Scritti sulla Scuola e sull’Università. Anno 2014

E si può ricordare anche la proposta di Francesco Giavazzi di chiudere le Università di Bari, Messina e Urbino, a ragione della loro bassa qualità come certificata dalla VQR (http://www.roars.it/online/francesco-giavazzi-e-la-sua-magnifica-ossessione/).

Si consideri “eccellente” uno studioso che ha conseguito i punteggi massimi nell’ultimo esercizio VQR, e si consideri eccellente una sede universitaria che risulta, per tutti i settori disciplinari, qualitativamente superiore alla media. Il problema del progetto Debenedetto-Giavazzi et al. risiede nel fatto che si tratta di un progetto molto difficilmente realizzabile, sia per ragioni tecniche, sia per ragioni politiche, e, sotto molti aspetti, non desiderabile per l’efficienza dell’intero sistema universitario nazionale.

Per realizzarlo occorrono i seguenti passaggi, che prefigurano una vera e propria corsa a ostacoli.

1) Consentire la piena mobilità dei docenti fra Atenei, dando agli Atenei stessi la facoltà di reclutare senza concorso. Diversamente, poiché – come è stato fatto notare – l’attuale configurazione del sistema universitario nazionale è un modello a “eccellenze diffuse” (http://triskel182.wordpress.com/2013/07/17/la-ricerca-perduta-delle-universita-tito-boeri/), non si capirebbe in che modo gli Atenei “eccellenti” possano essere tali (ovvero, mantenere la propria condizione di “eccellenza” e accrescere la loro produttività) senza poter occupare i migliori docenti italiani ed esteri. A normativa vigente, i trasferimenti di sede sono di fatto bloccati, dal momento che l’avanzamento di carriera di un docente esterno costa notevolmente più dell’avanzamento di carriera di un docente interno e, in una condizione di sottofinanziamento della gran parte degli Atenei italiani, è arduo immaginare che si proceda in massa al reclutamento di docenti esterni. E, a normativa vigente, occorre comunque passare per un concorso, con la possibilità che risulti vincitore un ricercatore non ritenuto “eccellente” dal Dipartimento che ha bandito, o un ricercatore che lavora su linee di ricerca estranee al Dipartimento che lo assume: dunque, occorrerebbe consentire chiamate dirette. E, poiché non è da escludere che a Dipartimenti di eccellenza interessi reclutare (p.e. per valorizzare una specifica linea di ricerca) anche docenti non abilitati, e neppure è da escludere che alcuni docenti non abilitati siano eccellenti, occorrerebbe consentire loro la massima libertà di assunzione, anche in violazione dei risultati dell’ASN.

2) Consentire la differenziazione del trattamento retributivo fra sedi universitarie diverse. In assenza di questo dispositivo, non si capirebbe per quale ragione un docente possa mai accettare di trasferirsi, assumendo peraltro un carico di lavoro che dovrebbe risultare più gravoso rispetto alla sede di provenienza. Se, infatti, la sede di provenienza è esclusivamente teaching, nella sede di arrivo ci si trova a erogare didattica non solo nelle lauree triennali, ma anche nelle lauree magistrali e nei Dottorati, con in più l’impegno della ricerca.

3) Consentire di assumere senza rispettare i vincoli della “piramide” – per i quali deve esistere una percentuale ‘ottimale’ di professori ordinari in ciascun Ateneo – e senza rispettare i vincoli sul reclutamento di esterni legato all’avanzamento di carriera di interni. Ciò a ragione del fatto ovvio che l’”eccellenza” è propria dei ricercatori, come dei professori associati e come dei professori ordinari.

Una rivoluzione – o “svolta epocale”, come l’ha definita l’ex Ministro Mariastella Gelmini – di tale portata sarebbe giustificabile se il sistema universitario italiano fosse fra i peggiori al mondo. Ma è proprio l’ANVUR, nel suo primo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca (http://www.anvur.org/index.php?option=com_content&view=article&id=645:presentato-il-primo-rapporto-sullo-stato-del-sistema-universitario-e-della-ricerca-it&catid=48:news-altro

it&Itemid=363&lang=it), a certificare che la produzione scientifica italiana non è affatto trascurabile, sia sul piano quantitativo, sia sul piano qualitativo, e che anzi, per alcune aree di ricerca, l’Italia si colloca fra i primi posti nell’ambito dei Paesi europei e dei Paesi OCSE. In più, se, come pare di capire, la direzione verso la quale si intende andare è questa, il metodo meno efficace per giungervi è quello fin qui usato: l’ipertrofia normativa, che, in ultima analisi, finisce per penalizzare anche le Università candidabili come “eccellenti”.

