Di mestiere faccio il linguista 29. “Inglesorum”. Le parole oneste sono l’antidoto

di Rosario Coluccia

Dopo l’articolo della scorsa settimana, che tratta dei troppi anglicismi nella lingua italiana, ho ricevuto due tipi di lettere. Molti, la maggioranza, condividono e aggiungono tantissimi altri esempi, nei campi più svariati. Altri, in minor numero, affermano (più o meno): il fenomeno non è allarmante, perché preoccuparsene? La differenza di posizioni non deve stupire, su questo tema ci sono opinioni diverse anche tra gli specialisti.

Ne hanno trattato recentemente, in un agile volumetto del Mulino, uno storico contemporaneo, Andrea Graziosi (che insegna a Napoli ed è anche presidente nazionale dell’ANVUR, l’Agenzia Nazionale per la Valutazione della Ricerca Universitaria) e uno storico della lingua italiana, Gian Luigi Beccaria (professore emerito dell’università di Torino, Accademico della Crusca e dei Lincei, noto al pubblico televisivo per aver condotto negli anni Novanta del secolo scorso la trasmissione «Parola mia», gioco televisivo sulla lingua italiana, uno dei migliori quiz culturali della Rai, immagine di una televisione intelligente e garbata che rimpiangiamo).

Provo a riassumere. Graziosi sostiene che «l’italiano non è in pericolo: esso è destinato a restare la lingua dei nostri sentimenti, dei nostri affetti, della nostra intimità e della nostra vita pubblica, la nostra lingua, insomma». Soffre (è vero), insieme alle altre grandi lingue europee, di una riduzione del suo status e del suo prestigio dovuta alla affermazione di una nuova lingua veicolare universale, cioè l’inglese; ma non c’è molto da fare, oggi le cose stanno così. Beccaria la pensa diversamente, non condivide i casi troppo numerosi di anglofilia spinta. Accattiamo espressioni inglesi inutili, con atteggiamento quasi snobistico, per sembrare internazionali; non cerchiamo delle sostituzioni, neppure quando lo potremmo fare senza danni di isolamento. Anche le istituzioni, da parte loro,  non badano granché a difendere  l’italiano.

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