Ripenso ai tanti anni in cui ho assistito ai riti, sempre uguali, ma tuttavia, ogni anno, diversi per il carico dei cambiamenti nella vita di ciascuno e dell’intera città, e mi rendo conto che la mia esperienza diretta della Settimana Santa a Taranto risale agli anni cinquanta del dopoguerra, quando mia nonna, nel suo abito nero di vedova, mi portava, bambino, alla processione dell’Addolorata, lungo una via Anfiteatro ancora segnata dai crolli dei bombardamenti e gli orrori della guerra erano ancora impressi nei volti e nelle espressioni dei presenti. In quegli anni c’era molta folla ai Misteri e noi bambini eravamo spinti, nella calca, in prima fila per poter vedere, e si stava fermi per ore finchè non passava l’ultima statua. Una volta gettarono un gatto da un balcone, mentre passavano le statue, in spregio alla religione, in un periodo di aspro confronto tra cattolici e comunisti, che, a Taranto come in altre zone della Penisola, aveva raggiunto forme estreme di contrapposizione.
Nel gruppo di case dove abitavamo a Lungomare 20, di fronte all’immenso azzurro del Golfo, ora sostituite dai palazzoni di cemento, insieme ad altri ragazzini, si cantava una filastrocca: “A prima poste, a seconda poste, a sarcineddhe, a palummeddhe…” e seguivano altre cadenze, che ormai ho dimenticato.
Poi, dopo la prima trasmissione del 1954, la televisione entrò nelle case dei tarentini: era un evento così nuovo che essi sembrarono perdere interesse per gli antichi riti collettivi; in famiglia si commentava quanto poco la gente ormai partecipasse alle processioni e, in effetti, le foto di quegli anni ritraggono questa realtà, con un numero ridotto di poste dei perdoni e pochi fedeli; sembrava ormai che la modernità avesse decretato una crisi irreversibile di queste tradizioni. E dopo fu la stessa televisione delle reti locali a favorire il ritorno di un interesse vigoroso e crescente per i riti tarentini; nelle case entrarono le immagini dei penitenti incappucciati, il suono della troccola e i ritmi delle marce funebri a risvegliare una partecipazione che era soltanto assopita. Negli anni sessanta, in cui frequentavo l’Università Cattolica a Milano, il ritorno a Taranto per la Pasqua era segnato dall’emozione di ritrovarmi a casa con i miei; ero orgoglioso di mostrare i riti della mia città agli amici che avevo trovato nelle aule dell’Ateneo di Largo Gemelli, provenienti dalle città del Nord; in questo periodo venivano ospiti a casa mia, accolti con gioia dai miei, e sentivo il loro stupore per il clima così intenso che trovavano a Taranto e l’interesse per le bellezze della Puglia, allora non ancora scoperta dal turismo di massa.
Poi, negli anni più recenti, erano i miei nipoti, che vivono in Austria, ad affrontare la levataccia in piena notte per recarci insieme ad assistere alla processione dei Misteri e, negli occhi dei piccoli Francesco ed Elena, ho ritrovato lo stesso mio stupore di tanti anni fa.
Quest’anno sono tornato all’alba del Venerdì Santo per vedere “a Madonne”, nel momento in cui la processione attraversa il ponte girevole e percorre le vie della città nuova. C’era tanta gente, molte famiglie con i bambini: uno, di poco più di un anno, era in braccio alla sua mamma, e continuava ad indicare con il ditino la statua della Vergine. Nonostante la tristezza del rito, forse per la luce ed i colori di una giornata di primavera, provavo una sensazione di ottimismo per il futuro della mia città che pure ha passato tanti guai. Arrivando in macchina avevo visto il gigantesco hangar in costruzione al Siderurgico per coprire i depositi dei minerali e ridurre le polveri sottili, un segno di speranza che tutti i danni dell’industria possano presto essere eliminati; un grande manifesto annuncia che l’Istituto di Studi sulla Magna Grecia aveva ricevuto la medaglia della Presidenza della Repubblica, il Museo Archeologico Nazionale, scrigno inesauribile di tesori, fa registrare un notevole aumento di visitatori, la partecipazione di tanti giovani come membri delle confraternite che danno vita alle processioni, l’arcivescovo Filippo che, nella sua allocuzione a S. Domenico, ricorda l’incendio di Notre Dame di Parigi, sottolineando il significato universale dei nostri riti: mi sembrano tutti segnali di una rinascita, anche culturale, della nostra città.
Guardando l’immagine dell’Addolorata pensavo ai milioni di fedeli che nei secoli erano stati, come me, affascinati da quel volto, che sembrava vivo sotto i raggi del sole, nel movimento oscillante, ipnotico, della nazzicata: un volto bellissimo e misterioso che mi faceva pensare ai versi di Paul Verlaine: “Je ne veux plus aimer que ma mère Marie”. Versi di straordinaria intensità, scritti da uno dei poeti dell’Ottocento francese, che pure venivano definiti maudit (maledetti).
Poi, nella mattinata del Sabato, i portoni del Carmine si chiudono dietro l’ultima statua dei Misteri e sembra che la mancanza di tante emozioni sarà difficile da sopportare per i mesi che ci separano dalla prossima Settimana Santa; qualche nota delle bande ritorna talvolta a risuonare dentro di me, sino a spegnersi del tutto nella festa di Pasqua e poi nello scorrere ordinario delle giornate.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 24 aprile 2019]