In più, la chiusura di sedi universitarie non è desiderabile per almeno due ragioni. In primo luogo e prescindendo del tutto, in prima istanza, dalla rilevanza della ricerca scientifica – chiudere un Ateneo, soprattutto in città di piccole-medie dimensioni implica effetti economici rilevanti, e di segno negativo, sull’”indotto” che si associa a ogni sede universitaria (si pensi, a puro titolo esemplificativo, al mercato immobiliare per quanto attiene agli affitti per gli studenti, nonché ai loro consumi). In tal senso, la chiusura di sedi è innanzitutto di difficilissima praticabilità politica. In secondo luogo, se anche questa operazione avesse successo, vi è da dubitare che il sistema della ricerca e della formazione ne tragga vantaggio. Per i seguenti motivi:

a. Per quanto attiene alla ricerca, non vi è evidenza del fatto che una forte concentrazione dei fondi per poche sedi accresca la quantità e la qualità della ricerca stessa. Come recentemente riportato da “Nature”, i ricercatori italiani risultano estremamente produttivi nel confronto con i loro colleghi della gran parte dei Paesi OCSE, pure a fronte del fatto che, a differenza di altri Paesi, in Italia non esiste la distinzione fra università research teaching[1].

b. Per quanto attiene alla formazione, è evidente che la chiusura di sedi accentua l’immobilità sociale, se non altro perché è verosimile che le Università di eccellenza chiedano tasse più alte (e per i costi di spostamento degli studenti dalla loro residenza ai luoghi di studio). Si può ricordare che, su fonte OCSE, l’Italia è, assieme al Regno Unito e agli Stati Uniti, il Paese nel quale è massima la probabilità che figli di famiglie con basso reddito percepiranno redditi bassi, e figli di famiglie con alto reddito percepiranno redditi elevati (http://www.oecd.org/italy/41524655.pdf).

Se si riconosce che un’elevata qualità della ricerca e un’elevata mobilità sociale sono fattori di crescita economica (e sarebbe piuttosto difficile non riconoscerlo), occorre concludere che il progetto Debenedetto-Giavazzi et al. – proprio perché rischia di generare effetti negativi su ricerca e mobilità sociale – è decisamente da respingere.


[1] Per un approfondimento, si rinvia a http://www.roars.it/online/la-performance-della-ricerca-scientifica-italiana/

.

Come funziona l’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca)

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 4 settembre 2014]

L’Unione Europea è diffusamente percepita come un club dominato dalla Germania, la cui sola funzione è imporre stringenti vincoli al bilancio pubblico dei Paesi membri, attraverso l’attuazione di politiche di austerità. Occorre riconoscere che l’Unione Europea non è solo questa e, almeno per quanto attiene al settore della formazione, raccomanda il raggiungimento di obiettivi dai quali l’Italia va continuamente distanziandosi, in virtù delle opinabili scelte che gli ultimi Governi italiani hanno effettuato. Fra questi: l’agenda di Lisbona prescrive di destinare il 3% del Pil agli investimenti in ricerca e innovazione, a fronte di un investimento italiano pari a circa l’1% e in costante riduzione; la commissione europea propone ai Paesi dell’eurozona di raggiungere una quota di laureati pari al 40%, a fronte di circa il 20% in Italia, anche in questo caso in costante riduzione. E, per quanto riguarda la valutazione della ricerca, si ritiene che la si debba fare con il minimo uso di indicatori e automatismi, e con la massima partecipazione dei soggetti ai quali essa è destinata (è il caso del primo esercizio di valutazione, effettuato in Inghilterra negli anni ottanta, e tuttora diffusamente considerato un esercizio da imitare).

In Italia accade questo. L’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR) – il cui costo di funzionamento è stimato a circa 10milioni l’anno – stabilisce un elenco di riviste sulle quali i ricercatori sono chiamati a pubblicare, definendole di fascia A sulla base di tecniche e metodologie alquanto discutibili. Fra queste, si può considerare il fatto che ANVUR considera “eccellente” un ricercatore che pubblichi su riviste con elevata “reputazione”, del tutto indipendentemente dalla rilevanza dei contenuti della ricerca. La “reputazione” di una rivista è certificata dal suo “fattore di impatto” (impact factor), e la sua certificazione è effettuata sulla base di criteri individuati dall’istituto Thomas Reuters, azienda privata anglo-canadese. In altri termini, in Italia si valuta il contenitore (la rivista), non il contenuto, e il contenitore è buono se lo considera tale una delle più grandi imprese private su scala mondiale che opera nel settore dell’editoria. Va peraltro ricordato che l’impact factor è stato pensato come strumento per selezionare l’acquisto di riviste da parte delle biblioteche universitarie, e, anche sul piano strettamente tecnico, da più parti se ne sconsiglia l’uso ai fini della valutazione della ricerca scientifica: è recente la denuncia dell’Accademia dei Lincei contro l’uso di indicatori bibliometrici per la valutazione della ricerca, soprattutto nelle scienze umane e sociali. E va anche ricordato che negli Stati Uniti – le cui Università sono comunemente ritenute estremamente sensibili alla “cultura della valutazione” – l’impact factor non è quasi mai considerato un indicatore attendibile per valutare la qualità della produzione scientifica.

