Queste condizioni già discutibili sono diventate realmente drammatiche a seguito del Covid19: i vari decreti Conte hanno consentito ai cantieri di continuare le attività, ma le condizioni di lavoro in gran parte sono prive delle condizioni di sicurezza, per la mancanza di mascherine e per la difficoltà di mantenere le distanze nella esecuzione dei lavori; inoltre l’impossibilità per i funzionari delle Soprintendenza (costretti al lavoro agile come altri impiegati statali) di controllo sulle decisioni da prendere per la tutela dei ritrovamenti ha creato continui intoppi e a volte impossibilità di continuare. In alcuni casi il mancato arrivo dei materiali come il calcestruzzo ha portato alla chiusura dei cantieri, in altri casi gli archeologi sono stati costretti a rinunciare e si sono ritrovati senza lavoro: molti ex-allievi mi hanno fatto conoscere il loro disagio e la preoccupazione. Una situazione drammatica, che anche le Consulte degli Archeologi universitari hanno denunciato, insieme alle Associazioni, con documenti inviati al Ministero dei Beni Culturali con la richiesta di un intervento, seguita da un assordante silenzio. Rita Paris, già Direttrice del Parco Archeologico dell’Appia Antica, da sempre impegnata nella difesa del Patrimonio culturale, in un intervento sul sito “Emergenza Cultura” ha richiamato l’attenzione sulla Professione invisibile di questi operatori, garanti dell’Archeologia oggi in Italia: laureati con specializzazione, alcuni anche in possesso di Dottorato di ricerca, rimasti senza lavoro o costretti a operare in cantieri privi delle norme di difesa dal morbo cinese. Ma la loro situazione è scandalosa anche in tempi normali! Lavorano “a chiamata” e spesso sono costretti ad accettare, dalle ditte sub-appaltatrici, compensi ben inferiori (ma di molto!) alle tabelle sindacali, per periodi anche molto brevi a seconda delle necessità delle Ditte. Insomma una vera giungla di relazioni umane e lavorative, un vero “caporalato d’elite”, come lo definisce Rita Paris, e per chi, come me, ha dedicato una vita alla formazione di archeologi, è un grande dolore vedere in che modo, a parte quelli che sono riusciti ad inserirsi nell’Università e nelle Soprintendenze, gli altri, altrettanto validi e preparati, siano costretti a una tale umiliante condizione di lavoro.
Purtroppo questa realtà si inserisce in un generale quadro di decadenza dell’Archeologia in Italia, colpita in modo irreparabile dalla “Riforma” del Ministro Franceschini, fatta passare con una norma di delega nella Finanziaria del 2016, che ha portato all’abolizione delle Soprintendenze Archeologiche e, per la Puglia, all’origine di un guazzabuglio di sedi in cui quella di Taranto, da più di un secolo punto di riferimento della storia dell’Archeologia in Puglia, ha subito i danni maggiori. Ma ora una nuova brillante idea dello stesso Ministro, complicherà ancor di più il quadro con l’istituzione della Soprintendenza del Mare, ma con le scarse risorse presenti in quella sede. Un cambio di nome senza prevedere strutture e nuove professionalità, nella vecchia sede della Soprintendenza tarentina all’interno del Convento di Sant’Antonio; così è avvenuto nel 2016, con l’istituzione, presso il MIBACT, dell’Istituto Centrale per l’Archeologia, come contentino dopo l’abolizione delle Soprintendenze archeologiche, e poi lasciato privo totalmente di mezzi, ad appesantire la pletora di uffici e di Direzioni Generale che può vantare (si fa per dire) il nostro Ministero.
