Scritti sulla Scuola e sull’Università. Anno 2015

La propaganda governativa prova a far passare il messaggio che la “riforma” è un provvedimento innovativo e tace sugli orientamenti della commissione europea in materia, essendo ben chiaro che il “ce lo chiede l’Europa” è un boomerang elettorale. Occorre, per contro, chiarire che:

1) La “riforma” non introduce radicali elementi di novità. L’alternanza scuola-lavoro, parte integrante della Buona scuola, ora ridenominata “formazione congiunta”, non è affatto un’idea nuova, essendo stata alla base delle proposte per ridurre la disoccupazione giovanile dell’ultimo Governo Berlusconi. In tal senso, il Governo Renzi si muove in piena continuità con i suoi predecessori. L’alternanza scuola-lavoro è sostanzialmente la riproposizione dei programmi di apprendistato, già contenuti nel decreto 167/2011.

2) La “riforma”, di fatto, è sollecitata dalla commissione europea. Nel documento “Ripensare l’istruzione” del 2012, la commissione esorta il Governo italiano a riformare il sistema dell’istruzione avendo come obiettivo accrescere l’occupabilità dei giovani italiani e come strumento l’attivazione di percorsi formativi “basati sull’esperienza lavorativa” (http://ec.europa.eu/languages/policy/strategic-framework/documents/rethinking-leaflet/italy-rethinking-060913_it.pdf).

L’obiettivo fondamentale della Buona scuola è adeguare le competenze dei giovani alla domanda di lavoro espressa dalle nostre imprese, soprattutto attraverso l’alternanza scuola-lavoro[2]. Al di là delle valutazioni di ordine pedagogico, il punto in discussione è se questa strategia abbia probabilità di successo, ovvero se possa raggiungere l’obiettivo di ridurre la disoccupazione giovanile, e, ancor più, a quale modello di sviluppo dell’economia italiana essa sia funzionale.

L’ultima rilevazione disponibile sugli esiti dell’alternanza scuola-lavoro è il XIV Rapporto ISFOL, nel quale si rileva che la numerosità dei contratti di lavoro in apprendistato è in continua riduzione: dai 492.490 nel 2011, ai 469.855 nel 2012, con una flessione del 4,6%. Significativo anche il fatto che la numerosità di contratti di apprendistato che si è maggiormente ridotta (nell’ordine del 40%) è quella relativa a giovani di età inferiore ai 18 anni.

Questi dati fotografano il palese fallimento delle politiche finalizzate a ridurre il presunto mancato incontro fra domanda e offerta di competenze per accrescere l’occupazione giovanile. Un palese fallimento che deriva da una diagnosi completamente errata delle cause del problema, ovvero dal fatto che l’elevata (e crescente) disoccupazione giovanile in Italia dipende in percentuale irrisoria dalla non corrispondenza fra competenze offerte e competenze richieste. L’aumento della disoccupazione giovanile in Italia è innanzitutto imputabile alla caduta della domanda interna. In più, come registrato da Banca d’Italia, fin da 2010, la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/QF_75/QEF_75.pdf), con la conseguenza che la crescita della disoccupazione riguarda principalmente la componente giovanile della forza-lavoro. Il fenomeno viene imputato da molti commentatori a effetti di labour hoarding, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare, con i conseguenti costi (monetari e di tempo) connessi alla specializzazione dei nuovi assunti. A ciò si associa il fatto che la (relativa) tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta è anche dipendente da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono alla struttura familiare. In altri termini, il costo del licenziamento, in questi casi, è sia economico[3] sia psicologico[4], ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati.