In Italia, i (pochi) reclutamenti nelle Università italiane e i (pochi) avanzamenti di carriera dei docenti universitari avvengono prevalentemente sulla base della qualità della ricerca scientifica dei candidati, come certificata dalla lista delle riviste elaborata da ANVUR sulla base del loro impact factor. Il che genera un meccanismo potenzialmente vizioso. La gran parte delle riviste considerate eccellenti tende a pubblicare articoli il cui contenuto è in linea con la visione dominante, per una specifica disciplina e per un particolare tema affrontato. Ciò induce attitudini conformiste, soprattutto da parte delle giovani generazioni, impedendo di fatto la produzione di ricerche realmente innovative. E poiché l’attività didattica non è mai disgiunta dall’attività di ricerca, i contenuti dell’insegnamento tendono a diventare sempre più conformi alla visione dominante, rendendo gli studenti sempre meno informati su teorie alternative a quelle dominanti.

La valutazione della ricerca così come è fatta da ANVUR va contrastata per i non pochi errori tecnici che l’Agenzia ha commesso e continua a commettere, va anche contrastata perché istituisce una modalità di valutazione di impronta dirigista, che non lascia alcuna possibilità di controllo da parte di chi (docenti e, per conseguenza, studenti) ne è destinatario, ma soprattutto perché – quantomeno nelle scienze sociali – è un’operazione niente affatto neutra. Si può infatti rilevare che, con queste modalità, la valutazione della ricerca indica ciò che i ricercatori dovrebbero fare e assume, dunque, una valenza normativa.

Vi è di più. La valutazione della ricerca, secondo alcune interpretazioni, dovrebbe servire anche a differenziare il sistema universitario italiano, con sedi di eccellenza (nelle quali si fa ricerca) e teaching universities (nelle quali si fa solo didattica). Se anche questa operazione avesse successo, vi è da dubitare che il sistema della ricerca e della formazione ne tragga vantaggio. Per i seguenti motivi:

a. Per quanto attiene alla ricerca, non vi è evidenza del fatto che una forte concentrazione dei fondi per poche sedi accresca la quantità e la qualità della ricerca stessa. Come recentemente riportato da “Nature”, i ricercatori italiani risultano estremamente produttivi nel confronto con i loro colleghi della gran parte dei Paesi OCSE, pure a fronte del fatto che, a differenza di altri Paesi, in Italia non esiste la distinzione fra università research teaching.

b. Per quanto attiene alla formazione, è evidente che la chiusura di sedi accentua l’immobilità sociale, se non altro perché è verosimile che le Università di eccellenza chiedano tasse più alte (e per i costi di spostamento degli studenti dalla loro residenza ai luoghi di studio). Si può ricordare che, su fonte OCSE, l’Italia è, assieme al Regno Unito e agli Stati Uniti, il Paese nel quale è massima la probabilità che figli di famiglie con basso reddito percepiranno redditi bassi, e figli di famiglie con alto reddito percepiranno redditi elevati.

E’ probabile che, per i non addetti ai lavori, poco conta il modo in cui, in Italia, la ricerca scientifica viene valutata e probabilmente molto contano, nella scelta delle sedi universitarie nelle quali iscriversi o iscrivere i propri figli, le classifiche periodiche prodotte dai principali quotidiani nazionali, spesso propagandate in modo del tutto acritico, ovvero senza discussione delle (opinabili) metodologie utilizzate. Ne costituisce un esempio recente il fatto che sui maggiori quotidiani nazionali si è ripetutamente letto che, da una recente indagine dell’ARWU, l’Università di Bologna sarebbe la prima Università italiana, seguita da Milano, Padova, Pisa, Roma La Sapienza, mentre l’indagine le collocava nella medesima posizione, ponendole semplicemente in ordine alfabetico.

Se si riconosce che un’elevata qualità della ricerca e un’elevata mobilità sociale sono fattori di crescita economica (e sarebbe piuttosto difficile non riconoscerlo), occorre concludere che il progetto di differenziazione delle sedi – proprio perché rischia di generare effetti negativi su ricerca e mobilità sociale – è decisamente da respingere.

Tutto ciò dovrebbe indurre a riflettere in merito al fatto che la valutazione della ricerca e i finanziamenti ad essa destinati, così come i ranking delle sedi universitarie non sono questioni riconducibili a un rito che si consuma nella “Torre d’Avorio” dell’Università italiana, ma riguardano o dovrebbe riguardare innanzitutto gli studenti e le loro famiglie.

Questa voce è stata pubblicata in Scolastica, Scritti sull'Università e sulla Scuola di Guglielmo Forges Davanzati, Universitaria e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *