Scritti sulla Scuola e sull’Università. Anno 2016

Come è noto, negli anni successivi non vi è stata alcuna inversione di tendenza. Tutt’altro: il sottofinanziamento delle Università ha raggiunto livelli tali da far prefigurare a SVIMEZ la chiusura totale delle sedi meridionali (non di singoli corsi di studio) nei prossimi venti anni e un drastico ridimensionamento dell’intero sistema universitario pubblico nazionale[2]. Uno scenario simile è contemplato nel rapporto della Fondazione RES 2015[3]. L’imposizione di limiti alle assunzioni, combinato con l’abolizione del ruolo del ricercatore a tempo indeterminato e la sua sostituzione con il ruolo di ricercatore a tempo determinato, comporta un consistente aumento dell’età media del corpo docente e picchi di pensionamento.

Le proteste di quegli anni, lette a posteriori, non colsero la reale motivazione di queste scelte. Si disse che la controriforma dell’Università era voluta per dar spazio al privato; cosa solo parzialmente verificatasi. La motivazione era da ricercarsi altrove. Partendo dal dato per il quale le politiche formative in Italia sono da anni nelle mani di Confindustria. E le nostre imprese non hanno bisogno, salvo le dovute eccezioni, di lavoro altamente qualificato (http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/diritti/universita-e-ricerca/luniversita-che-piace-a-confindustria/#sthash.8NMUMaM7.dpuf). Avevamo effettivamente troppi laureati, non già nel confronto internazionale (ne avevamo e ne abbiamo notevolmente meno), ma troppi rispetto alle esigenze di un tessuto produttivo che, anche per la caduta della domanda interna conseguente allo scoppio della crisi e dell’avvio delle politiche di austerità, accentuava le sue criticità: piccole dimensioni aziendali e scarsa propensione all’innovazione.

Lo stato di crisi estrema dell’Università italiana di inizi 2016 probabilmente dipende dall’estrema difficoltà tecnica e politica di realizzare un disegno ancora occulto nel 2009, del tutto palese oggi: differenziare le sedi in research e teaching. Nelle prime si fa ricerca, nelle seconde solo didattica, un po’ più dei Licei.

Le difficoltà tecniche riguardano essenzialmente il fatto che questo modello può realizzarsi solo facendo uscire l’Università dal “dal perimetro della pubblica amministrazione”, per usare un’efficace espressione del Presidente del Consiglio. Il che comporta almeno due passaggi.

1) Consentire la piena mobilità dei docenti fra Atenei, dando agli Atenei stessi la facoltà di reclutare senza concorso. Diversamente, poiché – come è stato fatto notare – l’attuale configurazione del sistema universitario nazionale è un modello a “eccellenze diffuse”, non si capirebbe in che modo gli Atenei “eccellenti” possano essere tali (ovvero, mantenere la propria condizione di “eccellenza” e accrescere la loro produttività) senza poter occupare i migliori docenti italiani ed esteri. Ma, a normativa vigente, i trasferimenti di sede sono di fatto bloccati, dal momento che l’avanzamento di carriera di un docente esterno costa notevolmente più dell’avanzamento di carriera di un docente interno.

2) Permettere la differenziazione del trattamento retributivo fra sedi universitarie diverse. In assenza di questo dispositivo, non si capirebbe per quale ragione un docente possa mai accettare di trasferirsi, assumendo peraltro un carico di lavoro che dovrebbe risultare più gravoso rispetto alla sede di provenienza. Se, infatti, la sede di provenienza è esclusivamente teaching, nella sede di arrivo ci si trova a erogare didattica non solo nelle lauree triennali, ma anche nelle lauree magistrali e nei Dottorati, con in più l’impegno della ricerca (http://www.roars.it/online/il-pericoloso-percorso-a-ostacoli-che-porta-alle-universita-di-eccellenza/).

La realizzazione di questi passaggi richiede modifiche normative radicali, di difficile praticabilità, e anche difficilmente spendibili politicamente e per fini elettorali (occorrerebbe provvedere alla chiusura  ope legis di sedi universitarie). Queste difficoltà creano una condizione per la quale, data la normativa vigente, ciò che può essere fatto è solo portare a lenta agonia le sedi che si intende chiudere – e che verranno chiuse con la nobile motivazione che sono poco produttive. Nel frattempo, si introducono “granelli di sabbia” nel sistema con interventi normativi apparentemente di poca rilevanza, ma che ben delineano il percorso. Fra i tanti, la possibilità data alle commissioni di concorso di valutare i candidati sulla base del “prestigio” della sede nella quale si sono laureati (si osservi, incidentalmente, che l’Università pubblica italiana non è strutturata in sedi più o meno prestigiose).

