2) Un numero crescente di giovani laureati è già in condizioni di sotto-occupazione intellettuale, ovvero svolge mansioni per le quali non è richiesto il titolo di studio acquisito. Come certificato nell’ultimo Rapporto ALMALAUREA, l’utilizzo delle competenze acquisite con la laurea è mediamente molto basso (http://www2.almalaurea.it/cgi-php/universita/statistiche/framescheda.php?anno=2011&corstipo=TUTTI&ateneo=tutti&facolta=tutti&gruppo=tutti&pa=tutti&classe=tutti&postcorso=tutti&annolau=3&disaggregazione=tempopieno&LANG=it&CONFIG=occupazione), così che si può stabilire che l’argomento che vuole i giovani italiani “schizzinosi” non trova adeguati riscontri nei fatti.
Contrariamente alla tesi dominante, si può stabilire che la disoccupazione giovanile, anche riferita alla quota di giovani laureati, è in aumento perché il tasso di crescita è in riduzione. E’ palese che un’economia che registra un tasso di crescita negativo nell’ordine del –2.4% non può produrre aumenti della domanda di lavoro, né di quella rivolta a individui poco scolarizzati né di quella indirizzata a individui con elevati livelli di istruzione. In più, la tesi dominante non fa altro che prendere atto di un problema e, senza provare a risolverlo, cercare di aggirarlo. Il problema consiste nella scarsa propensione all’innovazione della media delle imprese italiane, a sua volta connesso alle piccole dimensioni aziendali e, non da ultimo, al fatto che la gran parte degli imprenditori italiani ha un basso livello di istruzione. L’ISTAT certifica che la dimensione media delle imprese italiane è superiore, nell’Europa a 27, soltanto a quella della Grecia e del Portogallo. La tesi del “piccolo è bello” – stando alla quale il ‘nanismo imprenditoriale’ italiano costituirebbe un fattore di vantaggio competitivo – ha legittimato la sostanziale assenza di una politica industriale in Italia, almeno a partire dall’ultimo trentennio. E’ bene chiarire che si è trattato di un errore teorico e politico di massima rilevanza, i cui effetti risultano oggi evidenti, con risvolti significativi (e di segno negativo) sulla domanda di lavoro qualificato. Su fonte Almalaurea, si registra che dal 2004 al 2010 la percentuale di lavoratori con alto livello di istruzione assunti dalle imprese italiane si è costantemente ridotta, in controtendenza rispetto a tutti gli altri Paesi dell’eurozona. Si osservi che questo fenomeno non è imputabile alla crisi in corso ed è, dunque, da ritenersi strutturale.
E’ difficile motivare la decurtazione dei finanziamenti pubblici alle Università senza far riferimento all’obiettivo di accrescere l’avanzo primario, che – come attestato su fonte Ragioneria Generale dello Stato – viene in larga misura destinato al c.d. fondo Salva Stati, rendendo l’Italia un contributore netto del bilancio europeo. Schematizzando, si può affermare che la sottrazione, nel corso dell’ultimo biennio, di circa il 13% del fondo di funzionamento ordinario agli Atenei italiani è anche servita ad accrescere gli utili delle banche europee. Questa operazione, peraltro, viene posta in essere avendo come vincolo la raccomandazione della Commissione Europea, rivolta a tutti i Paesi membri, in merito all’adozione di misure che agevolino l’aumento del numero di laureati, portandolo almeno al 40% nel 2020 (http://www.roars.it/online/dichiarazione-cun-sulle-emergenze-del-sistema/). Con crescita demografica pressoché nulla e costante riduzione del numero di immatricolazioni, appare molto verosimile prevedere che questo obiettivo non solo non verrà raggiunto, e che da questo ci si allontanerà molto rapidamente.
Ma ciò che maggiormente desta preoccupazione è il fatto che le politiche messe in atto non fanno altro che assecondare un modello di sviluppo dell’economia italiana che andrebbe semmai contrastato. La questione può porsi in questi termini: salvo rare eccezioni, le nostre imprese sono sempre meno competitive su scala internazionale, soprattutto a ragione del basso contenuto tecnologico dei beni prodotti. Porle nella condizione di disporre di un’ampia platea di lavoratori poco scolarizzati significa incentivare una modalità di competizione basata sulla compressione dei salari, che costituisce l’esatto contrario di ciò che occorrerebbe fare per accrescerne la competitività. E a ciò fa seguito un circolo vizioso: minori profitti derivanti dalle esportazioni implicano minori investimenti e minore occupazione; dunque un decremento della base imponibile; dunque – dato l’obiettivo del pareggio di bilancio – la necessità di ulteriori interventi di riduzione della spesa pubblica, anche sotto forma di ulteriori riduzioni dei fondi destinati al sistema formativo.
L’Università in regime di austerità
[in Roars (Return on Academic Research) del 5 aprile 2013]
Le politiche di austerità, sotto forma di riduzione della spesa pubblica e soprattutto di aumento della pressione fiscale, messe in atto, in particolare nel corso dell’ultimo triennio, non solo non sono riuscite a raggiungere l’obiettivo prefissato di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL (che, per contro, è aumentato di ben 7 punti percentuali nel solo 2012), ma hanno esercitato effetti significativi, e di segno negativo, sull’occupazione giovanile e, in particolare sull’occupazione intellettuale.
L’ultimo Rapporto Almalaurea (http://www.almalaurea.it/sites/almalaurea.it/files/docs/universita/occupazione/occupazione11/sintesi_andrea_cammelli.pdf) certifica che l’elevato numero di laureati disoccupati è in larga misura imputabile alle piccole dimensioni medie delle imprese italiane, al fatto che sono poco innovative e poco esposte alla concorrenza internazionale[1]. Essendo poco innovative, le imprese italiane esprimono una domanda di lavoro prevalentemente rivolta a individui poco qualificati. Si badi che il nanismo imprenditoriale è una caratteristica essenziale dell’economia italiana e che, tuttavia, le dimensioni del fenomeno sono aumentate proprio a seguito dell’adozione di politiche fiscali restrittive attuate in una fase di caduta della domanda aggregata. Ciò per le seguenti ragioni:
1) L’aumento della tassazione, riducendo i consumi, ha ridotto i mercati di sbocco per le (tante) imprese italiane – e ancor più meridionali – che tradizionalmente operano sui mercati interni. In moltissimi casi, ciò si è tradotto in un aumento dei fallimenti e, in molti altri casi, in licenziamenti. E’ aumentato il tasso di disoccupazione ed è aumentata la numerosità delle piccole e micro imprese. Può essere qui sufficiente ricordare che, stando alle ultime rilevazioni ISTAT, al 2012, l’Italia si colloca, prima del Portogallo, al penultimo posto nella graduatoria UE27 per dimensione media di impresa (http://noi-italia.istat.it/index.php?id=7&user_100ind_pi1%5Bid_pagina%5D=63&cHash=41ec55d660dbc7f3c3f11d26b6790f82).
2) L’attuazione di politiche fiscali restrittive, accrescendo il tasso di disoccupazione, ha ulteriormente incentivato le imprese italiane a competere mediante compressione dei salari, ovvero a ridurre ulteriormente le spese per innovazione. Due ulteriori fattori hanno contribuito a generare questi esiti. In primo luogo, le politiche di precarizzazione del lavoro, che, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori, hanno costituito una rilevante condizione permissiva per indurle a ripristinare i loro margini di profitto attraverso la riduzione dei costi (dei salari in primis, e di tutti i costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori). In secondo luogo, la riduzione della domanda – conseguente alle politiche di austerità – ha ridotto sia i profitti correnti sia i profitti attesi, generando un calo degli investimenti fissi lordi nell’ordine del 5% negli ultimi mesi del 2012. E ciò è avvenuto in un contesto di restrizione del credito, in larga misura imputabile al fatto che le aspettative bancarie in ordine al rimborso del debito da parte delle imprese sono anch’esse peggiorate e al fatto che le banche hanno ripristinato i loro margini di profitto attraverso attività puramente speculative (http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/chi-paga-la-crisi-e-chi-ci-guadagna/). In più, la restrizione del credito ha reso oggettivamente più difficile, per le imprese, il finanziamento delle innovazioni. In questo scenario, non è sorprendente rilevare che, per i giovani italiani e le loro famiglie, studiare diviene sempre più costoso (per il combinato della riduzione dei redditi e dell’aumento delle tasse universitarie) e sempre meno conveniente.
Si ricordi che la nuova Costituzione italiana impone il raggiungimento del pareggio di bilancio, ovvero impone ulteriori compressioni della spesa pubblica e ulteriori aumenti della pressione fiscale. Da ciò deriva che, almeno per quanto riguarda l’Italia, e data sua struttura produttiva, aumentare i finanziamenti alle Università – quantomeno nel breve periodo – è palesemente in contrasto con questo vincolo. Ciò non solo per l’ovvia considerazione che, per eguagliare spese ed entrate, occorre accrescere ulteriormente l’avanzo primario e, dunque, continuare a drenare risorse (anche) dal sistema formativo; ma anche per il fatto che le politiche di austerità agiscono sulla struttura produttiva (accentuandone il nanismo) e sulle modalità di competizione delle imprese, disincentivando investimenti in innovazione.
Questa conclusione vale a condizione che l’economia italiana non intraprenda un sentiero di crescita tale da consentire di recuperare risorse sufficienti a riportare il fondo di funzionamento ordinario ai valori pre-crisi, come auspicato in un recente documento CRUI (http://www.crui.it/HomePage.aspx?ref=2139).
