Miracolo a Leuca

Giuseppe, così si chiamava il pescatore, sebbene fosse sveglio e arzillo, era nel fisico veramente provato dal mare. Le acque salate sembravano aver scavato tracce profonde come canali nella sua pelle appena nascosta da una folta peluria biancheggiante, e ritirandosi, avevano scoperto sul suo viso rughe a malapena nascoste dalla barba incolta; le sue braccia, percorse da grosse vene, erano nodose come bastoni secchi, non più forti da tentare il mare, ma ancora buone a riparare le nasse. Luca l’aveva appena conosciuto, ma gli si era subito affezionato come un nipote si affeziona a un nonno, attratto dai modi gentili e dallo sguardo bonario con cui il pescatore sembrava pronto a ricevere qualunque confidenza.

Gli si sedette di fianco e gli narrò l’accaduto, mentre Giuseppe non tralasciava di riannodare le lenze, facendo scorrere tra le mani il lungo filo di nylon. Luca non si era sbagliato a scegliere quel vecchio come confidente, perché mentre gli raccontava la sua storia, sul viso di Giuseppe si dipingeva quell’espressione di consenso che ci fa credere d’essere creduti. Il racconto di Luca non ammetteva dubbi e il volto del vecchio pescatore sembrava attestare la verità del racconto medesimo.

Quando Luca ebbe finito di parlare, il pescatore gli disse che molti anni prima, in un mattino d’agosto, una tempesta s’era abbattuta sul lido di Leuca, con una tale violenza che aveva schiantato tutto il lungomare e risucchiato la strada litoranea, attaccando finanche i muri di cinta delle ville e in parte abbattendoli. Raccontava ancora che tutto il pesce che quel giorno gli uomini non avevano potuto pescare in mare aperto lo avevano raccolto i ragazzini nelle strade del paese, dove era stato ributtato con violenza da onde alte fino a dieci metri che non s’erano mai viste prima: saraghi, orate, triglie, cefali, tonni, gamberi, aragoste, spigole, pesci spada, il mare s’era come liberato dei suoi abitanti, per farne dono ai bambini – diceva Giuseppe -, come risarcimento dei danni arrecati agli adulti dalla tempesta. Nessun leucano si era fatto male, perché tutti si erano tenuti a distanza dalle onde che facevano veramente paura.  Accadde però che il mattino del giorno seguente, quando il mare si fu calmato, nel fitto della canneto dentro il canalone, fu trovato un uomo d’una settantina d’anni, morto, un uomo che nessuno in paese aveva mai visto prima; lì era stato portato dalla mareggiata, così almeno si era detto, concluse Giuseppe; non senza aggiungere, con un tono allusivo, che da allora quello era stato il canneto più lussureggiante dei dintorni, ragion per cui qualche ora prima aveva mandato Luca proprio là, e non altrove, per tagliare una canna.

Luca aveva sgrossato e lisciato la sua canna, l’aveva fornita di lenza, amo, piombo e galleggiante, e si era procurato l’esca. Il mattino del giorno dopo, di buonora, era sceso per via Enea diritto verso il pontile. Volgendo le spalle al sole che spuntava dietro il santuario della Madonna, attendeva che la prima preda abboccasse all’amo. La canna era pesante per il braccio esile e poco esercitato del tredicenne. L’avrebbe lasciata al sole e in pochi giorni sarebbe diventata leggera e maneggevole, e così lui non si sarebbe più stancato a reggerla in mano.

Era lì da un’ora, in attesa che un pesce abboccasse, che qualche cosa avvenisse, e non aveva preso nulla: quel mare in bonaccia non gli avrebbe regalato neppure un pesce.  Silenzio tutt’intorno: alle sette del mattino, leucani e villeggianti dormivano ancora. Vide in lontananza saltare pesci argentati, luccicanti al sole sulla superficie piatta del mare; poi vide avvicinarsi una barca a motore, facendo un rumore assordante, guidata a poppa da un uomo che dirigeva la prua verso il pontile. Apriva una larga scia bianca che a lungo rimaneva ben visibile sotto l’orizzonte. Luca pensò che la barca avrebbe messo in fuga i pochi pesci che c’erano e che quel giorno non avrebbe pescato più nulla. Quando però la barca si fu avvicinata, Luca distinse il vecchio Giuseppe che lo salutava con la destra, mentre la sinistra teneva fermo il timone. Sembrava stranamente ringiovanito. S’accostò al pontile e chiese a Luca se avesse preso qualche pesce con la nuova canna. Luca, vergognandosi, rispose di no, che non aveva preso nulla e che era un pescatore sfortunato. Giuseppe gli disse che doveva avere pazienza, che la pazienza era la dote del vero pescatore, e che i pesci sarebbero venuti. Poi, salutandolo, si allontanò in direzione del porto.

Le parole del vecchio Giuseppe furono veramente miracolose: Luca tirò fuori dall’acqua, uno dopo l’altro, una ventina di pesci di media dimensione, come di rado se ne trovano nei fondali non molto profondi. Tornò a casa contento, facendo un giro largo, dopo aver percorso il lungomare verso la torre, e poi su per la salita che incrociava il ponte sul canneto: pensava di ringraziare Giuseppe per la fortuna che gli aveva portato passando dal pontile quella mattina.

Così pensava Luca, avanzando sul viadotto, quando si sentì chiamare da una voce che gli era divenuta familiare. Si affacciò sul canneto che nereggiava in basso, non ancora illuminato dai raggi del sole, e vide tra le fronde il vecchio Giuseppe che lo salutava sorridendo, mentre lui  rispondeva con un cenno che mal celava la sua inquietudine.

In casa, il padre era a colloquio col vigile del paese, che cercava Luca per dirgli che era proprio vero quello che il ragazzo gli aveva raccontato il giorno precedente, mentre suo padre cadeva dalle nuvole, poiché un uomo del paese aveva denunciato la morte di un loro vicino di casa, un vecchio pescatore di nome Giuseppe, trovato nel canneto sotto il viadotto, morto almeno due sere prima, e nessuno, eccetto Luca,  se ne era accorto.

[1999]

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