Si tratta inoltre di modiche che sono ostacolate spesso dai sindacati e dalla Magistratura[4]. Sporadicamente anche da qualche docente. Più recentemente da un numero crescente di docenti, quelli che non parteciperanno all’esercizio di Valutazione della qualità della ricerca (VQR), legittimamente insoddisfatti di avere lo stipendio bloccato da cinque anni, non avere fondi per la ricerca, impiegare gran parte del loro tempo per far fronte a oneri burocratici la cui ratio sfugge ai più e che dovrebbero essere gestiti da un personale amministrativo anch’esso quantitativamente ridotto a meno dell’essenziale. E’ un’insoddisfazione pienamente comprensibile, soprattutto se si considera che un ricercatore universitario guadagna circa 2000 euro netti al mese, un professore associato circa 2500 e un professore ordinario poco più di 3000 (con anzianità di servizio di dieci anni).

E’ importante chiarire che, quantomeno nelle scienze umane e sociali (ma non solo), la valutazione della ricerca non è affatto neutra. Sul piano tecnico, essa viene realizzata attraverso l’uso di indicatori che segnalano il grado di diffusione di riviste scientifiche sulle quali hanno pubblicato i singoli docenti valutati. E’ del tutto evidente che, poiché le riviste più lette sono quelle che fanno riferimento al pensiero dominante, vengono premiati i ricercatori che si conformano a questo, ovvero che svolgono attività di ricerca lungo le linee di ricerca che prevalgono[5]. L’incentivazione del conformismo è il più efficace dispositivo di annientamento della creatività individuale e, dunque, della possibilità di generare innovazioni radicali nella conoscenza scientifica: non innovazioni ‘incrementali’ rispetto al paradigma dominante. Con una metafora,. sarebbe come se una ragazza con i capelli biondi si sottoponesse a un concorso di bellezza nel quale si è già deciso che possono vincere solo ragazze con i capelli neri.


[1] Sul tema si rinvia a Mazzucato, M. (2014). Lo stato innovatore. Laterza: Roma.

[2] Per una sintesi, si veda: http://www.universita.it/universita-sud-rischiano-sparire/

[3] Viesti, G. a cura di (2015). Nuovi scenari. Una indagine sulle Università del Nord e del Sud. Fondazione RES.

[4] Si può considerare, a riguardo, un recente contenzioso in materia di valutazione della ricerca:  http://www.roars.it/online/prosegue-il-contenzioso-sulla-collocazione-in-fascia-a-delle-riviste/. Altri ricorsi, anche su altri aspetti, sono riportati su www.roars.it.

[5] V. Forges Davanzati, G. (2015). Di cosa si occupano gli economisti, Micromega on-line, dicembre.

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La distruzione dell’Università italiana

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 14 febbraio 2016]

Nel 2009, il Ministro Tremonti aveva cominciato a raccontarci che l’Università italiana era popolata da professori baroni, nullafacenti e nepotisti e che “con la cultura non si mangia”. In nome dell’ obiettivo di tenere i conti pubblici in ordine, procedette coerentemente a un taglio del fondo di finanziamento ordinario alle Università statali che dai 702 milioni di euro nel 2010 raggiunse nel 2011 gli 835 milioni, in netta controtendenza con quanto si faceva in altri Paesi europei (Germania, in primo luogo). In fondo, si disse, più o meno esplicitamente, i trasferimenti di risorse pubbliche agli Atenei sono uno spreco. Con i loro più o meno puntuali resoconti sui concorsi truccati, giornalisti ed economisti di area “riformista” avevano fornito le “basi teoriche” della “riforma”, che verrà poi ricordata con il nome di Maria Stella Gelmini. Se anche l’obiettivo da perseguire era quello, non era chiaro perché il settore maggiormente colpito dai tagli dovesse essere quello della formazione: in fondo, si è sempre ritenuto (e si ritiene in altri Paesi) che il sottofinanziamento della ricerca è la strada più efficace per prolungare e intensificare la recessione. E’ difficile negare che il finanziamento della ricerca scientifica sia strategico per l’attuazione di flussi di innovazioni e dunque per generare crescita economica.