Tuttavia, anche se questo avvenisse, si tratterebbe comunque di un’”elemosina” (http://www.roars.it/online/ricerca-e-universita-investimenti-di-lungo-periodo-o-solita-elemosina-di-fine-anno/). Il punto centrale, infatti, è che le politiche formative messe in atto negli ultimi anni si sono basate su un radicale cambio di paradigma, che ha invertito il nesso di causalità che le aveva legittimate in passato: non è più l’istruzione a promuovere crescita, ma è la crescita economica a consentire di recuperare risorse per (eventualmente) finanziare il sistema formativo. In questa prospettiva, il finanziamento dell’istruzione è un puro costo. L’inversione del nesso di causalità viene spesso motivato adducendo il fatto che la c.d. “bolla formativa” dei primi anni Duemila (l’aumento delle immatricolazioni, il proliferare di sedi universitarie e di corsi di studio) ha prodotto un esercito di individui altamente scolarizzati, ma disoccupati, sotto-occupati o emigrati. Verificato questo esito, ci viene detto, si è cambiato rotta, sottoponendo gli Atenei italiani a una drastica “cura dimagrante”. E’ un’interpretazione accettabile ma che non tiene conto delle cause strutturali che motivano le nuove politiche per l’istruzione. Le quali sono riconducibili sostanzialmente a due fattori.
a. Alla decisione politica – assunta in sede europea – di rispondere alla crisi con politiche di austerità. Le politiche di austerità accrescono il tasso di disoccupazione e, accentuando il ‘nanismo imprenditoriale’, accrescono, in particolare, la disoccupazione intellettuale.
b. Alla reazione delle imprese italiane finalizzata a recuperare i margini di profitto desiderati, mediante compressione dei costi, in una condizione nella quale esse possono tenere alta la produttività avvalendosi (in virtù della crescente precarizzazione del lavoro e della crescente disoccupazione) di minacce di licenziamento sempre più credibili ed efficaci[2]. E competere riducendo i costi, in un assetto produttivo poco innovativo, significa preferire l’assunzione di individui poco scolarizzati, dal momento che i salari da loro percepiti sono normalmente più bassi di quelli che le imprese dovrebbero pagare a individui con più elevati livelli di istruzione.
E’ uno scenario palesemente contraddittorio: l’obiettivo della riduzione del rapporto debito pubblico/PIL non solo non viene raggiunto attraverso l’attuazione di politiche di austerità[3], ma questo stesso obiettivo si allontana anche a ragione della crescita della disoccupazione intellettuale, a ragione della perdita di produttività che questa comporta.
[1] Sul tema, sia consentito rinviare a G.Forges Davanzati, L’Università sottofinanziata e il declino italiano, “Micromega on-line”, 4 marzo 2013.
[2] Si tratta del c.d. effetto di disciplina: al crescere del tasso di disoccupazione, diventa più credibile la minaccia di licenziamento, spingendo i lavoratori a erogare livelli crescenti di effort. Sul tema si rinvia a C. Shapiro and J.E. Stiglitz, Equilibrium unemployment as a worker discipline device, “American Economic Review”, vol. 74, n. 3, pp.433-444. Si segnala anche un’interessante ricerca (M.Donato, Fatica sprecata: produttività e salari in Europa, “EconomiaePolitica”, 17 marzo 2013) nella quale si mette in evidenza l’aumento della differenza dei tassi di crescita della produttività del lavoro e dei salari reali, nella gran parte dei Paesi europei.
[3] Come recentemente riconosciuto dal Fondo Monetario Internazionale e come previsto da numerosi economisti già a partire dal 2010.
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Confindustria e la formazione orientata al mercato
[in MicroMega online dell’11 giugno 2013]
Confindustria, anche in linea con le recenti disposizione in materia del Governo Monti, cerca di incentivare la vocazione imprenditoriale dei giovani, fin dalle scuole superiori, al fine di recuperare un sentiero di crescita economica trainato dall’aumento della numerosità delle imprese, e dalle innovazioni che eventualmente possono derivarne. I premi confindustriali assegnati ai giovani e giovanissimi imprenditori in pectore si moltiplicano. Si tratta di una buona idea per far fronte alla crescente disoccupazione giovanile e alla recessione in atto?
Vi sono seri motivi per dubitarne, per le seguenti ragioni.
1) In una stagione caratterizzata da una profonda recessione dovuta alla caduta della domanda aggregata, appare piuttosto opinabile la convinzione che l’aumento della numerosità delle imprese, in quanto tale, sia un presupposto essenziale per trainare la crescita economica. Ciò per l’ovvia considerazione che, in una condizione di restrizione dei mercati di sbocco (e di restrizione del credito), appare semmai più probabile che accada il contrario di quanto ci si aspetta, ovvero un aumento del numero di fallimenti d’impresa, che andrebbe a sommarsi all’enorme mortalità imprenditoriale registrata negli ultimi anni. Vi è di più. Le nuove imprese, o almeno parte di queste, entrerebbero in concorrenza con imprese già esistenti, il cui stato di salute non è affatto florido. Gli esiti possibili sono due. In primo luogo, se si ritiene che al crescere del grado di concorrenzialità cresca l’incentivo a innovare (il che è tutto da dimostrare), l’ingresso di nuove imprese potrebbe attivare un circolo virtuoso di crescita trainata dalle innovazioni. A condizione che si trovi una domanda adeguata ad assorbire l’aumento della produzione. In secondo luogo, il che sembra più probabile, l’aumento del grado di concorrenzialità potrebbe produrre ulteriori fallimenti. E’ vero che, negli ultimi tre mesi, come certificato dal centro studi di Confindustria, sono circa tremila le c.d. Srl “semplificate”, imprese amministrate da imprenditori di età inferiore ai 35 anni, come disposto dalla Legge 185/2012. Il dato non desta stupore, dal momento che, in una condizione di elevata disoccupazione (soprattutto giovanile) e di crescente precarietà, è fisiologico attendersi che si cerchino occasioni di lavoro diverse dal lavoro dipendente. L’aspetto problematico è che queste imprese sono, al momento, finanziate dallo Stato. Che poi, una volta fatto lo start-up, siano in grado di reggere la concorrenza senza aiuti pubblici è cosa ovviamente non prevedibile, sebbene si possa con certezza affermare che la gran parte dell’imprenditoria italiana sopravvive (ed è sopravvissuta) proprio grazie a sussidi pubblici. In più, occorre ricordare che è almeno dall’inizio degli anni novanta che si persegue la strada del finanziamento dell’imprenditoria giovanile, con risultati – per quanto è dato sapere – sostanzialmente fallimentari.
2) Se, come diffusamente riconosciuto (anche in ambito confindustriale), uno dei problemi dell’imprenditoria italiana consiste nel basso titolo di studio di chi gestisce e amministra le nostre imprese, l’incentivazione all’auto-imprenditorialità in età scolare, con ogni evidenza, non può produrre altri effetti se non perpetuare o accentuare il problema. Come registrato dall’ISFOL, gli imprenditori in possesso di laurea sono più propensi ad assumere lavoratori con alta dotazione di capitale umano e sono più propensi all’internazionalizzazione (http://www.isfol.it/pubblicazioni/osservatorio-isfol/numeri-pubblicati/allegati-anno-ii-n.3-2012/ricci). In linea generale, resta confermato che la propensione all’assunzione di rischi (tipicamente connessa all’attività imprenditoriale) decresce al crescere del titolo di studio.
3) Se esiste una vocazione “naturale” all’imprenditorialità, non si capisce per quale ragione occorra premiarla. Se, per contro, non esiste, i premi confindustriali non hanno altro effetto se non indurla, mettendo in campo una pedagogia “orientata al mercato”, che, sebbene del tutto legittima, sembra porsi in antitesi con la visione liberale dei processi formativi che pure Confindustria fa propria.In altri termini, proprio da un punto di vista liberale, sembra piuttosto opinabile che un’istituzione esterna al mercato (tale è un’associazione di categoria) sia legittimata a ridisegnare gli incentivi individuali agendo sulle libere scelte dei singoli, soprattutto se non ancora maggiorenni.
4) L’incentivazione dell’imprenditoria giovanile ha effetti redistributivi. Per evidenti ragioni di necessità, gli individui con reddito basso provano a diventare imprenditori; gli individui con reddito elevato possono permettersi di studiare più a lungo, date le rispettive motivazioni e propensioni al rischio. In tal senso, questi provvedimenti spingono nella direzione di far diventare scuole e università sempre più elitarie.
Con ogni evidenza, questi provvedimenti hanno anche effetti sulla rilevanza attribuita ai diversi ambiti della conoscenza, per l’ovvia constatazione che per diventare imprenditori servono certamente più competenze aziendalistiche e scientifiche e certamente meno competenze umanistiche. Il che, in sostanza, significa che – intenzionalmente o meno – Confindustria stabilisce (o contribuisce a stabilire) la “gerarchia dei saperi”, a scuola e in università. Che questo disegno contribuisca a recuperare margini di crescita economica è, al momento, tutto da dimostrare. Che questo disegno non sia affatto neutrale è palese: l’istruzione deve servire,e servire per scopi immediatamente produttivi. Resta da capire come si concilia l’idea del neo-Ministro – secondo la quale l’istruzione in quanto tale traina la crescita (http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/07d0c056-2a92-4ca9-9187-77d1107b9559/audizione_min_carrozza_060613.pdf) – con la visione confindustriale stando alla quale “in classe devono nascere imprese”.
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Scuola e impresa
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 16 giugno 2013]
Una delle linee di politica economiche che si sta facendo strada, anche per impulso di Confindustria e tenendo conto delle “raccomandazioni” della commissione europea, consiste nell’incentivare la vocazione imprenditoriale dei giovani, fin dalle scuole superiori, al fine di recuperare un sentiero di crescita economica trainato dall’aumento della numerosità delle imprese, e dalle innovazioni che eventualmente possono derivarne. Si tratta di una buona idea per far fronte alla crescente disoccupazione giovanile e alla recessione in atto?
Vi sono alcuni motivi per dubitarne, per le seguenti ragioni.
