Non c’è dubbio, noi italiani badiamo poco alle sorti della nostra lingua, altri si comportano diversamente. Guardiamo cosa succede in paesi vicinissimi a noi, la Spagna e la Francia, dove pure si parla una lingua derivata dal latino, come la nostra. Gli spagnoli usano redes sociales (e noi social networks), primera dama (e noi first lady), ordenador o computadora (e noi computer), deporte (e noi sport), segunda fase (e noi play off); i francesi hanno moniteur (e noi monitor), ordinateur (e noi computer), courri-el (e noi email), SIDA (e noi AIDS). Un esperimento: chi sa, esattamente, cosa significhi AIDS? Chi sa sciogliere la sigla, che riproduce la sequenza sintattica inglese, non quella italiana? Al contrario di quanto succede in Italia, lo stato francese interviene sull’uso della terminologia ufficiale, scientifica, tecnica, istituzionale, raccomanda, consiglia. In Francia nelle disposizioni e negli atti ufficiali promananti dalle strutture centrali e periferiche una parola straniera può essere usata solo a condizione che non esista già una onesta parola francese («un honnête mot français», dicono loro) per designare la stessa cosa o esprimere la stessa idea. Se facessimo lo stesso, molte oneste parole italiane rimpiazzerebbero senza difficoltà gli anglicismi più o meno abusivi presenti nella nostra lingua. In Italia ci comportiamo diversamente, certe questioni non ci sfiorano neppure. Ma almeno una domanda è lecita. Perché parlare «itangliano» o «inglesorum», come alcuni definiscono l’invadente e sciatto miscuglio linguistico che genera la continua immissione di parole inglesi nell’italiano?
Non è un argomento che interessa solo gli specialisti, riguarda tutti noi. Una lingua non è solo un insieme di parole regolate da una grammatica, ma esprime i modi di vivere e di sentire, di pensare, di concepire le relazioni tra le persone, i rapporti sociali, economici, giuridici, i sogni, i progetti di vita, i valori, il bene e il male. Abbiamo visto le terribili immagini della strage di Nizza. All’inizio della sequenza, quando il tir assassino comincia ad abbattere vittime incolpevoli, si sente una voce che angosciata grida ripetutamente: «Madonna, Madonna!». Non sappiamo chi sia quell’uomo, sappiamo solo che è un italiano, parla italiano. È così: nei momenti drammatici che segnano la vita, la morte, nelle emozioni fortissime, ognuno usa la propria lingua materna, in quei momenti non ci si può esprimere in una lingua straniera.
Qualcosa si muove, per fortuna. Il sito http://www.letteratura.rai.it/gallery-refresh/50-anglicismi-di-cui-potete-anche-fare-a-meno/620/0/default.aspx elenca 50 anglicismi molto diffusi e praticamente inutili, indicando parole italiane che potremmo usare al posto dei forestierismi (e ci capiremmo meglio). Ecco qualche esempio: abstract (ma abbiamo sommario, sintesi); advanced (ma abbiamo avanzato); aftershave (ma abbiamo dopobarba); all inclusive (ma abbiamo tutto incluso); asset (ma abbiamo beni, risorse); budget (ma abbiamo bilancio); cameraman (ma abbiamo operatore), ecc.
Recentemente presso l’Accademia della Crusca si è costituito il gruppo «Incipit»: il gruppo ha la finalità di monitorare i forestierismi nella fase in cui si affacciano nella lingua italiana e di proporre sostituzioni italiane a espressioni e termini stranieri prima che prendano piede. Ne fanno parte studiosi e specialisti della comunicazione italiani e svizzeri (si parla italiano nel Cantone svizzero del Ticino). Ed è significativo che del gruppo faccia parte una pubblicitaria, Annamaria Testa, che lo scorso anno lanciò con grande successo (70.000 firme) la petizione «#Dilloinitaliano». Usiamo l’italiano, evitiamo gli anglicismi inutili: ce lo ricorda, opportunamente, chi col proprio lavoro vuol raggiungere un pubblico vasto nella maniera più efficace. Torniamo a «Incipit». Il gruppo, attraverso la riflessione e lo sviluppo di una migliore coscienza linguistica e civile, suggerisce alternative italiane agli operatori della comunicazione e ai politici, con ricadute sulla lingua d’uso comune. Cercate www.accademiadellacrusca > attività > gruppo Incipit. Vi troverete suggerimenti utili: «chiamiamoli “centri di identificazione” e non “hot spots”»; «abbandoniamo la “voluntary disclosure” e accogliamo la “collaborazione volontaria”»; ecc. Chi cerca una bussola, ora può averla.
Intendiamoci. Non si tratta di battersi contro l’inglese, di restare ancorati al solo italiano. Sarebbe suicida. La conoscenza delle lingue straniere è fondamentale, un giovane che non conosca l’inglese avrà enormi difficoltà nel lavoro, qualsiasi cosa egli faccia. La questione è un’altra: quando parliamo italiano, parliamo italiano (bene, senza errori o strafalcioni). Quando parliamo inglese, parliamo inglese. Tutto qui. Non monolinguismo, plurilinguismo.
Non è solo questione di moda, le mode passano. Purtroppo l’anglomania si riflette nelle scelte di istituzioni come la scuola e l’università, ha riflessi sull’intera società.
In alcune scuole vige l’abitudine di tenere un insegnamento disciplinare in inglese. Badate: solo in inglese, l’italiano è cancellato. In genere questi corsi funzionano malissimo, interrogare insegnanti e alunni per conferma. Il 2 maggio 2016 si è svolta la prova del concorso a cattedra per docenti di materie letterarie nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, non c’era una sola domanda sulla lingua italiana (che i docenti vincitori dovranno insegnare).
Non va meglio nell’università. Il Politecnico di Milano ha deciso di adottare l’inglese come lingua esclusiva di corsi magistrali e di dottorato; su quella spinta altre università prendono decisioni analoghe (anche Unisalento). Non polemizzo con i miei colleghi, non è mia intenzione, invito a riflettere. Attenti alle parole: «lingua esclusiva», l’inglese e null’altro. La lingua italiana è bandita da corsi e dottorati che si tengono nelle nostre università: si farebbe così per attrarre studenti stranieri e anche per offrire ai nostri laureati occasioni di impiego all’estero. Ma sarebbe interessante sapere quanti sono gli studenti stranieri che si sono iscritti ai corsi solo in inglese e vorrei chiedere se davvero sembra razionale predisporre all’emigrazione i nostri studenti, formati con soldi pubblici, invece di dar loro un’ottima padronanza della lingua nazionale e di agire perché possano lavorare in Italia, battendosi contro le condizioni che li spingono ad emigrare.
Si tratta di questioni complesse, prevedo reazioni da chi promuove iniziative del genere. Ma bisogna sforzarsi di capire, discutere, non farsi attrarre dalle sirene della presunta modernità. L’italiano, la lingua di noi tutti, non può essere scacciato dalla scuola italiana e dall’università italiana. Non monolinguismo (straniero); plurilinguismo, questa è la strada. Nei paesi seri si fa così.
Sogno un’Italia plurilingue in cui i giovani, italiani e stranieri, parlino e scrivano correttamente la nostra lingua e conoscano una o più lingue straniere: non sarebbe questa una buona via per la conoscenza reciproca e per l’integrazione, contro l’intolleranza?
Così avrei scritto fino a poco tempo fa. Ma i fatti atroci delle ultime settimane fanno vacillare i miei convincimenti. Mi dispiace.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 31 luglio 2016]