Come è noto, negli anni successivi non vi è stata alcuna inversione di tendenza. Tutt’altro: il sottofinanziamento delle Università ha raggiunto livelli tali da far prefigurare a SVIMEZ la chiusura totale delle sedi meridionali (non di singoli corsi di studio) nei prossimi venti anni e un drastico ridimensionamento dell’intero sistema universitario pubblico nazionale. L’imposizione di limiti alle assunzioni, combinato con l’abolizione del ruolo del ricercatore a tempo indeterminato e la sua sostituzione con il ruolo di ricercatore a tempo determinato, comporta un consistente aumento dell’età media del corpo docente e picchi di pensionamento.

Le proteste di quegli anni, lette a posteriori, non colsero la reale motivazione di queste scelte. Si disse che la controriforma dell’Università era voluta per dar spazio al privato; cosa solo parzialmente verificatasi. La motivazione era da ricercarsi altrove. Partendo dal dato per il quale le politiche formative in Italia sono da anni nelle mani di Confindustria. E le nostre imprese non hanno bisogno, salvo le dovute eccezioni, di lavoro altamente qualificato. Avevamo effettivamente troppi laureati, non già nel confronto internazionale (ne avevamo e ne abbiamo notevolmente meno), ma troppi rispetto alle esigenze di un tessuto produttivo che, anche per la caduta della domanda interna conseguente allo scoppio della crisi e dell’avvio delle politiche di austerità, accentuava le sue criticità: piccole dimensioni aziendali e scarsa propensione all’innovazione.

Lo stato di crisi estrema dell’Università italiana di inizi 2016 probabilmente dipende dall’estrema difficoltà tecnica e politica di realizzare un disegno ancora occulto nel 2009, del tutto palese oggi: differenziare le sedi in research e teaching. Nelle prime si fa ricerca, nelle seconde solo didattica, un po’ più dei Licei. Difficoltà che crea una condizione di paralisi, alla quale si cerca di porre rimedio con interventi normativi apparentemente di poca rilevanza, ma che ben delineano il percorso. Fra i tanti, la possibilità data alle commissioni di concorso di valutare i candidati sulla base del “prestigio” della sede nella quale si sono laureati (si osservi, incidentalmente, che l’Università pubblica italiana non è strutturata in sedi più o meno prestigiose).

Le difficoltà tecniche riguardano essenzialmente il fatto che questo modello può realizzarsi solo facendo uscire l’Università dal “dal perimetro della pubblica amministrazione”, per usare un’efficace espressione del Presidente del Consiglio. Il che comporta almeno due passaggi.

1) Consentire la piena mobilità dei docenti fra Atenei, dando agli Atenei stessi la facoltà di reclutare senza concorso. Diversamente, poiché – come è stato fatto notare – l’attuale configurazione del sistema universitario nazionale è un modello a  “eccellenze diffuse”, non si capirebbe in che modo gli Atenei “eccellenti” possano essere tali (ovvero, mantenere la propria condizione di “eccellenza” e accrescere la loro produttività) senza poter occupare i migliori docenti italiani ed esteri. Ma, a normativa vigente, i trasferimenti di sede sono di fatto bloccati, dal momento che l’avanzamento di carriera di un docente esterno costa notevolmente più dell’avanzamento di carriera di un docente interno.

2) Permettere la differenziazione del trattamento retributivo fra sedi universitarie diverse. In assenza di questo dispositivo, non si capirebbe per quale ragione un docente possa mai accettare di trasferirsi, assumendo peraltro un carico di lavoro che dovrebbe risultare più gravoso rispetto alla sede di provenienza. Se, infatti, la sede di provenienza è esclusivamente teaching, nella sede di arrivo ci si trova a erogare didattica non solo nelle lauree triennali, ma anche nelle lauree magistrali e nei Dottorati, con in più l’impegno della ricerca.

La realizzazione di questi passaggi richiede modifiche normative radicali e niente affatto indolori. Modiche, in più, che sono ostacolate spesso dai sindacati e dalla Magistratura. Sporadicamente anche da qualche docente. Più recentemente da un numero crescente di docenti, quelli che non parteciperanno all’esercizio di Valutazione della qualità della ricerca (VQR), legittimamente insoddisfatti di avere lo stipendio bloccato da cinque anni, non avere fondi per la ricerca, impiegare gran parte del loro tempo per far fronte a oneri burocratici la cui ratio sfugge ai più e che dovrebbero essere gestiti da un personale amministrativo anch’esso quantitativamente ridotto a meno dell’essenziale. E’ un’insoddisfazione del tutto legittima, anche se si considera che un ricercatore universitario guadagna circa 2000 euro netti al mese, un professore associato circa 2500 e un professore ordinario poco più di 3000 (con anzianità di servizio di dieci anni).