1) In una stagione caratterizzata da una profonda recessione dovuta alla caduta della domanda aggregata, appare piuttosto opinabile la convinzione che l’aumento della numerosità delle imprese, in quanto tale, sia un presupposto essenziale per trainare la crescita economica. Ciò per l’ovvia considerazione che, in una condizione di restrizione dei mercati di sbocco (e di restrizione del credito), appare semmai più probabile che accada il contrario di quanto ci si aspetta, ovvero un aumento del numero di fallimenti d’impresa, che andrebbe a sommarsi all’enorme mortalità imprenditoriale registrata negli ultimi anni. Vi è di più. Le nuove imprese, o almeno parte di queste, entrerebbero in concorrenza con imprese già esistenti, il cui stato di salute non è affatto florido. Gli esiti possibili sono due. In primo luogo, se si ritiene che al crescere del grado di concorrenzialità cresca l’incentivo a innovare (il che è tutto da dimostrare), l’ingresso di nuove imprese potrebbe attivare un circolo virtuoso di crescita trainata dalle innovazioni. A condizione che si trovi una domanda adeguata ad assorbire l’aumento della produzione. In secondo luogo, il che sembra più probabile, l’aumento del grado di concorrenzialità potrebbe produrre ulteriori fallimenti. E’ vero che, negli ultimi tre mesi, come certificato dal centro studi di Confindustria, sono circa tremila le c.d. Srl “semplificate”, imprese amministrate da imprenditori di età inferiore ai 35 anni, come disposto dalla Legge 185/2012. Il dato non desta stupore, dal momento che, in una condizione di elevata disoccupazione (soprattutto giovanile) e di crescente precarietà, è fisiologico attendersi che si cerchino occasioni di lavoro diverse dal lavoro dipendente. L’aspetto problematico è che queste imprese sono, al momento, finanziate dallo Stato. Che poi, una volta fatto lo start-up, siano in grado di reggere la concorrenza senza aiuti pubblici è cosa ovviamente non prevedibile, sebbene si possa con certezza affermare che la gran parte dell’imprenditoria italiana sopravvive (ed è sopravvissuta) proprio grazie a sussidi pubblici. In più, occorre ricordare che è almeno dall’inizio degli anni novanta che si persegue la strada del finanziamento dell’imprenditoria giovanile, con risultati – per quanto è dato sapere – sostanzialmente fallimentari.
2) Se, come diffusamente riconosciuto (anche in ambito confindustriale), uno dei problemi dell’imprenditoria italiana consiste nel basso titolo di studio di chi gestisce e amministra le nostre imprese, l’incentivazione all’auto-imprenditorialità in età scolare, con ogni evidenza, non può produrre altri effetti se non perpetuare o accentuare il problema. Come registrato dall’ISFOL, gli imprenditori in possesso di laurea sono più propensi ad assumere lavoratori con alta dotazione di capitale umano e sono più propensi all’internazionalizzazione In linea generale, resta confermato che la propensione all’assunzione di rischi (tipicamente connessa all’attività imprenditoriale) decrescere al crescere del titolo di studio.
3) Se esiste una vocazione “naturale” all’imprenditorialità, non si capisce per quale ragione occorra premiarla. Se, per contro, non esiste, i premi confindustriali non hanno altro effetto se non indurla, mettendo in campo una pedagogia “orientata al mercato”, che, sebbene del tutto legittima, sembra porsi in antitesi con la visione liberale dei processi formativi che pure Confindustria fa propria.In altri termini, proprio da un punto di vista liberale, sembra piuttosto opinabile che un’istituzione esterna al mercato (tale è un’associazione di categoria) sia legittimata a ridisegnare gli incentivi individuali agendo sulle libere scelte dei singoli, soprattutto se non ancora maggiorenni.
4) L’incentivazione dell’imprenditoria giovanile ha effetti redistributivi. Per evidenti ragioni di necessità, gli individui con reddito basso provano a diventare imprenditori; gli individui con reddito elevato possono permettersi di studiare più a lungo, date le rispettive motivazioni e propensioni al rischio. In tal senso, questi provvedimenti spingono nella direzione di far diventare scuole e università sempre più elitarie.
Con ogni evidenza, questi provvedimenti hanno anche effetti sulla rilevanza attribuita ai diversi ambiti della conoscenza, per l’ovvia constatazione che per diventare imprenditori servono certamente più competenze aziendalistiche e scientifiche e certamente meno competenze umanistiche. Il che, in sostanza, significa che – intenzionalmente o meno – Confindustria stabilisce (o contribuisce a stabilire) la “gerarchia dei saperi”, a scuola e in università. Che questo disegno contribuisca a recuperare margini di crescita economica è, al momento, tutto da dimostrare. Che questo disegno non sia affatto neutrale è palese: l’istruzione deve servire,e servire per scopi immediatamente produttivi, il che, dal punto di vista confindustriale è del tutto legittimo. Resta da capire come si concilia l’idea del neo-Ministro Carrozza – secondo la quale l’istruzione in quanto tale traina la crescita – con la visione confindustriale stando alla quale “in classe devono nascere imprese”.
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Confindustria e la formazione orientata al mercato
Confindustria, anche in linea con le recenti disposizione in materia del Governo Monti, cerca di incentivare la vocazione imprenditoriale dei giovani, fin dalle scuole superiori, al fine di recuperare un sentiero di crescita economica trainato dall’aumento della numerosità delle imprese, e dalle innovazioni che eventualmente possono derivarne. I premi confindustriali assegnati ai giovani e giovanissimi imprenditori in pectore si moltiplicano. Si tratta di una buona idea per far fronte alla crescente disoccupazione giovanile e alla recessione in atto?
Vi sono seri motivi per dubitarne, per le seguenti ragioni.
1) In una stagione caratterizzata da una profonda recessione dovuta alla caduta della domanda aggregata, appare piuttosto opinabile la convinzione che l’aumento della numerosità delle imprese, in quanto tale, sia un presupposto essenziale per trainare la crescita economica. Ciò per l’ovvia considerazione che, in una condizione di restrizione dei mercati di sbocco (e di restrizione del credito), appare semmai più probabile che accada il contrario di quanto ci si aspetta, ovvero un aumento del numero di fallimenti d’impresa, che andrebbe a sommarsi all’enorme mortalità imprenditoriale registrata negli ultimi anni. Vi è di più. Le nuove imprese, o almeno parte di queste, entrerebbero in concorrenza con imprese già esistenti, il cui stato di salute non è affatto florido. Gli esiti possibili sono due. In primo luogo, se si ritiene che al crescere del grado di concorrenzialità cresca l’incentivo a innovare (il che è tutto da dimostrare), l’ingresso di nuove imprese potrebbe attivare un circolo virtuoso di crescita trainata dalle innovazioni. A condizione che si trovi una domanda adeguata ad assorbire l’aumento della produzione. In secondo luogo, il che sembra più probabile, l’aumento del grado di concorrenzialità potrebbe produrre ulteriori fallimenti. E’ vero che, negli ultimi tre mesi, come certificato dal centro studi di Confindustria, sono circa tremila le c.d. Srl “semplificate”, imprese amministrate da imprenditori di età inferiore ai 35 anni, come disposto dalla Legge 185/2012. Il dato non desta stupore, dal momento che, in una condizione di elevata disoccupazione (soprattutto giovanile) e di crescente precarietà, è fisiologico attendersi che si cerchino occasioni di lavoro diverse dal lavoro dipendente. L’aspetto problematico è che queste imprese sono, al momento, finanziate dallo Stato. Che poi, una volta fatto lo start-up, siano in grado di reggere la concorrenza senza aiuti pubblici è cosa ovviamente non prevedibile, sebbene si possa con certezza affermare che la gran parte dell’imprenditoria italiana sopravvive (ed è sopravvissuta) proprio grazie a sussidi pubblici. In più, occorre ricordare che è almeno dall’inizio degli anni novanta che si persegue la strada del finanziamento dell’imprenditoria giovanile, con risultati – per quanto è dato sapere – sostanzialmente fallimentari.
2) Se, come diffusamente riconosciuto (anche in ambito confindustriale), uno dei problemi dell’imprenditoria italiana consiste nel basso titolo di studio di chi gestisce e amministra le nostre imprese, l’incentivazione all’auto-imprenditorialità in età scolare, con ogni evidenza, non può produrre altri effetti se non perpetuare o accentuare il problema. Come registrato dall’ISFOL, gli imprenditori in possesso di laurea sono più propensi ad assumere lavoratori con alta dotazione di capitale umano e sono più propensi all’internazionalizzazione (http://www.isfol.it/pubblicazioni/osservatorio-isfol/numeri-pubblicati/allegati-anno-ii-n.3-2012/ricci). In linea generale, resta confermato che la propensione all’assunzione di rischi (tipicamente connessa all’attività imprenditoriale) decrescere al crescere del titolo di studio.
3) Se esiste una vocazione “naturale” all’imprenditorialità, non si capisce per quale ragione occorra premiarla. Se, per contro, non esiste, i premi confindustriali non hanno altro effetto se non indurla, mettendo in campo una pedagogia “orientata al mercato”, che, sebbene del tutto legittima, sembra porsi in antitesi con la visione liberale dei processi formativi che pure Confindustria fa propria.In altri termini, proprio da un punto di vista liberale, sembra piuttosto opinabile che un’istituzione esterna al mercato (tale è un’associazione di categoria) sia legittimata a ridisegnare gli incentivi individuali agendo sulle libere scelte dei singoli, soprattutto se non ancora maggiorenni.
4) L’incentivazione dell’imprenditoria giovanile ha effetti redistributivi. Per evidenti ragioni di necessità, gli individui con reddito basso provano a diventare imprenditori; gli individui con reddito elevato possono permettersi di studiare più a lungo, date le rispettive motivazioni e propensioni al rischio. In tal senso, questi provvedimenti spingono nella direzione di far diventare scuole e università sempre più elitarie.
Con ogni evidenza, questi provvedimenti hanno anche effetti sulla rilevanza attribuita ai diversi ambiti della conoscenza, per l’ovvia constatazione che per diventare imprenditori servono certamente più competenze aziendalistiche e scientifiche e certamente meno competenze umanistiche. Il che, in sostanza, significa che – intenzionalmente o meno – Confindustria stabilisce (o contribuisce a stabilire) la “gerarchia dei saperi”, a scuola e in università. Che questo disegno contribuisca a recuperare margini di crescita economica è, al momento, tutto da dimostrare. Che questo disegno non sia affatto neutrale è palese: l’istruzione deve servire,e servire per scopi immediatamente produttivi. Resta da capire come si concilia l’idea del neo-Ministro – secondo la quale l’istruzione in quanto tale traina la crescita (http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/07d0c056-2a92-4ca9-9187-77d1107b9559/audizione_min_carrozza_060613.pdf) – con la visione confindustriale stando alla quale “in classe devono nascere imprese”.
