Forse è nell’esperienza che stiamo vivendo che la civiltà deve dimostrare il suo livello di coesione, la coerenza con i principi, l’aderenza ai significati essenziali di quella condizione che chiamiamo globale.
Perché se globale non significa concreta comunità, e se comunità non significa concreta condivisione, allora sia l’una che l’altra parola designano una pura astrazione.
Ancora: se solidarietà non significa mettersi a disposizione di chi in un tempo della propria storia ha più bisogno, allora questa parola mostra tutti i caratteri di una menzogna.
Il futuro ci chiederà il conto: di quello che abbiamo o non abbiamo fatto per gli altri, di quello che abbiamo messo a disposizione degli altri. Ci chiederà il conto di quello che abbiamo fatto per il mondo intorno a noi o lontano da noi. E’ una frase fatta, però questa volta è per davvero che il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano d’altra parte del mondo.
Poi c’è un’altra cosa che è di una verità estrema, e riguarda la cultura, una parola che significa, semplicemente, visione del mondo e delle creature che abitano il mondo.
Ecco: c’è bisogno di riformulare, rifondare, ricostruire una cultura, di stabilire nuovi punti di riferimento, di ripristinare il senso essenziale dell’essere insieme, di essere comunità. Forse con una formula acquisita ma semanticamente rinnovata si potrebbe dire che c’è bisogno di un nuovo umanesimo planetario, di un concetto di benessere, di sviluppo, di progresso che contemperi il locale e il globale, la parte e il tutto, di definire un orizzonte verso il quale procedere senza lasciare indietro, e disperso, nessuno.
Il futuro ci chiederà conto di tutto quello che sapremo fare in questo tempo di crisi strutturale che richiede, reclama, una nuova visione culturale e un’azione condivisa di risposta alla crisi. Ci chiederà conto della responsabilità che ci siamo assunti e del sentimento che proviamo nei confronti del mondo.
Quando tutto va bene, quando i granai traboccano, in fondo è facile avere fiducia e dichiarare il proprio avere fiducia.
Ma il mio maestro della scuola elementare diceva che bisogna pregare nel giorno del Venerdì Santo, perché pregare in quel giorno è doloroso, e David Maria Turoldo diceva più o meno la stessa cosa. Per cui ci piace e vogliamo pensare che la preghiera, oltre ad un pensiero, sia anche un’azione, un progetto, un impegno di realizzazione di quello che si rivela opportuno, necessario, urgente realizzare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 12 aprile 2020]