Il secondo punto in discussione riguarda la connessione fra questa “riforma” e il modello di sviluppo dell’economia italiana. Si può partire dalla constatazione che il tessuto produttivo italiano è composto prevalentemente da imprese di piccole dimensioni con bassa propensione ad innovare e che la specializzazione produttiva dell’economia italiana si basa prevalentemente su quelli che l’ISTAT (http://www.istat.it/it/files/2013/02/Rapporto-competitivit%C3%A0.pdf) definisce “settori tradizionali” (il c.d. Made in Italy, l’agroalimentare, il turismo). Dunque, fatte salve le dovute eccezioni (collocate soprattutto nel comparto dei macchinari), le nostre imprese non esprimono una domanda di lavoro altamente qualificato. La “riforma” non fa che assecondare questo modello di sviluppo, provando a dequalificare la forza-lavoro in linea con la domanda espressa dalle nostre imprese. Lo strumento utilizzato consiste nel dare maggior peso alle competenze tecniche (il saper fare, cioè che il Ministero definisce “insegnamento pratico”) e incentivando percorsi di studio che preparino alla gestione delle attività turistiche e all’autoimprenditorialità[5]. Ne costituisce prova il fatto che la cultura umanistica viene radicalmente ridimensionata, così come viene messa in discussione l’”utilità” del Liceo Classico (http://www.pietroichino.it/?p=33470).

Sul piano economico, si tratta di una impostazione criticabile sotto un duplice aspetto. In primo luogo, questa impostazione, che asseconda una specializzazione produttiva a bassa intensità tecnologica, rischia di accentuare il problema del bassissimo tasso di crescita della produttività del lavoro in Italia[6].  In secondo luogo, essa fa propria una visione estremamente miope delle funzioni della scolarizzazione. Le competenze tecniche acquisite oggi, infatti, possono risultare rapidamente obsolete in un contesto nel quale ciò che conta è il saper apprendere.


[1] V. http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/08/disoccupazione-giovanile-colpa-dellistruzione-parola-di-confindustria/1147379/

[2] Nel documento preparatorio della “riforma” si legge:  “Occorre conoscere le forme della nuova geografia del lavoro, e le competenze che il mondo richiede. Per fare questo, vogliamo costruire uno strumento di mappatura della domanda di competenze del nostro sistema Paese … Concretamente, sarà uno strumento utile le scuole per predisporre piani di orientamento coerenti con la domanda di lavoro prevista dal territorio, ma anche uno strumento per la revisione dei curricoli scolastici stessi”.

[3] Per l’ovvia ragione che, in questo caso, il licenziamento comporta la riduzione di reddito della famiglia.

[4] Per l’altrettanto ovvia ragione che è psicologicamente costoso licenziare un familiare.

[5] Nel documento preparatorio si legge: “abbiamo bisogno di formare giovani capaci di ripartire dal Made In Italy inteso nella sua accezione più ampia e di valorizzare le nostre meraviglie artistiche all’interno dell’offerta turistica, anche scegliendo strade imprenditoriali”.

[6] Per un approfondimento, si rinvia, fra gli altri, a G.Forges Davanzati, Alle origini del declino economico italiano, “Micromega”, 1 aprile 2015; P.Pini, L’Italia e la trappola della produttività, “Sbilanciamoci”, 26.11.2013; S.Perri, Bassa domanda e declino italiano, “Economiaepolitica”, 4.4.2013.

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La “Buona Scuola” e il mondo del lavoro

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 5 giugno 2015]

Nel documento preparatorio della “riforma” della Buona Scuola, il Governo propone questa diagnosi della disoccupazione giovanile in Italia: “Il 40% della disoccupazione in Italia non dipende dal ciclo economico. Una parte di questa percentuale è collegata al disallineamento tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede alla scuola di sviluppare, e ciò che la nostra scuola effettivamente offre”. In sostanza, si ritiene che l’elevata (e crescente) disoccupazione giovanile in Italia sia imputabile a fenomeni di mismatch,ovvero di mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro, a sua volta riconducibile al fatto che il nostro sistema formativo non offre competenze adeguate a quelle richieste dalle imprese. Sulla base di questa diagnosi, si propone una serie di interventi finalizzati a orientare i processi formativi nella direzione delle qualifiche domandate, soprattutto mediante la c.d. alternanza scuola-lavoro.

Assumiamo che la diagnosi sia corretta, come attestato dall’ultimo Rapporto Mckinsey, che è la base teorica della “riforma”. E’ bene chiarire che si tratta di una diagnosi che deriva da una ricerca del gennaio 2014 realizzata da una delle più importanti imprese multinazionali che operano nel settore della consulenza aziendale. Curiosamente, il Governo ha scelto questa fonte e non quella ufficiale UnionCamere-Ministero del Lavoro. Da quest’ultima, in radicale contrapposizione con la prima, risulta che il tasso di disoccupazione giovanile imputato alla “mancanza di adeguata preparazione e formazione” è pari al solo 2% della disoccupazione giovanile complessiva.

L’obiettivo fondamentale della “riforma” è adeguare le competenze dei giovani alla domanda di lavoro espressa dalle nostre impresesoprattutto attraverso l’alternanza scuola-lavoro. Al di là delle valutazioni di ordine pedagogico, il punto in discussione è se questa strategia ha probabilità di successo, ovvero se raggiunge l’obiettivo di ridurre la disoccupazione giovanile, e, ancor più, a quale modello di sviluppo dell’economia italiana essa è funzionale.

Occorre innanzitutto chiarire che l’alternanza scuola-lavoro, parte integrante della “riforma”, ora ridenominata “formazione congiunta”, non è affatto un’idea nuova e che è stata parte integrante delle proposte per ridurre la disoccupazione giovanile dell’ultimo Governo Berlusconi. In tal senso, il Governo Renzi si muove in piena continuità con i suoi predecessori, seguendo una linea di politica del lavoro pienamente condivisa dai Governi che lo hanno preceduto. L’alternanza scuola-lavoro è sostanzialmente la riproposizione dei programmi di apprendistato, già contenuti nel decreto 167/2011. Il che non è casuale, dal momento che, in entrambi i casi, non si è fatto altro che recepire le “raccomandazioni” della commissione europea. Nel documento “Ripensare l’istruzione” del 2012, la commissione esorta il Governo italiano a riformare il sistema dell’istruzione tenendo avendo come obiettivo accrescere l’occupabilità dei giovani italiani e come strumento l’attivazione di percorsi formativi “basati sull’esperienza lavorativa”.

L’ultima rilevazione disponibile sugli esiti dell’alternanza scuola-lavoro è il XIV Rapporto ISFOL, nel quale si rileva che la numerosità dei contratti di lavoro in apprendistato è in continua riduzione: dai 492.490 nel 2011, ai 469.855 nel 2012, con una flessione del 4,6%. Significativo anche il fatto che la numerosità di contratti di apprendistato che si è maggiormente ridotta (nell’ordine del 40%) è quella relativa a giovani di età inferiore ai 18 anni.

Questi dati fotografano il palese fallimento delle politiche finalizzate a ridurre il presunto mancato incontro fra domanda e offerta di competenze per accrescere l’occupazione giovanile. Un palese fallimento che deriva da una diagnosi completamente errata delle cause del problema, ovvero dal fatto che l’elevata (e crescente) disoccupazione giovanile in Italia dipende in percentuale irrisoria dalla non corrispondenza fra competenze offerte e competenze richieste. L’aumento della disoccupazione giovanile in Italia è innanzitutto imputabile alla caduta della domanda interna. In più, come registrato da Banca d’Italia, fin da 2010, la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti, con la conseguenza che la crescita della disoccupazione riguarda principalmente la componente giovanile della forza-lavoro. Il fenomeno viene imputato da molti commentatori a effetti di labour hoarding, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare, con i conseguenti costi (monetari e di tempo) connessi alla specializzazione dei nuovi assunti. A ciò si associa il fatto che la (relativa) tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta è anche dipendente da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono alla struttura familiare. In altri termini, il costo del licenziamento, in questi casi, è sia economico sia psicologico, ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati.

Il secondo punto in discussione riguarda la connessione fra questa “riforma” e il modello di sviluppo dell’economia italiana. Si può partire dalla constatazione che il tessuto produttivo italiano è composto prevalentemente da imprese di piccole dimensioni con bassa propensione ad innovare e che la specializzazione produttiva dell’economia italiana si basa prevalentemente su quelli che l’ISTAT definisce “settori tradizionali” (il c.d. Made in Italy, l’agroalimentare, il turismo). Dunque, fatte salve le dovute eccezioni (collocate soprattutto nel comparto dei macchinari), le nostre imprese non esprimono una domanda di lavoro altamente qualificato. La “riforma” non fa che assecondare questo modello di sviluppo, provando a dequalificare la forza-lavoro in linea con la domanda espressa dalle nostre imprese. Lo strumento utilizzato consiste nel dare maggior peso alle competenze tecniche (il saper fare, cioè che il Ministero definisce “insegnamento pratico”) e incentivando percorsi di studio che preparino alla gestione delle attività turistiche e all’autoimprenditorialità. Ne costituisce prova il fatto che la cultura umanistica viene radicalmente ridimensionata, così come viene messa in discussione l’”utilità” del Liceo Classico