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Sulla valutazione universitaria
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 1° agosto 2013]
Nel dibattere degli esiti della VQR (l’esercizio di calcolo della qualità della ricerca in Italia, fatto dall’ANVUR), e delle conseguenti classifiche degli Atenei, è bene tener conto di una questione preliminare: la valutazione ANVUR è stata costruita sulla base del principio per il quale è “eccellente” un ricercatore che ha pubblicato, nel periodo 2004-2010, su riviste che la stessa agenzia ha selezionato nel 2012. In altri termini, può essere considerato eccellente un ricercatore che, per puro caso, ha pubblicato anni fa su una rivista che solo successivamente è stata classificata in fascia A, secondo criteri che, almeno per alcuni settori disciplinari, risultano ancora del tutto opachi. La questione è dirimente: in alcune aree scientifiche, la selezione delle riviste di fascia A non è affatto neutra, nel senso che riflette opzioni di natura extra-scientifica e, in alcuni casi, palesemente politica. Così che può verificarsi che la produzione scientifica di un ricercatore sia considerata “limitata” solo perché non allineata agli standard che l’Agenzia ha adottato. Ed è molto difficile considerare oggettivi gli standard adottati dall’Agenzia. A puro titolo esemplificativo, nel settore di Economia Politica non esistono rivista di fascia A nelle quali sia possibile pubblicare articoli di orientamento critico, e sono fortemente penalizzate ricerche di taglio multidisciplinare. Almeno in questo caso, la VQR impone, in un’ottica del tutto illiberale, l’allineamento della ricerca scientifica a quello che viene definito il “pensiero unico”. Questo è il vizio d’origine della VQR, denunciato, peraltro, dall’Associazione dei Costituzionalisti Italiani, presieduta dal prof. Valerio Onida.
Effettuata la valutazione, l’ANVUR ha deciso – per ragioni ignote – di rendere pubblici due rapporti, uno, per così dire, a “uso interno” e l’altro per la stampa. I risultati delle valutazioni delle strutture, nei due rapporti, sono spesso configgenti. A quali risultati il Ministro dovrà far riferimento per la distribuzione dei fondi premiali alle Università? Un recente comunicato ANVUR chiarisce che l’agenzia non ne è responsabile e che la distribuzione dei finanziamenti sulla base della VQR, rinviata ad altri decisori, sarà soltanto “eventuale”. Si consideri che l’intera procedura è durata circa due anni e che si stima sia costata circa 30 milioni di euro. E’ vero che il contribuente italiano ha diritto a conoscere cosa si produce nelle Università del nostro Paese, ma è anche vero che ha diritto anche a sapere come i valutatori hanno lavorato. Ed è bene che si discuta non soltanto dei soggetti valutati, ma anche dei valutatori. Ciò anche in considerazione del fatto che una parte di questi non sembra aver agito né in modo oggettivo, né in modo eticamente corretto. Sia sufficiente ricordare una dichiarazione del prof. Giovanni Federico, componente del gruppo di esperti di valutazione dell’area delle Scienze Economiche, secondo il quale “una volta fatta la valutazione, ridurremo i ricercatori inattivi a zombies”.
C’è chi ha salutato con favore il lavoro svolto dall’ANVUR, lamentando che, per ragioni che attengono alla privacy, mentre sono note le valutazioni dei Dipartimenti, non sono note le valutazioni dei singoli. Sarebbe così impossibile individuare meccanismi di incentivazione per docenti inattivi ed essere molto attenti nel reclutamento dei ricercatori. Si tratta di un problema rilevante, se si assume che la VQR sia pienamente affidabile. Assumendo che lo sia, si aprono questi possibili scenari.
1) Il reclutamento di ricercatori universitari è sostanzialmente impossibile, dati i vincoli finanziari e le bizzarre regole sul turnover introdotti dalla “riforma” Gelmini. Fra queste: il vincolo che impone di reclutare contestualmente un professore ordinario e un ricercatore a tempo determinato (RTD). Una norma la cui ratio è sfuggente, dal momento che il professore reclutato non necessariamente è dello stesso settore disciplinare del RTD, così che non si può ritenere che la norma sia, in qualche modo, finalizzata a incentivare la costituzione di “scuole” di ricerca, o a rafforzarle. Nella migliore delle ipotesi, a legislazione vigente, sarebbe possibile reclutare esclusivamente ricercatori a tempo determinato. L’art. 24 della legge 240/2010 prevede due tipologie di contratti per i ricercatori a tempo determinato: ricercatori di tipo A, con un contratto iniziale di durata triennale e prorogabile per soli due anni e ricercatori di tipo B con contratto triennale non rinnovabile. In entrambi i casi, non si capisce quale incentivo avrebbe un giovane ricercatore precario a pubblicare su riviste di fascia A, dal momento che così facendo contribuirebbe ad accrescere la quota premiale destinata all’Università che lo ha assunto, senza ottenere alcun beneficio. Data, infatti, la continua decurtazione di fondi all’Istituzione e dato l’obiettivo politico, esplicitato in particolare dal Ministro Profumo, di accelerare la progressione di carriera degli attuali ricercatori a tempo indeterminato, la probabilità che un ricercatore precario sia stabilizzato la si può approssimare a zero.
2) I docenti strutturati inattivi possono essere tali per due ragioni: scarsa o nulla produzione scientifica nel periodo considerato o mancato invio dei prodotti della ricerca. Poiché – non essendo stata preceduta da un’anagrafe nazionale della ricerca – la VQR è stata impostata su base volontaria, ovvero è stata lasciata libertà a ciascun docente di aderire o meno all’esercizio di valutazione, l’inattività per mancato invio dei prodotti della ricerca è un caso niente affatto marginale. Se, per contro, gli inattivi sono tali in senso proprio – ovvero non hanno pubblicato nel periodo oggetto di valutazione – è molto probabile che rimarranno tali anche in presenza di meccanismi di incentivi e sanzioni, poiché fondamentalmente la ricerca scientifica la si fa se si è spinti da “curiosità disinteressata”.
E’ bene precisare che ciò non significa opporsi alla valutazione del proprio lavoro. Significa pretendere che il proprio lavoro sia valutato sulla base di criteri definiti prima che l’esercizio di valutazione si compia, avendo quindi chiare le “regole del gioco” e avendo la possibilità di negoziarle con procedure democratiche che investano organismi elettivi (in Italia, il Consiglio Universitario Nazionale). Diversamente, ed è quanto sta accadendo, ci si troverebbe nella condizione di giocare una partita il cui esito dipende dalle regole che l’arbitro stabilisce una volta terminata.
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Rapporto di valutazione
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 19 agosto 2013]
Il 16 luglio è stato pubblicato il primo Rapporto di valutazione del sistema universitario italiano, prodotto da un’Agenzia di nomina governativa (ANVUR), per il periodo 2004-2010. I commenti sono stati numerosi e c’è da aspettarsi che, dopo la pausa estiva, si cominci seriamente a riflettere sull’attendibilità dei risultati e sul da farsi. Ma prima di interrogarsi su cosa fare, occorrerebbe una verifica attenta dell’affidabilità dei risultati. E qui non mancano elementi di criticità. Alcuni fra questi:
1) Come puntualizzato dal Consiglio Universitario Nazionale, i risultati del Rapporto ANVUR non possono essere letti come una classifica di Atenei. Non è così in nessun Paese nel quale si producono rapporti di valutazione, e non può essere così per evidenti ragioni statistiche: gli Atenei non hanno la stessa soglia dimensionale e confrontarli sarebbe come confrontare mele e pere. L’escamotage dell’ANVUR di suddividere le Università italiane in tre categorie dimensionali (grandi, medie, piccole) non risolve il problema, dal momento che per ciascuna categoria si ripropone il problema della soglia dimensionale. Ancora: classificare gli Atenei come squadre di calcio incorre in problemi tecnici (ed etici) non irrilevanti. E’ celebre, a riguardo, il quarto posto assegnato dal Times Higher Education all’Università di Alessandria d’Egitto davanti ad Harvard: un successo straordinario interamente imputabile alla presenza, in quell’Ateneo, di un ricercatore particolarmente attivo nel pubblicare articoli sulla rivista da lui diretta (la classifica fu prontamente cestinata).
2) L’ANVUR ha elaborato dati (i c.d. prodotti della ricerca) spontaneamente forniti dai docenti e li ha valutati sulla base della loro collocazione in un elenco di riviste accademiche che l’ANVUR stessa ha predisposto, e che ha predisposto ex-post. In altri termini, l’Agenzia ha valutato le pubblicazioni in relazione alla sede che le ha ospitate, indipendentemente dal loro contenuto: così che un articolo che nulla aggiunge alle nostre conoscenze, se, per puro caso, è stato pubblicato su riviste di “eccellenza” (ovvero certificate tali dall’Agenzia) riceve una valutazione molto positiva, così come, per contro, un articolo estremamente innovativo pubblicato su riviste che l’ANVUR non considera buone riceve una valutazione bassa. Si tratta di casi frequenti, soprattutto se si considera che gli articoli valutati sono stati scritti prima che l’elenco delle riviste fosse reso noto. Vi è qui un evidente vizio di retroattività: un ricercatore diventa eccellente se, per puro caso, nel 2004 ha destinato le proprie ricerche a una rivista che nel 2012 ha ricevuto il bollino blu.
3) L’ANVUR ha, a più riprese, riformulato le sue valutazioni; il che costituisce un segnale piuttosto eloquente della natura sperimentale degli esercizi di valutazione che compie. D’altra parte, l’Agenzia ha scelto curiosamente di non fare riferimento a esperienze consolidate da decenni (come quella britannica), ma di proporre nuove metodologie, con esiti a dir poco confusionari. Ne costituisce conferma uno degli ultimi suoi comunicati: “In questi giorni stiamo ricevendo ulteriori segnalazioni dalle strutture valutate che vaglieremo attentamente”. Di quali “segnalazioni” si tratti non è dato sapere, né è dato sapere se, sulla base di queste “segnalazioni”, l’Agenzia rivedrà ulteriormente le sue valutazioni. A due anni dalla nascita, l’Agenzia ci ha abituati a frequenti ritrattazioni: da ultima, la diffusione di due Rapporti di valutazione (il primo a “uso interno”, il secondo per la stampa), con successiva revisione del secondo Rapporto – peraltro in palese contrasto con il primo.
