Adesso ci si rende conto che è quella la bellezza superiore, quella che non ha paragone. Adesso si comprende esistenzialmente che aveva ragione quel ragazzaccio immenso poeta di nome Arthur Rimbaud quando diceva “Je est un autre”. Io è un altro.
Tra le moltissime interpretazioni di questa formula, può rientrarci anche quella secondo la quale l’Io si esprime nel suo protendersi verso l’altro, e si realizza compiutamente nel suo incontrarsi con l’altro.
La bellezza dell’incontro con l’altro, richiede o pretende disponibilità, dialogo, prossimità, aderenza, comprensione. Esclude l’egoismo, l’avarizia, il rancore, le barriere che si alzano, il conflitto, il degradamento, la degenerazione dell’istinto di conservazione.
Il progresso e lo sviluppo, sono sempre stati la conseguenza della realizzazione di questa bellezza, dell’incontro e del confronto fra gli uomini, dell’attribuzione di valore alle loro diversità, della reciprocità, del procedere insieme verso un orizzonte di civiltà.
Quando nella condizione dell’incontro si è aperta una frattura, si è verificato immediatamente l’esatto contrario del progresso e dello sviluppo.
Allora, quella bellezza superiore ad ogni altra, quella bellezza senza la quale nessun’altra può avere senso e funzione, si propone e si articola in due dimensioni interdipendenti: quella individuale e quella sociale: il rapporto fra persone e il rapporto fra espressioni del sociale.
In un libro di oltre vent’anni fa, che si intitola “La bellezza per te e per me”, Alberto Abruzzese scriveva che non pochi e con non poche ragioni sostengono che l’occidente comincia con un’idea di armonia elaborata dai pitagorici, con una formalizzazione della irrazionalità della natura che – scoprendone invece la bellezza delle coerenze numeriche e delle simmetrie figurative- fonda la perfetta equivalenza tra il bello, il vero e il buono.
In questo modo l’uomo comprende il mondo, lo rende governabile e giusto, lo abita. “Tanto l’estetica quanto la politica hanno quindi in questa triade ‘globalizzante’ il loro fondamento”.
E’ evidente, allora, la relazione che annoda le condizioni di vero, bello, buono.
La bellezza non può che essere vera e buona; la bontà non può che essere vera e bella; la verità non può essere che bella e buona. Se viene a mancare una di queste componenti, la relazione si squaderna, oppure si falsifica, si riduce a maschera ipocrita.
Ma non basta. La coesistenza di questi tre elementi, si rende ancora più necessaria, ineludibile, essenziale, nei tempi di crisi, di instabilità, di smottamento dei significati, di disarmonia, di disorientamento. Come sono i giorni che stiamo vivendo.
Spesso ripetiamo, chiamando a testimone Dostoevskij, che la bellezza salverà il mondo.
Lo abbiamo ripetuto spesso e fino ad un certo punto forse senza nemmeno comprendere che cosa sia veramente il mondo e che cosa sia veramente la salvezza.
Stiamo cominciando a comprenderlo in questi giorni di insidia, purtroppo.
Stiamo capendo che il mondo riguarda tutti quanti, per davvero, e che la sua salvezza riguarda tutti quanti, per davvero, e che il mondo si può salvare soltanto rifondando, ricostruendo, rielaborando e rinvigorendo il senso della bellezza dell’incontro con l’altro. Senza questa condizione, ogni situazione si trasforma in contrasto, in opposizione.
Dostoevskij, allora. “È vero, principe che una volta avete detto che la bellezza salverà il mondo? Signori – prese a gridare a tutti, – il principe afferma che la bellezza salverà il mondo! Ed io affermo che idee così frivole sono dovute al fatto che in questo momento egli è innamorato. Signori, il principe è innamorato, non appena è arrivato, me ne sono subito convinto. Non arrossite principe, mi impietosite. Quale bellezza salverà il mondo?”.
Forse oggi, noi, qui, potremmo azzardare la risposta che non potrà essere la bellezza di una statua, né la meraviglia di una pittura, di una musica, di una poesia. Potremmo azzardare la risposta che il mondo potrà salvarlo la bellezza dell’incontro con l’altro.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, mercoledì 8 aprile 2020]