Il futuro chiederà conto di questo tempo

di Antonio Errico

Il mio maestro della scuola elementare era un sacerdote. Aveva fatto il cappellano militare. Era uno di quegli uomini che pronunciano parole al tempo e al modo e nella quantità in cui le parole devono essere pronunciate. Era uno che insegnava i significati delle cose e delle storie senza rivelarli, ma facendoli scoprire. Per esempio: quando facevamo ricreazione, ci diceva di raccogliere le briciole sulla carta che avvolgeva il panino e poi di mettere quelle carte sul davanzale della finestra. Passavano appena due minuti e sul davanzale si manifestava la riconoscenza di passeri festosi. Nessuno di quella classe è diventato cacciatore.

Una volta – forse in quarta, forse in quinta – negli ultimi minuti dell’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Pasqua – forse era di marzo, forse era di aprile – ci disse: – dovete pregare il Signore nel giorno di Venerdì Santo, perché in quel giorno pregare è doloroso. La Domenica di Pasqua, la preghiera è un’allegria -.

Quando le parole hanno davvero valore, prima o poi si ritrovano da qualche parte, in qualche situazione.

Io ho ritrovato il loro significato profondo molti anni dopo, in una poesia di David Maria Turoldo che dice così: “No, credere a Pasqua non è/ giusta fede:/ troppo bello sei a Pasqua!/ Fede vera/ è  al Venerdì Santo/ quando Tu non c’eri/ lassù./ Quando non una eco/ risponde/ al suo grido/ e a stento il Nulla/ dà forma/  alla Tua assenza”.

Eppure, in questo tempo di passione, di Venerdì Santo, noi abbiamo bisogno di credere a Pasqua. Ne ha bisogno ciascuno di noi; ne ha bisogno questo Paese, il mondo. Abbiamo bisogno di credere che ciascuno si renda disponibile a fare tutto quello che è indispensabile fare. Senza fratture, chiusure, egoismi.

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