4) Non è chiarito ufficialmente perché la valutazione debba riguardare solo le strutture (i Dipartimenti) e le aree disciplinari e non possano essere rese pubbliche le valutazioni dei singoli. In assenza di questa informazione, non si capisce come – assumendo perfetta affidabilità del Rapporto ANVUR – gli Atenei possano porre in essere misure di incentivazione per docenti chiaramente inattivi.
Si dirà che il meglio è nemico del bene, che tutto è perfettibile e che, in fondo, questi rilievi sono marginali. Ma il problema sta nel fatto che, come ha fatto capire il nuovo Ministro, all’ANVUR sono state delegate troppe funzioni, scavalcando quelle tradizionalmente assegnate al CUN – unico organo elettivo del sistema universitario italiano, e che l’eccesso di funzioni può generare distrazioni, se non veri e propri errori.
Buon senso vorrebbe che il primo Rapporto ANVUR sia considerato una sperimentazione, e che le famiglie non orientino le immatricolazioni dei propri figli sulla base delle classifiche pubblicate sulla stampa. L’Università italiana è un sistema con “eccellenze diffuse”: esistono bravissimi ricercatori in un dato settore nell’Università del Salento e ricercatori meno bravi nella stessa sede. Ed è così ovunque. Lo sforzo di miglioramento della qualità della ricerca (e della didattica) nel nostro Ateneo è stato fatto, e potrà essere fatto, anche indipendentemente dai criteri imposti da un’Agenzia che, almeno per alcuni settori, diventa sempre meno credibile. Si può migliorare la ricerca anche senza sforzarsi di pubblicare, a titolo esemplificativo, su “Inzierine Ekonomika” (rivista di fascia A nel settore delle Scienze Economiche – ANVUR), fino all’anno scorso del tutto ignota agli addetti ai lavori, specializzata nella pubblicazione di articoli sull’economia lituana, o su “Suinocoltura”.
P.S. Chi scrive non sa quale valutazione ha ricevuto, dal momento che le valutazioni individuali saranno rese note solo all’interessato a fine settembre.
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Sulla valutazione della ricerca: Caro Nando…
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 4 settembre 2013]
Nell’articolo del 20 agosto pubblicato su questo giornale, Nando Boero solleva due rilievi alle mie critiche – espresse il giorno prima sul Quotidiano – all’esercizio di valutazione della ricerca (VQR) effettuato dall’ANVUR. In primo luogo, egli osserva che, sebbene perfettibile, l’operazione ANVUR è affidabile e va salutata come prima e attesa verifica della qualità della ricerca scientifica in Italia. Con l’auspicio che, su queste basi, finalmente si premi il merito. In secondo luogo, ritiene che le immatricolazioni degli studenti di fatto prescindono dalle classifiche – nazionali e internazionali – degli Atenei italiani, e che le loro scelte sono fondamentalmente influenzate dalla lettura dei curricula dei professori e dell’offerta formativa, di norma disponibili in rete.
Si tratta di due tesi poco convincenti, per le seguenti ragioni.
1) Boero riconosce che la valutazione ANVUR fatta in ambito “umanistico” è meno precisa di quella fatta nell’ambito delle c.d. scienze dure (fisica, matematica, ingegneria ecc.) e da ciò deduce che le mie critiche soffrono del vizio di prendere una parte (gli errori compiuti per le aree “umanistiche”) ed estenderla al tutto. Ma l’argomento può essere agevolmente ribaltato. Ha senso prendere per buona la VQR se si ammette che, per numerosi ambiti della conoscenza, è fallace? Non si tratterebbe – anche in questo caso – di prendere una parte (la valutazione oggettiva e pienamente attendibile nell’ambito delle c.d. scienze dure) ed estenderla al tutto (la valutazione soggettiva, discrezionale ed estremamente imperfetta degli altri settori disciplinari)? Sia chiaro che la tesi di Boero secondo la quale la valutazione della ricerca si rende necessaria è pienamente condivisibile. Come farla? Qui sorgono non pochi problemi, studiati nella letteratura specialistica da almeno un paio di decenni. Al di là dei tecnicismi, ciò che non è chiaro è perché ANVUR è partita, per così dire, dal nulla, avendo, per contro, potuto attingere all’esperienza ultradecennale di altri Paesi, dove evidentemente si è avuto il tempo necessario per mettere a punto un sistema di valutazione della ricerca sufficientemente attendibile e condiviso dalla comunità accademica. D’altra parte, lo stesso Boero auspica che i criteri (a quanto pare) oggettivi usati per valutare le “scienze dure” siano estesi a tutti gli altri ambiti disciplinari. Ma, poiché questo processo (auspicabile o meno) richiede tempo, vi è una ragione in più per considerare la VQR 2004-2010 come un primo esperimento di valutazione, che necessita di essere perfezionato per essere pienamente affidabile.
La pubblicazione dei risultati VQR – e non è il caso del collega Boero – ha dato spazio alle proposte più ardite, in merito alle quali sarebbe saggio sospendere il giudizio. Sulle colonne del Corriere della sera, il prof. Giavazzi – autorevole commentatore di temi economici, nonché strenuo sostenitore della c.d. “riforma” Gelmini – ha recentemente auspicato la chiusura delle Università di Bari, Messina e Urbino perché collocate al fanalino di coda della classifica ANVUR. Si tratta di dichiarazioni non solo provocatorie, ma, nel caso specifico della proposta Giavazzi, davvero surreali: se, infatti, Bari, Messina e Urbino sono – nel complesso – Atenei poco produttivi (stando alla VQR), ancora meno produttiva – almeno nell’area delle scienze economiche – è la Bocconi, Università nella quale Giavazzi lavora, con una percentuale notevolmente alta di professori “fannulloni”. Che si fa, si chiede di chiudere i corsi di laurea di Economia dell’Ateneo milanese?
2) Nando Boero constata, poi, che gli studenti scelgono le sedi universitarie nelle quali immatricolarsi acquisendo informazioni su Internet, indipendentemente dalle classifiche ANVUR. Si intende sostenere che la VQR non orienterà le immatricolazioni? Allora: tanto rumore per nulla. E poi, per quale ragione ANVUR si è affrettata a fornire alla stampa una graduatoria di Atenei (peraltro diversa da quella utilizzabile dal Ministero), con il risultato – atteso o meno – di produrre un dibattito accesissimo su chi è più bravo e chi meno?
Qui vi è un fondamentale fraintendimento. Alle famiglie va chiaramente detto – qualora non ne siano a conoscenza – che la VQR non fornisce una classifica di Atenei e che soprattutto non valuta la didattica. Così che si può avere un Ateneo classificato “limitato” per la numerosità e la qualità delle pubblicazioni dei ricercatori che lì lavorano e, tuttavia, eccellente per l’offerta formativa erogata. In altri termini, non sono affatto rari i casi di professori poco produttivi sul piano scientifico e tuttavia molto bravi nell’insegnamento, così come si possono avere eccellenti ricercatori poco preparati per fare buona didattica. Ma, su questo, la VQR non si pronuncia: ANVUR accredita i corsi di studio sulla base dei criteri definiti dal progetto AVA, del quale, probabilmente, solo gli addetti ai lavori conoscono l’esistenza.
Il problema con il quale oggi occorre confrontarsi non è tanto la valutazione della ricerca, quanto il destino dell’Università italiana. Va chiarito, a riguardo, che il sistema universitario italiano è ancora fra i migliori d’Europa, a fronte della massiccia decurtazione di finanziamenti subìta nel corso degli ultimi cinque anni, il numero di ricercatori universitari è fra i più bassi in Europa, il numero di sedi universitarie è anch’esso fra i più bassi in Europa. Il processo di precarizzazione introdotto dalla c.d. riforma Gelmini – l’introduzione della figura del ricercatore a tempo determinato con contratto triennale eventualmente rinnovabile una volta – lascia prefigurare un continuo peggioramento della quantità e della qualità della ricerca in Italia. Se anche fosse affidabile e operativa, la VQR non produrrebbe altri esiti se non distribuire selettivamente sempre meno risorse alle Università, la gran parte delle quali è già al limite del dissesto finanziario.
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LA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE, LE DISEGUAGLIANZE DISTRIBUTIVE E LA “MERITOCRAZIA”
[inhttp://keynesblog.com/ del 12 settembre 2013]
L’ultimo Rapporto OCSE (http://www.oecd.org/els/emp/oecdemploymentoutlook.htm) mette in evidenza il fatto che il tasso di disoccupazione è in crescita in quasi tutti i Paesi industrializzati e, in particolare, nell’eurozona e in Italia. Banca d’Italia, fin da 2010, registra che la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/QF_75/QEF_75.pdf), e che la crescita della disoccupazione riguarda principalmente la componente giovanile della forza-lavoro. Il tasso di attività di individui di età compresa fra i 15 e i 64 anni, nel 1993, era del 58%, a fronte del 42% di quello di individui collocati nella fascia d’età 15-24. Nel 2004, il tasso di attività nella fascia d’età 15-64 è aumentato collocandosi a oltre il 62%, mentre, nello stesso arco temporale, si è ridotto il tasso di attività giovanile, collocandosi intorno al 35%. Nel corso degli ultimi anni, il divario fra occupazione “adulta” e occupazione giovanile è costantemente aumentato, portando il tasso di disoccupazione giovanile a circa il 40% (fonte ISTAT), fatto del tutto inedito nella storia dell’economia italiana. Ciò nonostante, sembra che il dibattito su questi temi si concentri quasi esclusivamente sulle misure di contrasto al fenomeno, in assenza di una preventiva individuazione delle cause.
Il fenomeno viene imputato da molti commentatori a effetti di labour hoarding, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare, con i conseguenti costi (monetari e di tempo) connessi alla specializzazione dei nuovi assunti. In tal senso, la disoccupazione giovanile viene imputata alla bassa dotazione di “capitale umano specifico”, derivante dalla bassa dotazione (o dalla totale assenza) di competenze associate al learning by doing.
Si tratta di un’interpretazione per alcuni aspetti discutibile, almeno se riferita all’Italia.