Sul piano economico, si tratta di una impostazione criticabile sotto un duplice aspetto. In primo luogo, sul piano strettamente economico, questa impostazione, che asseconda una specializzazione produttiva a bassa intensità tecnologica, rischia di accentuare il problema, prevalentemente italiano, del bassissimo tasso di crescita della produttività del lavoro. In secondo luogo, essa fa propria una visione estremamente miope delle funzioni della scolarizzazione. Le competenze tecniche acquisite oggi, infatti, possono risultare rapidamente obsolete in un contesto nel quale ciò che conta è il saper apprendere.

 Nel documento preparatorio si legge: “abbiamo bisogno di formare giovani capaci di ripartire dal Made In Italy inteso nella sua accezione più ampia e di valorizzare le nostre meraviglie artistiche all’interno dell’offerta turistica, anche scegliendo strade imprenditoriali”.

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L’Università sotto la lente della Conferenza di Ateneo

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 10 dicembre 2015]

L’Italia è ultima, fra i Paesi OCSE, per percentuale di laureati, superata nell’ultimo anno dalla Turchia. Lo certifica l’ultimo Rapporto Education at glance, ed è un dato non sorprendente per chi è a conoscenza del processo di demolizione dell’Università italiana portata avanti dai Governi che si sono succeduti almeno negli ultimi cinque anni. Da quando il Ministro Tremonti dichiarò che “con la cultura non si mangia” all’accesa campagna mediatica che ha dipinto l’Università italiana come luogo di baronie e nepotismi, alla massiccia riduzione dei finanziamenti (e, dunque, all’aumento delle tasse di iscrizione) si è delineato un percorso che non poteva non avere questo esito.

La fondamentale motivazione utilizzata per decurtare fondi alle Università riguarda il fatto che questi risparmi sono necessari per ragioni di bilancio. Si tratta di una tesi palesemente falsificata dal fatto che, nell’intero settore del pubblico impiego, le maggiori decurtazioni di fondi sono state subìte proprio da scuole e università. Si è, dunque, in presenza di una scelta di ordine puramente politico, non dettata da ragioni “tecniche”. Scelta di ordine politico che ha a che vedere con il modello di specializzazione produttiva dell’economia italiana. E’ del tutto evidente, infatti, che un sistema produttivo prevalentemente composto da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, collocate in settori “maturi” (agroalimentare, Made in Italy) non ha bisogno né di ricerca (né di base e neppure di ricerca applicata) né di forza-lavoro altamente qualificata.

Nel Mezzogiorno la situazione è ancora peggiore. E’ sufficiente un dato per fotografarla: il 25,7% del totale della “quota premiale” (la quota del finanziamento ordinario quantificata sulla base della produttività degli Atenei), nel 2013, è andato agli atenei meridionali contro il 36,8% delle Università settentrionali. Come registrato dalla SVIMEZ (Rapporto 2014), al sistema universitario meridionale sono stati sottratti 160 milioni di euro dal 2011. Ciò fondamentalmente a ragione del numero eccessivo di studenti fuori corso e di laureati disoccupati. Al di là del fatto che non dovrebbe essere compito dell’Università modificare il contesto socio-economico nel quale opera, il disegno appare chiaro (anche perché esplicitato recentemente dal Presidente del Consiglio): diversificare il sistema universitario italiano in sedi teaching e sedi research, dove nelle seconde si fa didattica ricerca e nelle prime esclusivamente didattica (con soli corsi di laurea triennali – poco più di un Liceo). E non è un mistero che i poli di “eccellenza” che si intendono istituire (o dichiarare tali) sono al Nord.

