?); con le scelte adeguate dei politici; con i comportamenti opportuni di tutti noi. Una lingua chiara, completa e condivisa da tutti, in grado di trasmettere con parole convincenti le informazioni necessarie alla gravità del momento, è risorsa primaria in questi difficilissimi frangenti.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 18 aprile 2020]