1) L’ipotesi del labour hoarding vale sotto la condizione che le aspettative delle imprese siano ottimistiche, ovvero che si attendano un aumento della domanda già nel breve-medio termine. Diversamente, non si spiegherebbe per quali ragioni esse razionalmente decidano di non licenziare, mantenendo manodopera “in eccesso” rispetto ai volumi di produzione da realizzare e, dunque, sostenendo costi senza ottenere benefici di breve periodo. Data questa condizione, l’ipotesi del labour hoarding sembra essere in evidente contraddizione con la percezione che le imprese italiane hanno in merito alla durata della crisi. Si stima, a riguardo, che oltre il 50% degli imprenditori italiani ritiene che la recessione in atto durerà ancora almeno due anni (http://www.castelmonteonlus.it/UserFiles/File/Fondazione%20Norest%20la%20crisi%20e%20gli%20imprenditori,%20luglio%202012.pdf), ed è una stima che può considerarsi prudenziale.
2) Fatte salve le dovute eccezioni, il sistema produttivo italiano è composto da imprese di piccole dimensioni e poco innovative. Anche in questo caso, l’ipotesi del labour hoarding – con riferimento all’Italia – sembra poco convincente. Se la tecnologia utilizzata, infatti, non richiede lunghi e costosi processi di apprendimento, non si capisce per quale ragione le imprese non licenzino, potendo – nel far questo – ridurre i costi di produzione di breve periodo ed eventualmente assumere (con costi di formazione pressoché irrisori) nelle fasi espansive del ciclo.
Queste considerazioni inducono a ritenere che, almeno nel caso italiano (e, ancor più, nel caso del Mezzogiorno), la (relativa) tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta dipende semmai da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono alla struttura familiare. In altri termini, il costo del licenziamento, in questi casi, è sia economico[1] sia psicologico[2], ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati.
L’opinione dominante – schematizzando – fa propria la convinzione, apparentemente lapalissiana, secondo la quale sono gli individui più produttivi ad avere la più alta probabilità di essere assunti. Sul piano normativo, ciò implica mettere in campo politiche che rimuovano le barriere che ostacolano un’allocazione della forza-lavoro basata sul “merito”. E’ bene chiarire che si tratta di una tesi fallace da un duplice punto di vista. Innanzitutto, non è chiaro come possa essere quantificato il merito, e quale relazione si intenda istituire fra merito e produttività. Il “merito” ha natura qualitativa e, in quanto tale, può essere oggetto di misurazione esclusivamente in modo discrezionale, se non arbitrario. La produttività del lavoro (ammesso che anche questa sia misurabile, ovvero “isolabile” dalla produttività degli altri fattori produttivi) è il rapporto fra la quantità prodotta e le ore-lavoro impiegate. La differenza che passa fra produttività e merito è esattamente quella che passa fra lavorare molto e lavorare bene: con ogni evidenza, nulla assicura che lavorare molto implichi lavorare bene. In secondo luogo, questa tesi si fonda implicitamente sul presupposto secondo il quale la competizione nel mercato del lavoro avviene in un “vuoto istituzionale”, ovvero non risente di variabili che attengono all’ambiente sociale e familiare nel quale gli individui si formano.
In palese contraddizione con questa impostazione, si rileva sul piano empirico (http://datamarket.com/data/set/18u4/methods-used-for-seeking-work-percentage-of-unemployed-who-declared-having-used-a-given-method-by-sex#!display=line&ds=18u4!msg=1:msh=9:6frb=a) che, dal 2000 al 2012, in tutti i Paesi dell’eurozona è notevolmente aumentato il numero di individui che si rivolge a conoscenti, amici, parenti nell’attività di ricerca di lavoro. Si osservi che il periodo considerato è caratterizzato da un notevole incremento delle diseguaglianze distributive. (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/statistics_explained/index.php/Income_distribution_statistics)[4].
Questi due fenomeni inducono a ritenere che il peggioramento della distribuzione del reddito genera un potenziamento del ruolo delle “reti relazionali” nell’attività di job search, configurando una dinamica del mercato del lavoro nella quale le relazioni di potere e di gerarchia assumono sempre più rilievo, e sempre meno rilievo assumono le caratteristiche personali. Il che, peraltro, si associa – come ampiamente documentato sul piano empirico (http://www.oecd.org/tax/public-finance/chapter%205%20gfg%202010.pdf) – alla riduzione del grado di mobilità sociale: i figli delle famiglie con più alto reddito ottengono good jobs, a fronte del fatto che le famiglie con più basso reddito vedono i loro figli collocati in condizioni di disoccupazione, sottoccupazione, precarietà[5].
A ciò si aggiunge il fatto che i giovani provenienti da famiglie con redditi elevati hanno un salario di riserva più alto rispetto a coloro che provengono da famiglie con basso reddito. Un elevato salario di riserva – derivante essenzialmente dai risparmi delle famiglie d’origine – consente di acquisire un più elevato potere contrattuale (in quanto consente di attendere più tempo per la stipula del contratto di lavoro) e, conseguentemente, consente anche di attendere più tempo per accettare un’offerta di posto di lavoro In tal senso, l’aumento delle diseguaglianze distributive rende il mercato del lavoro sempre più duale.
E’ evidente che un meccanismo di allocazione della forza-lavoro basato su reti relazionali ha effetti di segno negativo sulla dinamica della produttività del lavoro. Ciò a ragione del fatto che gli individui provenienti da famiglie con redditi elevati “spiazzano” gli individui provenienti da famiglie con più basso reddito, non perché più produttivi, ma semplicemente perché le famiglie d’origine hanno redditi più alti e maggiori e migliori “reti relazionali”. In tal senso – e contro la visione dominante – la disoccupazione giovanile non ha nulla a che vedere con il fatto che i lavoratori adulti sono iperprotetti. E, contro la visione dominante, è semmai il peggioramento della distribuzione del reddito a contribuire a ridurre la produttività del lavoro.
Non è un fenomeno nuovo quello della trasmissione ereditaria della povertà. L’“ideologia del “merito” che ha guidato le politiche economiche degli ultimi decenni non aiuta a risolvere il problema (e, di fatto, non lo ha minimamente attenuato), dal momento che il fenomeno si auto-alimenta soprattutto in contesti di crescente polarizzazione dei redditi.
[1] Per l’ovvia ragione che, in questo caso, il licenziamento comporta la riduzione di reddito della famiglia.
[2] Per l’altrettanto ovvia ragione che è psicologicamente costoso licenziare un familiare.
[3] Come certificato dall’OCSE, la diseguaglianza distributiva è notevolmente aumentata a partire dagli anni Ottanta al’interno di tutti i Paesi industrializzati. Al 2012, l’indice di Gini, riferito all’Italia, oscilla intorno allo 0,36 a fronte di una media OCSE circa uguale a 0,30.
[4] Come certificato dall’OCSE, la diseguaglianza distributiva è notevolmente aumentata a partire dagli anni Ottanta al’interno di tutti i Paesi industrializzati. Al 2012, l’indice di Gini, riferito all’Italia, oscilla intorno allo 0,36 a fronte di una media OCSE circa uguale a 0,30.
[5] Come riconosciuto da Mario Draghi: “il successo professionale di un giovane sembra dipendere più dal luogo di nascita e dalle caratteristiche dei genitori che dalle caratteristiche personali come il titolo di studio” (http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2011/giovanicrescita/sarteano_ottobre_2011_ende.pdf). Sul tema si vedano S.Bowels and H.Gintis, The inheritance of inequality, “Journal of Economic Perspective”, (16): 3-30 e, per il caso italiano, A. Rosalia, Relazioni intergenerazionali: il ruolo della famiglia, CEPR 2011.
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L’Università delle banche
[in “Roars” Return on Accademic Research del 5 ottobre 2013]
Il 21 gennaio 2011, a seguito dell’approvazione in Consiglio dei Ministri del decreto sulle abilitazioni scientifiche nazionali, il Ministro Gelmini diramava – sul sito del MIUR – questo comunicato: “Il regolamento pone fine ai concorsi truccati e introduce l’abilitazione nazionale secondo criteri meritocratici e di trasparenza, i principi cardine del ddl Gelmini che vuole così colpire baronie, privilegi e sprechi”. Il 13 settembre 2013, il Ministero ha dato comunicazione di un’ulteriore proroga per la conclusione dei lavori delle commissioni, fissandola al 30 novembre. A due anni e mezzo dal primo annuncio, il Ministro potrebbe correggerlo scrivendo che quel regolamento non pone fine ai concorsi “truccati”, ma pone fine ai concorsi tout court, o – il che è lo stesso – che pone fine ai concorsi truccati perché pone fine ai concorsi.
Il blocco del turnover nelle Università italiane è dovuto fondamentalmente a tre fattori, il cui impatto era peraltro ampiamente prevedibile fin dall’approvazione della c.d. riforma Gelmini: la lentezza della procedura per l’attribuzione delle abilitazioni scientifiche nazionali, la decurtazione dei finanziamenti, l’introduzione della figura del ricercatore a tempo determinato.
Il risultato è che le Università italiane sono sempre più popolate da studiosi di età avanzata, demotivati, sui quali gravano norme vessatorie e talvolta del tutto incomprensibili, sempre meno produttivi sia per ragioni anagrafiche, sia per l’indisponibilità di fondi per fare ricerca. E’ lapalissiano il fatto che la ricerca scientifica richiede investimenti, in tutti i settori disciplinari: fondi per partecipare a convegni (possibilmente non attingendo al proprio stipendio, peraltro molto più basso della media europea e con scatti di anzianità bloccati), acquisto di libri e riviste, laboratori.
