Tutti avevano ragione e torto: moltissimi si sono infettati e non se ne sono accorti, altri si sono ammalati e sono guariti, altri sono andati in terapia intensiva e sono guariti, e altri sono morti. Epidemie annunciate, come l’aviaria, si sono estinte senza alcun intervento: i vaccini sono rimasti inutilizzati. Ma la legge “tutte le epidemie si estinguono da sole senza vaccinazioni” è fasulla, e va sostituita con qualcosa di più cauto: alcune epidemie si estinguono senza vaccinazioni, altre no. O meglio, tutte si sono estinte senza vaccinazioni ma alcune hanno causato numeri enormi di morti. I vaccini non salvano la nostra specie dall’estinzione: salvano dalla morte chi è sensibile a quel patogeno. La nostra specie è molto varia geneticamente, proprio come le falene, e questa variabilità è la risposta alle epidemie: i sensibili al patogeno muoiono, gli altri sopravvivono, sviluppando resistenza all’agente selettivo: il coronavirus. Per aggirare la selezione naturale abbiamo evoluto la scienza, adattandoci alle avversità. La medicina è una scienza molto diversa dalla fisica: affronta problemi molto più complessi. La fisica, con la teoria del caos, ha dimostrato che è impossibile prevedere il tempo nel medio e lungo termine. Troppe cause interagiscono tra loro e le previsioni sono attendibili solo nel breve termine, poi sono solo probabilistiche. In questi casi si adotta il principio di precauzione che ci dice di portare l’ombrello se ci sono probabilità che piova. Nel caso del coronavirus non solo non abbiamo portato l’ombrello, proprio non l’avevamo in casa.
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Le università sono chiuse. Farete lezione online, ci hanno detto. Skype non è lo strumento ideale per connessioni complesse come quelle necessarie per una lezione universitaria. Una struttura burocraticamente elefantiaca e non omogeneamente abile in campo informatico, quella dell’Università italiana, ha fatto il miracolo con un programma che si chiama Teams. Non l’avevo mai sentito nominare prima di tre settimane fa. La sezione informatica della mia università mi ha fornito le indicazioni e, da casa, con la mia connessione e il mio computer, mi sono collegato. Abbiamo fatto gli orari, ognuno a casa sua, con il personale amministrativo che ha lavorato giorno e notte (lo so dalle ore di spedizione dei messaggi), abbiamo informato gli studenti. Sono alla quarta lezione: funziona. Carico il materiale didattico su Teams e inizio la lezione all’ora stabilita. Posso vedere chi è in aula (in effetti ognuno è a casa sua), vedo i loro nomi. Loro vedono anche me, oltre a vedere la presentazione che uso come traccia. Possono intervenire parlando, oppure possono scrivere messaggi. So il nome dei miei studenti: non mi era mai capitato! All’Università non si fa l’appello, di solito sono tanti, e i loro nomi li apprendiamo quando vengono a fare l’esame. Sul sistema posso caricare tutti i materiali che reputo necessari. Articoli, collegamenti a pagine web di approfondimento, filmati. Li incoraggio ad approfondire in rete, valutando l’attendibilità dei siti. Hanno a disposizione la più grande biblioteca del mondo, se hanno una connessione efficiente e sanno cercare. Abbiamo organizzato una mailing list e siamo in contatto, tutti assieme, per email e per whatsapp. Non ho mai avuto così tanti contatti con i miei studenti. Tutto bene, allora? No, mi manca l’aula, il contatto visivo, vedere quando cominciano a spostarsi da una chiappa all’altra (vuol dire che la lezione sta diventando pesante), sentirli ridere quando cerco di allentare la tensione con una battuta (anche se qualcuno mi scrive ah ah ah nella chat, per darmi soddisfazione). Manca vedere facce che mi dicono che non stanno capendo, anche se non hanno il coraggio di dirmelo, perché se ne vergognano. Mi manca la lavagna, con il gesso, per improvvisare approfondimenti che non sono compresi nell’ingessatura della presentazione. E mi manca vedere che si parlano, che fanno commenti tra loro. Certo, il vantaggio è che io non devo muovermi da casa, e neppure loro. Niente mezzi di trasporto, meno inquinamento, tempi di spostamento risparmiati, niente aule da pulire, riscaldare, raffrescare. A casa ho una grande libreria, la mia biblioteca personale, e ho accesso a tutta la biblioteca multimediale mondiale. Chi ci va più nella biblioteca dipartimentale? Ho comprato e compro i libri che mi sono più necessari. Mi piace l’odore dei libri, e tenerli in mano, guardarli persino senza leggerli. Ma se li devo studiare, allora la forma digitale è la migliore. Posso cercare le parole, sottolineare, aggiungere note, mettere segnalibri, copiare e spostare. Tutte cose che non farei a un libro vero. Forse, dopo questa esperienza, faremo meno lezioni frontali. Magari un pezzo del corso sarà da remoto, oramai la macchina è stata impostata e ha i suoi vantaggi. Ma poi ci dovrà essere una parte in cui ci “vediamo”, e non può essere solo l’esame. Ci vogliono le esercitazioni pratiche, in laboratorio o sul campo. Questi ragazzi e ragazze sono nativi digitali, e sono abituati a comunicare così. Alle elementari avevo il calamaio con l’inchiostro, e la penna col pennino, nei primi tre anni. Poi arrivarono le biro. E il maestro (c’erano ancora i maestri) era contrario: rovina la mano, la biro! All’Università facevo le fotocopie degli articoli che mi servivano, e ho scritto la mia tesi di laurea con la macchina da scrivere. Facevo i grafici con la riga e la squadra, con il Rotring a china. E le lettere le mettevo su con i caratteri trasferibili. Poi è arrivato il computer. Prima giusto per scrivere e fare qualche calcolo. E ora… inutile spiegare tutto quello che si fa con un computer. Ogni volta c’era qualcuno che diceva che le novità erano regressioni. Il male che avanza. Non rimpiango la penna e il calamaio, o la macchina da scrivere, e i trasferibili. O meglio, li rimpiango perché ero giovane, allora. Ma solo per questo. Questo periodo di catastrofe, di cambio di paradigma, ci costringe a imparare in fretta le cose nuove, come per me, e per centinaia di migliaia di studenti e docenti, le lezioni online con Teams. Siamo stati costretti a farlo, e questo non va bene. Ma ci siamo resi conto di essere resilienti, di reagire alle avversità e di trovare soluzioni che, il giorno prima, sembravano inimmaginabili. Certo, non possiamo creare il cibo con un computer, anche se possiamo fare filtri con le stampanti digitali e applicarli alle maschere subacquee. Ci stiamo preparando al “dopo” già nel “durante” e questi ragazzi e ragazze potranno dire con orgoglio di aver vissuto questa transizione. E anche noi vecchietti, se sopravviveremo.