E’ importante chiarire che, quantomeno nelle scienze umane e sociali, la valutazione della ricerca non è affatto neutra. Sul piano tecnico, essa viene realizzata attraverso l’uso di indicatori che segnalano il grado di diffusione di riviste scientifiche sulle quali hanno pubblicato i singoli docenti valutati. E’ del tutto evidente che, poiché le riviste più lette sono quelle che fanno riferimento al pensiero dominante, vengono premiati i ricercatori che si conformano a questo, ovvero che svolgono attività di ricerca lungo le linee di ricerca che prevalgono. Il boicottaggio della VQR non è, per molti studiosi, solo una forma di legittima protesta, ma è anche una reazione pienamente razionale al fatto che, con questi criteri di valutazione, l’esito è predeterminato e, dunque, sottoporsi a valutazione è inutile. Con una metafora,. sarebbe come se una ragazza con i capelli biondi si sottoponesse a un concorso di bellezza nel quale si è già deciso che possono vincere solo ragazze con i capelli neri.

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Operazione ANVUR

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 12 aprile 2016]

Stefano Cristante ha recentemente, sulle colonne di questo giornale, ben riassunto le ragioni della protesta dei docenti del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo. Una protesta contro il blocco degli stipendi che si è tradotta nel rifiuto dell’invio dei “prodotti della ricerca” all’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR) e della conseguente valutazione (VQR). La motivazione è semplice: l’ANVUR non viene riconosciuto come interlocutore credibile. E vi sono buone ragioni per ritenere che stia contribuendo al processo di distruzione dell’Università pubblica di massa e che questo processo vada fermato.

ANVUR opera così. Cala dall’alto, senza alcuna possibilità di interlocuzione con le associazioni scientifiche e tantomeno con singoli docenti, un elenco di riviste sulle quali i ricercatori italiani devono pubblicare: devono nel senso che l’assenza di loro pubblicazioni in quelle riviste comporta una decurtazione di finanziamenti per l’Istituzione nella quale lavorano. La si potrebbe definire Scienza di Stato. ANVUR non valuta tutto ciò che, oltre la ricerca, fanno i professori universitari: didattica, impegni istituzionali, partecipazione a convegni, per una quantità di ore lavoro che, in molti casi, supera di gran lunga le otto ore giornaliere, compresi i fine settimana. I componenti dell’ANVUR, poi, non sono eletti ma nominati dal Ministero, con procedure alquanto opache. ANVUR, infine, ha un costo di funzionamento stimabile intorno a decine di milioni di euro annui: non è poco.

La selezione delle riviste è fatta sulla base del c.d. fattore di impatto (impact factor), un indicatore che cattura la numerosità di lettori di una data rivista. L’impact factor non è mai stato utilizzato, in nessun Paese al mondo, per valutare la qualità della ricerca scientifica: si tratta di un indicatore formulato per orientare le scelte di acquisto di riviste da parte delle biblioteche.

L’Agenzia valuta le pubblicazioni in relazione alla sede che le ha ospitate, indipendentemente dal loro contenuto, così che un articolo che nulla aggiunge alle nostre conoscenze, se, per puro caso, è stato pubblicato su riviste di “eccellenza” (ovvero certificate tali dall’Agenzia) riceve una valutazione molto positiva, così come, per contro, un articolo estremamente innovativo pubblicato su riviste che l’ANVUR non considera buone riceve una valutazione bassa. E’ del tutto evidente che questo dispositivo genera attitudini conformiste, dal momento che per pubblicare su riviste considerate prestigiose (e definite di classe A) occorre uniformarsi alla loro linea editoriale, e talvolta – come spesso documentato – anche mettere in atto comportamenti eticamente discutibili. L’amicizia con il Direttore di una rivista di classe A può facilmente consentire di essere considerati ricercatori di eccellenza.

La storia della Scienza mostra inequivocabilmente che le maggiori ‘rivoluzioni scientifiche’ si sono generate non allineandosi al paradigma dominante. In tal senso, l’operazione ANVUR è quanto di più dannoso si possa immaginare per l’avanzamento delle conoscenze in ogni ambito disciplinare e, non a caso, in quasi nessun Paese al mondo esiste una valutazione “dall’alto” della qualità della ricerca. In alcuni casi, quando si è provato a farlo si è rapidamente tornati indietro. Non a caso, all’estero, non si è valutati sulla base di protocolli di riviste generati da agenzie governative: e vi è ampio consenso sul fatto che una rivista è da considerarsi scientifica se rispetta due fondamentali criteri: l’essere dotata di un comitato scientifico, garante della qualità delle pubblicazioni che ospita, e sottoporre gli articoli che riceve a revisione anonima (peer review), al fine di accertarne la piena scientificità.