La domanda che occorre porsi è: chi trae vantaggi in questo scenario? Le ipotesi proposte per rispondere a questa domanda sono sostanzialmente due. In primo luogo, si sostiene che la c.d. riforma Gelmini si è resa politicamente fattibile per lo scambio riduzione dei fondi – più ampi poteri attribuiti ai Rettori e che, dunque, sono questi ultimi a ritenere desiderabile lo status quo. Si tratta di una congettura probabilmente verosimile in alcuni casi, ma opinabile se si considera che disporre di un elevato potere formale con pochi fondi (peraltro in costante riduzione) significa, di fatto, disporre, sul piano sostanziale, di poco potere. In secondo luogo, è stato sostenuto che la “cura dimagrante” imposta alle Università italiane sia imputabile all’eccesso di offerta di forza-lavoro qualificata, in una struttura produttiva composta, salvo rare eccezioni, da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, che esprimono una domanda di lavoro rivolta prevalentemente a individui con più basso livello di scolarizzazione (http://temi.repubblica.it/micromega-online/l%E2%80%99universita-sottofinanziata-e-il-declino-italiano/). In più, una campagna mediatica molto efficace ha diffuso la convinzione che l’Università sia unicamente un luogo nel quale si sprecano risorse e si esercitano baronaggio e nepotismo. La ricerca scientifica è stata concepita come un puro costo, insostenibile in un contesto di “risanamento” delle finanze pubbliche, con l’esito inevitabile di una continua decurtazione di fondi nel corso dell’ultimo quinquennio. La retorica della “casta dei professori universitari” combinata con la riduzione dei redditi delle famiglie e l’aumento delle tasse universitarie, ha prodotto l’ulteriore effetto di ridurre in modo significativo le immatricolazioni alle Università.
Almeno nel breve-medio termine, l’obiettivo della chiusura o accorpamento di sedi universitarie – fatta propria dai principali ispiratori della “riforma” – appare impraticabile. Occorrerebbe – se ben si capisce – il licenziamento in massa del personale delle Università che si intendono chiudere: operazione politicamente inopportuna e tecnicamente infondata, dal momento che, se si vuole percorrere questa strada utilizzando le ben poco affidabili “classifiche” della VQR si incorrerebbe, come ampiamente documentato, in scelte assai discutibili (ihttp://www.roars.it/online/francesco-giavazzi-e-la-sua-magnifica-ossessione/).
Recentemente, sul blog “lavoce.info”, è stato proposto di favorire l’accesso all’Università a giovani meritevoli provenienti da famiglie con basso reddito attraverso prestiti bancari da restituire al termine del ciclo di studi, con tassi di interesse crescenti al crescere degli anni “fuori corso” (http://www.lavoce.info/studiare-subito-e-pagare-dopo/). E’ interessante osservare che questo sistema è già in atto, almeno per alcune banche – Unicredit, in primis – e per alcuni Atenei: Bocconi, Luiss, Bologna, fra quelli italiani (https://www.unicredit.it/it/giovani/prestiti/unicreditadhonorem.html; http://www.controcampus.it/2013/09/tasse-universitarie-allunive-le-tasse-universitarie-le-paghi-la-laurea/). Non è dato riscontrare dati ufficiali sul numero di studenti che hanno acceso mutui per finanziare gli studi. Ma, indipendentemente da questo, e probabilmente come effetto non previsto, il combinato della “riforma Gelmini” e della decurtazione di fondi può segnare il passaggio dalla “bolla formativa” dei primi anni Duemila a una nuova “bolla finanziaria”, sul modello anglosassone (http://www.roars.it/online/negli-stati-uniti-crescono-i-debiti-degli-studenti/). In altri termini, la svolta epocale del Ministro Gelmini – più che premiare il merito e combattere le baronie – sembra prefigurare uno scenario nel quale è il sistema bancario a trarne benefici, influenzando, di fatto, le scelte di immatricolazione e reclutamento. In una logica “di mercato”, infatti, le banche hanno convenienza a concedere finanziamenti a studenti che si iscrivono in sedi universitarie che, tradizionalmente, danno maggiori sbocchi occupazionali, minimizzando, così, il rischio di insolvenza da parte degli studenti indebitati. E poiché queste sedi sono collocate nelle aree più sviluppate del Paese, la svolta epocale del Ministro Gelmini può facilmente tradursi nell’accentuazione del fenomeno – già in atto – di un’Università a doppia velocità, in uno scenario nel quale gli studenti “capaci e meritevoli” tenderanno sempre più a disertare le sedi meridionali, rendendole ulteriormente sottofinanziate e, dunque, con minori possibilità di reclutamento.
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Verso la desertificazione universitaria
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 31 ottobre 2013]
Il 21 gennaio 2011, a seguito dell’approvazione in Consiglio dei Ministri del decreto sulle nuove norme per il reclutamento in Università (le abilitazioni scientifiche nazionali), il Ministro Gelmini diramava – sul sito del MIUR – questo comunicato: “Il regolamento pone fine ai concorsi truccati e introduce l’abilitazione nazionale secondo criteri meritocratici e di trasparenza, i principi cardine del ddl Gelmini che vuole così colpire baronie, privilegi e sprechi”. A oltre due anni da quell’annuncio, non solo le Università non hanno potuto assumere, ma hanno subìto ulteriori decurtazioni di fondi e, per il Mezzogiorno, una recente inspiegabile penalizzazione per quanto attiene alla possibilità di rinnovare il corpo docente, penalizzazione attuata mediante una significativa redistribuzione dei c.d. punti organico a vantaggio delle sedi settentrionali. Il risultato è che le Università italiane – e, ancor più, meridionali – sono sempre più popolate da studiosi di età avanzata, demotivati, sui quali gravano norme vessatorie e talvolta del tutto incomprensibili, sempre meno produttivi sia per ragioni anagrafiche, sia per l’indisponibilità di fondi per fare ricerca. E’ lapalissiano il fatto che la ricerca scientifica richiede investimenti, in tutti i settori disciplinari: fondi per partecipare a convegni (possibilmente non attingendo al proprio stipendio, peraltro molto più basso della media europea e con scatti di anzianità bloccati), acquisto di libri e riviste, laboratori.
E’ davvero difficile capire quali “criteri meritocratici” siano alla base delle politiche formative degli ultimi anni e soprattutto per quali motivi si è voluto e potuto decretare il de profundis del sistema universitario italiano (e meridionale in particolare), partendo, peraltro, da posizioni di tutto rispetto nel panorama internazionale.
Alcuni commentatori hanno sostenuto che la c.d. riforma Gelmini si è resa politicamente fattibile per lo scambio riduzione dei fondi – più ampi poteri attribuiti ai Rettori e che, dunque, sono questi ultimi a ritenere desiderabile lo status quo. Si tratta di una congettura probabilmente verosimile in alcuni casi, ma opinabile se si considera che disporre di un elevato potere formale con pochi fondi (peraltro in costante riduzione) significa, di fatto, disporre, sul piano sostanziale, di poco potere. In secondo luogo, è stato sostenuto che la “cura dimagrante” imposta alle Università italiane sia imputabile all’eccesso di offerta di forza-lavoro qualificata, in una struttura produttiva composta, salvo rare eccezioni, da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, che esprimono una domanda di lavoro rivolta prevalentemente a individui con più basso livello di scolarizzazione. In più, una campagna mediatica molto efficace ha diffuso la convinzione che l’Università sia unicamente un luogo nel quale si sprecano risorse e si esercitano baronaggio e nepotismo. La ricerca scientifica è stata concepita come un puro costo, insostenibile in un contesto di “risanamento” delle finanze pubbliche, con l’esito inevitabile di una continua decurtazione di fondi nel corso dell’ultimo quinquennio. La retorica della “casta dei professori universitari” combinata con la riduzione dei redditi delle famiglie e l’aumento delle tasse universitarie, ha prodotto l’ulteriore effetto di ridurre in modo significativo le immatricolazioni alle Università.
In questo scenario, sono oggettivamente le Università meridionali a essere maggiormente penalizzate, per due ragioni.
1) Per far fronte al problema del calo delle immatricolazioni, è stato proposto di favorire l’accesso all’Università a giovani meritevoli provenienti da famiglie con basso reddito attraverso prestiti bancari da restituire al termine del ciclo di studi, con tassi di interesse crescenti al crescere degli anni “fuori corso”. E’ interessante osservare che questo sistema è già in atto, almeno per alcune banche – Unicredit, in primis – e per alcuni Atenei: Bocconi, Luiss, Bologna, fra quelli italiani. Nessun Ateneo meridionale viene considerato “affidabile”, ovvero in grado di offrire sbocchi occupazionali ai propri laureati – ai fini dell’erogazione di mutui agli studenti. Non è dato riscontrare dati ufficiali sul numero di studenti che hanno acceso mutui per finanziare gli studi. Ma, indipendentemente da questo, e probabilmente come effetto non previsto, il combinato della “riforma Gelmini” e della decurtazione di fondi può segnare il passaggio dalla “bolla formativa” dei primi anni Duemila a una nuova “bolla finanziaria”, sul modello anglosassone. Va aggiunto che – in una logica “di mercato” – le banche hanno convenienza a concedere finanziamenti a studenti che si iscrivono in sedi universitarie che, tradizionalmente, danno maggiori sbocchi occupazionali, minimizzando, così, il rischio di insolvenza da parte degli studenti indebitati. E poiché queste sedi sono collocate nelle aree più sviluppate del Paese, la svolta epocale del Ministro Gelmini può facilmente tradursi nell’accentuazione del fenomeno – già in atto – di un’Università a doppia velocità, in uno scenario nel quale gli studenti “capaci e meritevoli” tenderanno sempre più a disertare le sedi meridionali, rendendole ulteriormente sottofinanziate e, dunque, con minori possibilità di reclutamento.
2) Le recenti disposizioni del Ministro Carrozza in merito alla redistribuzione dei punti organico (e, dunque, della possibilità di reclutare) sono basate su tecnicismi assai discutibili. Ma, in ogni caso, e anche a prescindere dai criteri utilizzati dal Ministero per ripartire le risorse fra sedi del Sud e sedi del Nord del Paese, occorre porre una domanda puramente politica, alla quale il Ministro Carrozza non può non rispondere per rispetto nei confronti delle famiglie meridionali e di chi lavora in Università meridionali, ovvero: è davvero intenzione di questo Governo sancire la “desertificazione universitaria” di un’intera area del Paese?
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Il Paese del turismo e della desertificazione universitaria
[in “MicroMega” online di venerdì 15 novembre 2013]
“Per rendere felice la società e per rendere il popolo contento anche in condizioni povere, è necessario che la grande maggioranza rimanga sia ignorante che povera” (B. de Mandeville, 1728).
“Con la cultura non si mangia” (Giulio Tremonti, 2010).
