Alla fine dell’Ottocento alcuni archeologi tedeschi, che seguivano i lavori della ferrovia lungo il Meandro, dove sorgevano importanti città dell’Impero romano, si accamparono sul pianoro di Hierapolis, per redigere un primo inventario dei monumenti e delle iscrizioni ancora esposte sui sarcofagi e sui muri delle tombe monumentali nella immensa necropoli. Trovarono in posto sculture di marmo, specialmente all’interno dell’imponente mole del teatro: troppo grandi per poterle asportare, ma la loro attenzione fu attratta da una lastra, anch’essa marmorea, alta sessanta centimetri: tre personaggi maschili, coperti soltanto da un corto perizoma, con i lunghi capelli arruffati, avanzavano legati da una corda al collo, tenuta da un personaggio sulla sinistra del rilievo, interrotto da una frattura. Tutti avevano nella mano, poggiata sulla spalla, un’asta di legno sulla quale era inchiodata una tabella rettangolare e ciascuno appariva indicato da una iscrizione con il nome: uno si chiamava Appas, l’altro Filoumeno, erano dunque personaggi dei quali si voleva conservare la memoria. Le immagini erano intriganti, la lastra non era troppo pesante e gli archeologi, diretti da Karl Humann, il celebre scopritore dell’altare di Pergamo, decisero di “salvare” il pezzo portandolo a Berlino, dove è tuttora conservato presso il Museo che prende il nome dalla celebre capitale dell’Asia Minore, come i Romani chiamavano l’attuale Turchia.
Ho pensato a questo rilievo Domenica, durante la lettura…televisiva in tempi di Covid 19, del Vangelo di Matteo, con la lunga recita della Passione di Cristo, in cui l’Evangelista parla del cartello posto sul suo capo dopo averlo crocifisso, con la scritta: “Questo è il re dei Giudei”. E di questa tabella, che, in un numero infinito di rappresentazioni, viene riassunta con le iniziali INRI (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum), scrivono anche gli altri Evangelisti; anzi Giovanni aggiunge anche un nervoso dialogo tra Pilato ed i Giudei, avvenuto alla fine del processo, in cui lo stesso governatore scrive il titulus praelatus (contenente il nome ed il motivo della condanna), in ebraico, latino e greco. I Giudei protestano per la scritta di Pilato e suggeriscono invece di scrivere: “Lui [il Cristo] ha detto: sono il re dei Giudei”, ricevendo la piccata risposta del romano: “Quod scripsi, scripsi!” (Ciò che ho scritto ho scritto).
Il rilievo di Hierapolis rappresenta infatti il corteo dei condannati a morte (i noxii), portati al supplizio; un raro documento di questa pratica, che diventava nelle città antiche una delle tante forme di spettacolo. Pensiamo alla descrizione dei Vangeli, con la moltitudine di persone che assistono al supplizio dei tre condannati, ed ai commenti di molti di loro riportati nel testo, che Jacopo Tintoretto amplifica nel miracoloso vortice di figure del suo capolavoro alla Scuola di San Rocco a Venezia. La tabella con il nome e il motivo della condanna era tipica di comportamenti collettivi del mondo romano, in cui l’umiliazione dei rei costituiva una parte non trascurabile della pena. Il corteo dei condannati, descritto nei Vangeli e che si conserva ancora oggi a Gerusalemme nella tradizione della Via Dolorosa, si svolgeva in occasione del trasferimento dal luogo del processo a quello del supplizio, e, nel caso in cui l’esecuzione avveniva nell’arena, era parte integrante dello spettacolo; ricordiamo tutti i martiri al Colosseo oppure, a Tarragona in Spagna, l’anfiteatro dove, nell’arena, i cristiani innalzarono una chiesa per ricordare il martirio del vescovo Fruttuoso e dei diaconi Eulogio ed Augure. Infatti nelle rappresentazioni dei giochi i combattimenti di animali ed i ludi con i gladiatori spesso sono associati a figure di prigionieri, legati tra di loro da corde e catene e condotti da una guardia munita di bastone, che indossa il berretto a calotta e una specie di divisa da carnefice, in cuoio. In una stele di marmo, rinvenuta nelle vicinanze del teatro di Hierapolis, è rappresentato il supplizio di un condannato, legato ad un palo mentre un orso lo sta dilaniando. Immagini che dovevano servire di ammonimento per la popolazione, ed i nomi dei più famosi criminali erano addirittura incisi sulla pietra ed esposti lungo le strade e negli spazi pubblici, come nella lastra rinvenuta a Hierapolis tanti anni fa.
[“La Repubblica-Bari” dell’11 aprile 2020, p. 12]