Vi è di più. L’ANVUR ha, a più riprese, riformulato le sue valutazioni; il che costituisce un segnale piuttosto eloquente della natura sperimentale degli esercizi di valutazione che compie, e della sua approssimazione. D’altra parte, l’Agenzia ha scelto curiosamente di non fare riferimento a esperienze consolidate da decenni (come quella britannica), ma di proporre nuove metodologie, con esiti a dir poco confusionari. Può essere sufficiente considerare che gli esiti della VQR in corso non saranno confrontabili con quella precedente, generando il risultato surreale per il quale non sarà possibile capire se la produttività dei ricercatori italiani, nell’ultimo decennio, è aumentata, diminuita o rimasta costante.

Il tutto rientra in uno scenario di più ampia portata, che attiene al fatto che, come dimostrato con la precedente VQR, la valutazione della ricerca serve a ridistribuire risorse ad alcuni Atenei, localizzati al Nord, andando nella direzione della distinzione fra Università reserach e teaching (e queste ultime saranno poco più che Licei). In tal senso, i dispositivi ANVUR appaiono pienamente funzionali al ritorno a un’Università di classe, con poche sedi autoproclamatesi “di eccellenza”, che formano le future classi dirigenti, e le altre nelle quali si fa formazione di base per studenti provenienti da famiglie il cui reddito non consente loro di iscriversi alle reserach. Insomma, un salto indietro di cinquanta anni o, per dirla con l’ex Ministro Mariastella Gelmini, il definitivo “superamento del ‘68”. A danno del Mezzogiorno e delle famiglie più povere del Mezzogiorno.   

L’Università in declino

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 28 giugno 2016]

L’ultimo libro di Gianfranco Viesti (“Università in declino, un’indagine sugli atenei da nord a sud”, Donzelli editore, 2016)  è una dettagliatissima e lucida analisi degli effetti delle politiche di de-finanziamento delle Università pubbliche in Italia e, soprattutto, degli effetti che queste politiche hanno prodotto sull’andamento dei divari regionali. Ne emerge un quadro a dir poco desolante per il Mezzogiorno e certamente preoccupante per i suoi giovani, le loro famiglie, e per l’economia meridionale. In estrema sintesi, le Università del Sud sono di gran lunga le più sottofinanziate nel sistema universitario nazionale e – si badi – non lo sono (esclusivamente) per la loro scarsa ‘qualità’ ma per effetto di decisioni politiche, fatte passare per questioni puramente tecniche, che oggettivamente le penalizzano. In sostanza, i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni, a partire dall’imponente taglio di risorse al sistema formativo voluto dall’ex Ministro Tremonti, a fronte della riduzione generalizzata della spesa per la formazione e la ricerca in Italia (-21% contro il +20% della Germania), redistribuisce fondi (decrescenti per tutto il sistema formativo nazionale) sulla base di algoritmi che non tengono in alcun conto variabili di contesto: a titolo esemplificativo, l’Università del Salento riceve meno fondi di una delle Università di Milano a ragione del fatto che i suoi laureati trovano più difficilmente occupazione rispetto ai loro colleghi milanesi. E’ palese che non c’è nulla di puramente ‘tecnico’ in questa scelta: non si può ignorare che trovare occupazione nel Salento è cosa assai più difficile che farlo in Lombardia. Né si può ritenere che sia compito di una Università modificare il sistema economico del territorio nella quale è collocata. Altrettanto ovvio è il fatto che l’Università del Salento fa molta più fatica a reperire finanziamenti esterni, da privati, rispetto a un’Università del Nord.

Il libro di Viesti ha il merito di dar conto di questo scenario con estrema dovizia di dati e di riferimenti normativi. Il suo è un approccio estremamente equilibrato: a fronte dell’inoppugnabile evidenza di un attacco al sistema della formazione e della ricerca, non vanno sottovalutati, a suo avviso, casi, frequenti soprattutto e purtroppo nel Mezzogiorno, di “reclutamenti sbagliati”: ovvero di assunzioni di ricercatori poco produttivi, spesso, purtroppo, assunti non sulla base della loro effettiva produttività. Qui l’autore fa riferimento ai risultati generalmente negativi che l’attività di ricerca nelle sedi meridionali ha ottenuto, avendo come riferimento l’esercizio di valutazione della ricerca condotto dall’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR). Va ricordato che la valutazione della qualità della ricerca (VQR) gestita dall’ANVUR è estremamente discutibile e che è stata recentemente oggetto di boicottaggio da parte di numerose sedi – per inciso, l’Università del Salento ha fatto registrare fra le più alte adesioni alla protesta. Non è qui il caso di dettagliare le motivazioni contro la VQR, motivazioni che si trovano in articoli recentemente ospitati anche su questo giornale.