Fa rabbia pensare che, sino a qualche anno fa, l’Italia era all’avanguardia in Europa nella tutela del Patrimonio Archeologico e potevamo vantarci di una ineguagliabile tradizione che risaliva ai Papi del Cinquecento e addirittura, a Raffaello, incaricato da Leone X, della tutela del patrimonio archeologico di Roma. Ed i colleghi francesi ci invidiavano questo primato! Oggi in Francia i professionisti archeologi (più di 2200 unità) sono assunti in organico nella Società INRAP (Istituto Nazionale Ricerche di Archeologia Preventiva) che, con 44 centri di ricerca, opera accanto alle Università ed al Ministero della Cultura, può contare su un budget annuo di 160 milioni di Euro, ed ha una struttura di Laboratori e Biblioteche che assicura anche lo studio e la pubblicazione dei reperti. Così i cugini d’Oltralpe, con un patrimonio archeologico infinitamente meno rilevante del nostro, ci hanno scavalcato anche nella tutela dei Beni Culturali!
Sono solo gli effetti -alla prova di un passaggio storico altamente critico- di un guaio che abbiamo combinato una quindicina di anni fa, quando si è diffusa la contagiosa diabolica idea di convincere i giovani che il loro ruolo fosse quello di diventare “professionisti” e di indurli ad inseguire i pifferi magici della cosiddetta “Archeologia preventiva” nei particolari termini in cui fu scritta nella Legge 109/2005.
Non è che ci fosse il nulla prima di allora: c’era già almeno dalla fine degli anni Settanta un sistema privato di archeologia “in appalto” che vedeva in Italia Archeologi con tutti i crismi della formazione accademica impegnati attivamente nel mondo del lavoro anche privato, un sistema che in uscita dalle Università e sotto la guida delle Soprintendenze funzionava niente male, ma che richiedeva di essere normato.
Per normarlo avevamo due possibi modelli alternativi ai quali ispirarci: quello inglese delle vecchie Units e poi delle ditte commerciali operanti sotto controllo di un ufficio pubblico o quello francese di prevalente (anche se per la verità non proprio esclusiva) statalizzazione dell’operatività archeologica. Entrambi nei rispettivi Paesi hanno funzionato ad avrebbero avuto buone probabilità di funzionare anche da noi, in quanto entrambi ispirati a criteri di organizzazione entro strutture stabili e plurali, nelle quali le esperienze e le competenze personali -oltre alle capacità economiche- convergono.
In Italia abbiamo invece in un arco di tempo fino al culmine della Legge 110/2014 scelto e pervicacemente perseguito il sistema della professionalizzazione forzata nel suo significato deteriore: quello dell’isolamento degli individui e del non riconoscimento di alcun valore nelle forme di aggregazione stabile, economicamente sostenibile, con capacità esecutive di cantiere e non meramente consulenziali.
Così abbiamo in massima parte spezzato le gambe -o comunque penosmente dato un taglio anche quanto a capacità di nuove assunzioni con contratti di lavoro regolari- a ditte, cooperative o società di capitali, che già c’erano, distruggendone l’esperienza di una generazione.
E adesso piangiamo.
Ma nessuno che abbia il coraggio di additare quale sia stato l’errore.
Già molto, e di questo sono grato, che emergano voci di coscienza critica rispetto alla riforma del 2016 del sistema delle Soprintendenze, che anche in questo caso ha nella dispersione delle risorse umane il suo aspetto più preoccupante.
Un altro aspetto di quella riforma mi sentirei di additare come pernicioso ma forse ancora rimediabile, un aspetto che ha avuto ricadute evidenti nella gestione dell’emergenza COVID-19: a differenza forse di altri Beni Culturali, quelli archeologici -soprattutto per quella grande e quotidiana parte dell’esercizio della tutela che si riferisce a beni che non sono ancora esattamente noti o addirittura per niente noti prima di essere sottoposti ad un procedimento- richiedono necessariamente un livello decisionale che sia di pari grado con quello delle principali norme di gestione del territorio, vale a dire un livello decisionale regionale.
Aver tolto il livello decisionale regionale alla tutela archeologica -contemporaneamente disperdendone le risorse- è a mio avviso l’altro guaio dopo alla innaturale professionalizzaione individualistica del “mestiere di Archeologo” che ci ha portati al punto in cui siamo.