Ben venga, in questo scenario, la Conferenza di Ateneo convocata dal Rettore per l’11 dicembre. Si tratta di una giornata dedicata a un’approfondita discussione, fra docenti e rappresentanti delle Istituzioni, su come invertire questa tendenza, quantomeno sul piano locale, e, in particolare, su come rendere soprattutto l’attività di ricerca dell’Università del Salento più produttiva. Nella nota del Rettore si legge che l’Università del Salento è ben posizionata per quanto attiene alla Didattica e alle citazioni degli articoli scritti dai ricercatori che vi afferiscono, mentre ha punti di debolezza nell’internazionalizzazione, nei rapporti con il territorio e nella ricerca. La domanda che ci si pone è dunque: come migliorare la qualità della ricerca scientifica nel nostro Ateneo? E’ necessario preliminarmente chiarire che, se le politiche per/contro l’Università, continueranno in questa direzione, ragionare sulla produttività della ricerca in un singolo Ateneo diventerà un esercizio del tutto sterile e che, dunque, ciò che preliminarmente sarebbe auspicabile fare è una battaglia politica per ricevere dal Ministero un’entità di finanziamenti almeno pari a quella precedente ai tagli Tremonti-Gelmini.

La risposta più immediata che verrebbe da dare è reclutare giovani preparati e motivati, considerando il fatto che, in molti settori, la maggiore produttività scientifica si registra nella fascia d’età compresa fra i 30 e i 40 anni. Ma, a legislazione vigente, questa misura è di fatto inattuabile, almeno non lo è in misura significativa.

L’accesso alla carriera universitaria è, oggi, in Italia, non solo estremamente difficile (per non dire quasi impossibile) ma anche sempre più legata a lunghi periodi di precariato. Ciò per il combinato di due fattori che attengono alla c.d. riforma Gelmini e al sottofinanziamento della ricerca. La riforma Gelmini ha sostituito al ruolo del ricercatore a tempo indeterminato (ruolo che va ad esaurimento) quello del ricercatore a tempo determinato. Al tempo stesso, si sono ridotti in modo massiccio i finanziamenti alle Università e si è legata la possibilità di reclutamento alla disponibilità di “punti organico” (facoltà assunzionali). In queste circostanze, si disincentiva l’assunzione di giovani ricercatori dal momento che questa costerebbe più dell’avanzamento di carriera dei ricercatori a tempo indeterminato. In un contesto di continua riduzione di fondi, si può comprendere che, anche in presenza di giovani molto preparati, si tenda a preferire, risparmiando, l’uso di risorse umane già disponibili. Occorre dunque valorizzare prevalentemente i ricercatori già presenti, con misure che, dato il sottofinanziamento, sono necessariamente minimali. Le proposte potrebbero essere tante: ridurre l’ipertrofia normativa, che sottrae tempo alla ricerca, nei limiti di quanto  è possibile fare in un singolo Ateneo, incentivare l’internazionalizzazione, anche chiamando a Lecce professori ‘di chiara fama’ in grado di rendere l’Università del Salento più attrattiva e di organizzare gruppi di lavoro intorno alle loro linee di ricerca.

Ma il problema resta politico e attiene ai rapporti fra i Rettori e il Ministero. Ed è anche culturale, nel senso che il docente universitario è sempre più percepito come un privilegiato nullafacente. Si tratta di una percezione distorta. Oltre alla didattica alla ricerca alla c.d. terza missione (ovvero la cura dei rapporti con il territorio), molta parte del tempo di lavoro di un professore universitario, oggi, è dedicata alla compilazione di moduli il cui contenuto è spesso ai limiti del surreale. Lo stipendio medio di un docente con quindici anni di servizio si aggira intorno ai 2500 euro mensili ed è bloccato da cinque anni. I fondi pubblici per la ricerca sono pressoché azzerati, ed è estremamente difficile reperirli all’esterno, soprattutto in aree, come il Salento, nelle quali non esiste un forte tessuto imprenditoriale. E’ banale affermare che la ricerca scientifica è l’attività che maggiormente contribuisce alla crescita economica e civile del Paese, e che non merita di essere mortificata da campagne di stampa denigratorie e di essere sottofinanziata. Ma al Ministero la pensano diversamente.

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