Viesti ritiene comunque che, al netto dell’inadeguatezza della VQR, il problema della più bassa qualità della ricerca negli atenei del Sud, in effetti, esiste ed è inutile negarlo: da un certo punto di vista, la sua scelta è condivisibile soprattutto perché, in tal modo, si riduce la pulsione a rivendicare maggiori risorse per le sedi del Sud senza interrogarsi sulla efficacia del loro utilizzo (secondo il peggior schema del ‘meridionalismo piagnone’). Occorre quindi individuare le ragioni, tecniche o politiche, che hanno spinto e spingono i decisori politici ad accentrare le risorse in pochi poli localizzati al Nord. Le motivazioni di questa scelta possono essere due.

1. Si può ritenere che, in condizioni di scarsità di risorse, sia più efficace premiare i centri nei quali si fa ricerca di più elevata qualità (assunto che questa sia oggettivamente certificata dalla VQR). Questa tesi è oggetto di un’ampia controversia, soprattutto nel caso italiano, laddove, come ampiamente riconosciuto, il sistema si configura come un sistema a “eccellenze diffuse”. In altri termini, è altamente probabile che vi siano studiosi estremamente produttivi in sedi periferiche e docenti inattivi in sedi considerate o percepite come ‘eccellenti’. L’accentramento delle risorse, letto in quest’ottica, avrebbe senso solo se si riuscisse a mettere insieme, in poche sedi, i migliori ricercatori italiani nei diversi ambiti disciplinari. Cosa che, a legislazione vigente, non è possibile. Se dunque non esistono argomenti solidi per stabilire che una delle Università di Milano è, in assoluto e per tutti gli ambiti disciplinari, qualitativamente superiore all’Università del Salento, si può decretare l’assoluta inefficacia delle misure (in atto) di accentramento delle risorse e, per conseguenza, considerare la questione sotto un profilo propriamente politico.

2. Da numerose dichiarazioni di esponenti del Governo, a partire dal Presidente del Consiglio, e da componenti dell’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR) si può agevolmente intuire che si intende realizzare un progetto di differenziazione delle sedi universitarie, a danno di quelle meridionali, collocando al Nord le research university e al Sud le teaching universities (poco più che Licei). La più recente esternazione a riguardo la si deve al prof. Daniele Checchi, componente dell’ANVUR, per il quale le Università meridionali si sono auto-distrutte e ciò che occorre fare è chiudere le Facoltà di Medicina e Giuriprudenza al Sud. La realtà è ben diversa: le Università meridionali sono state (quasi totalmente) distrutte da provvedimenti di sistematico e continuo sottofinanziamento, in un quadro generale di sottofinanziamento dell’intero sistema formativo. E vi è una ragione. Le imprese meridionali, di piccole dimensioni, poco propense a innovare, poco esposte alla concorrenza internazionale, non hanno bisogno né di manodopera altamente qualificata né di ricerca di base e applicata. Le (poche) imprese italiane che spendono per ricerca sono localizzate al Nord ed è dunque “razionale”, in quest’ottica, accentrare le risorse in quelle sedi. Il “prestigio” qui non conta nulla, né potrebbe contare dal momento che non disponiamo di criteri che stabiliscano che l’Università del Salento, poniamo, è meno ‘prestigiosa’ di una delle Università di Milano.

In definitiva, va dato atto al libro di Gianfranco Viesti di aver posto la questione della crisi dell’Università italiana e, ancor più, di quella meridionale all’attenzione del dibattito pubblico. Se i decisori politici intendono demolire i centri di ricerca del Mezzogiorno abbiano il coraggio di dirlo. Abbiano il coraggio di non affidarsi agli improbabili tecnicismi dell’ANVUR per cercare, in un percorso estremamente tortuoso che inganna gli studenti meridionali e le loro famiglie, di raggiungere l’obiettivo che intendono realizzare: declassare in serie B le Università del Sud, mettere in serie A quelle del Nord.

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