Itali-e-ni 37. E de’ remi facemmo ali al folle volo

di Paolo Vincenti

“Non sono che l’anima di un pesce 
con le ali 
volato via dal mare 
per annusare le stelle 
difficile non è nuotare contro la corrente 
ma salire nel cielo 
e non trovarci niente.” 

(“Lindbergh”  – Ivano Fossati)

Toccare il cielo con un dito. Il sogno di volare è vecchio quanto l’uomo. Grattare il cielo, avvicinarsi a Dio, solcare le immensità celesti. L’uomo vuole liberarsi dalle catene, librarsi in volo, anche se la natura non gli ha concesso questa facoltà. Così costruisce potenti mezzi per poter solcare il cielo. Dagli alianti ai jet supersonici, fino ai razzi spaziali, il volo è il risultato della bramosia umana di spaziare al di là dei confini, di superare le leggi di gravità, di vincere l’ordine fissato dalla natura. È dall’invidia per gli uccelli, che è nato l’aeroplano. E lo sapeva bene Leonardo Da Vinci, che scrisse proprio un trattato sul volo degli uccelli. Quell’invidia che dovevano serbare i fratelli Montgolfier, e che li portò alla straordinaria invenzione del pallone aerostatico, ma soprattutto che dovevano serbare i fratelli Wright, che crearono il primo rudimentale aereo. “Che più ti resta?” scriveva Vincenzo Monti nell’ode “Al signor di Montgolfier”, “infrangere anche alla Morte il telo, e della vita il nettare libar con Giove in cielo”.  L’uomo cerca di squarciare “quel telo” da che mondo e mondo, come conferma l’episodio biblico della Torre di Babele.

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