Le politiche formative attuate negli ultimi anni sono, al tempo stesso, contraddittorie e miopi. L’obiettivo dichiarato delle recenti “riforme” consiste nel migliorare la qualità della produzione scientifica delle Università italiane. Convenzionalmente, la qualità della produzione scientifica viene misurata calcolando il numero di citazioni che articoli e libri di studiosi italiani hanno ricevuto. Ebbene, su fonte SCIMAGO (http://www.scimagolab.com/blog/2011/the-research-impact-of-national-higher-education-systems/), si calcola che dal 2006 al 2010 il sistema universitario italiano si è collocato all’ottava posizione, su scala mondiale, per numero di citazioni ricevute. Nello stesso intervallo di tempo, l’Italia era collocata al decimo posto, su scala mondiale, per ricchezza prodotta (http://www.roars.it/online/universita-cio-che-bisin-e-de-nicola-non-sanno-o-fingono-di-non-sapere/). In altri termini, la “cura dimagrante” imposta all’Università pubblica italiana si innesta proprio nel periodo nel quale quest’ultima è stata massimamente produttiva.
La contraddizione delle “riforme” rispetto all’obiettivo dichiarato consiste nel fatto che, pressoché inevitabilmente, gli studiosi italiani produrranno meno, sia perché avranno meno fondi a disposizione, sia perché sempre più anziani. Il recente “superamento” – in termini di quantità di citazioni – da parte delle Università cinesi suona come un campanello d’allarme.
Da Giulio Tremonti a Mariastella Gelmini e a seguire, si è detto che i tagli al sistema formativo sono necessari per ragioni di bilancio. Si tratta di una tesi palesemente falsificata dal fatto che, nell’intero settore del pubblico impiego, le maggiori decurtazioni di fondi sono state subìte proprio da scuole e università. Si è, dunque, in presenza di una scelta di ordine puramente politico, non dettata da ragioni “tecniche”. Scelta di ordine politico che ha a che vedere con il modello di specializzazione produttiva al quale si intende portare l’Italia. Quale?
Uno dei più ascoltati economisti italiani, il prof. Luigi Zingales, ha recentemente dichiarato che: “Ci sono un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo di indiani che vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia. Noi dobbiamo prepararci a questo. L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono al livello, però ha un futuro enorme nel turismo. Dobbiamo prepararci per questo, non buttare via i soldi a fondo perduto”. E’ una dichiarazione che esplicita una visione sostanzialmente condivisa sul piano politico, con un inizio di realizzazione con gli ingenti stanziamenti al settore turistico previsti nella Legge di Stabilità.
Se è questa la linea che si intende perseguire, non sorprende che alla “desertificazione produttiva” del Paese (già in atto) debba far seguito la sua “desertificazione universitaria”. Ed è quanto, in larga misura, si è già realizzato.
In netta controtendenza rispetto a quanto verificatosi, negli ultimi anni, nei principali Paesi OCSE, in Italia si è ridotta la quota degli occupati nelle professioni ad alta specializzazione (http://www.almalaurea.it/sites/almalaurea.it/files/docs/universita/profilo/profilo2013/sintesi_profilo2013.pdf). In altri termini, le (poche) assunzioni effettuate nel settore privato hanno riguardato essenzialmente individui con bassi livelli di scolarizzazione. Ciò per le seguenti ragioni:
1) La contrazione della domanda di lavoro qualificato è dipesa essenzialmente dalla riduzione degli investimenti realizzati dalle imprese italiane (-3.9% nel 2012 rispetto all’anno precedente, su fonte ISTAT). La riduzione degli investimenti si associa, infatti, a minore disponibilità di capitale fisso per addetto (e maggior obsolescenza del capitale) e alla riduzione delle dimensioni medie aziendali. E’ del tutto evidente che da questo scenario, caratterizzato da bassa accumulazione di capitale fisso e da nanismo imprenditoriale, ci si poteva solo aspettare che la domanda di lavoro espressa dalle imprese sarebbe stata sempre più rivolta a individui poco scolarizzati (http://temi.repubblica.it/micromega-online/l%E2%80%99universita-sottofinanziata-e-il-declino-italiano/). A ciò si può aggiungere il fatto che i nostri imprenditori sono, in media, poco scolarizzati – circa il 70% degli imprenditori italiani non è diplomato – e che ciò ha rilievo nelle scelte di assunzione. Come documentato dall’ISFOL, gli imprenditori con elevato titolo di studio sono maggiormente propensi ad assumere individui con elevata dotazione di capitale umano http://www.isfol.it/pubblicazioni/osservatorio-isfol/numeri-pubblicati/allegati-anno-ii-n.3-2012/ricci).
2) Le politiche di austerità messe in atto negli ultimi anni hanno significativamente contribuito a generare questi esiti. Ciò a ragione del fatto che la riduzione della spesa pubblica e l’aumento dell’imposizione fiscale hanno ristretto i mercati di sbocco delle (molte) imprese italiane che operano su mercati interni, riducendone i profitti (o determinandone il fallimento) e riducendo, di conseguenza, i fondi interni disponibili per le innovazioni. Le politiche di austerità hanno depresso la domanda interna, e – reiterate negli anni – hanno inciso negativamente sulle aspettative imprenditoriali, contribuendo a determinare riduzione degli investimenti e, in una condizione di crescente incertezza, a disincentivare l’offerta di credito da parte delle banche, in una spirale recessiva che accresce il tasso di disoccupazione, soprattutto a danno degli individui con maggiore dotazione di capitale umano.
3) Una campagna mediatica efficacemente organizzata ha dipinto l’Università pubblica come luogo di spreco, di baronie, di assenteismo, di corruzione. E’ verosimile che, a parità di condizioni, gli imprenditori siano più propensi ad assumere diplomati anche per questa ragione, imputando valore nullo a titoli di studio rilasciati da Istituzioni del tutto prive di credibilità.
La decurtazione di fondi alle Università grava innanzitutto sugli studenti, per la minore quantità e qualità dei servizi offerti, e per l’aumento delle contribuzioni. Il decremento di immatricolazioni nell’ordine del 17% negli ultimi dieci anni è una risposta individualmente “razionale” e, tuttavia, controproducente sul piano macroeconomico e nel lungo periodo. Un’economia che sarà popolata prevalentemente da individui over-60 (anche a ragione della ripresa consistente delle emigrazioni giovanili), con giovani residenti poco istruiti è, con ogni evidenza, un’economia condannata a bassi tassi di crescita.
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Va rilevato che gli studi empirici sull’ipotesi di crescita trainata dal turismo sostanzialmente concordano nel ritenere questa ipotesi suffragata per i Paesi in via di sviluppo. Nel caso di Paesi con tradizione industriale, per contro, si rileva che politiche fortemente orientate a generare una struttura produttiva orientata al turismo sperimentano, di norma, bassi tassi di crescita (http://www.rcfea.org/RePEc/pdf/wp41_09.pdf).
E assecondata da molte Università tramite il proliferare di corsi di laurea in Scienze del Turismo et similia. Il che, peraltro, testimonia il fatto che anche la gestione delle attività turistiche richiede, nonostante Zingales, competenze acquisite in Università. Si può poi osservare che una quota consistente degli afflussi turistici in Italia deriva dal turismo congressuale, che evidentemente può esistere solo laddove esistono sedi universitarie con finanziamenti sufficienti per l’organizzazione di convegni internazionali.
Si può osservare che il basso (se non nullo) potere contrattuale degli studenti universitari, in sede di negoziazione politica, può aver contribuito a questi esiti.
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Le false promesse della riforma Gelmini
[in Sbilanciamoci.info del 27 dicembre 2013]
A distanza di tre anni dall’approvazione della c.d. riforma Gelmini, si possono trarre alcune considerazioni sugli effetti che ha prodotto, a partire da un’analisi ex-post delle convinzioni che ne sono state alla base e degli obiettivi che si prefiggeva. La “riforma” viene qui intesa in un’accezione ampia, comprendendo la riduzione dei finanziamenti alle Università pubbliche, e viene ricondotta a una strategia dichiaratamente finalizzata a ridurre gli sprechi nelle Università italiane e ad accrescere la quantità e la qualità della produzione scientifica italiana, premiando il merito.
1) La decurtazione di circa il 15% del fondo di finanziamento ordinario si è reso necessario, ci è stato detto, per gli obiettivi di stabilità delle finanze pubbliche. In altri termini, in un contesto di austerità, l’Università è chiamata anch’essa a fare sacrifici. I sacrifici si sono fatti, ma è discutibile il fatto che l’obiettivo sia stato raggiunto. Il rapporto disavanzo pubblico/PIL – previsto per il 2013 al 2,9% – si attesta al 3%, con peggioramento, rispetto alle previsioni, dal 2,5% al 2,7%. Più in generale, le politiche fiscali restrittive attuate, con la massima intensità, nell’ultimo triennio hanno portato il rapporto debito pubblico/PIL dal 107% del 2007 al 120% del 2012 al 133% del 2013, decretando l’assoluta irrazionalità delle misure di austerità e, per conseguenza, la totale inutilità dei tagli alla ricerca ai fini dell’aumento dell’avanzo primario. A ciò si aggiunge che, a fronte di tagli operati per l’intero settore pubblico, il sistema formativo è stato quello che li ha subìti in misura più consistente. Da ciò si deduce che il perpetuare una politica di sottofinanziamento delle Università non può essere giustificato con la necessità di mantenere “in ordine” i conti pubblici.
2) Si è ritenuto che riducendo la spesa pubblica per la ricerca scientifica questa sarebbe diventata più produttiva, dal momento che si sarebbero ridotti gli “sprechi”. Si tratta di una convinzione molto diffusa, secondo la quale – in linea generale – è solo rendendo scarse le risorse che si incentiva a farne un uso efficiente. Ma, anche in questo caso, si tratta di una tesi falsificata sul piano empirico. Prima della “riforma”, e in particolare dal 2006 al 2010, su fonte Scimago, si registra che il sistema universitario italiano si è collocato all’ottava posizione, su scala mondiale, per numero di citazioni ricevute. Nello stesso intervallo di tempo, l’Italia era collocata al decimo posto, su scala mondiale, per prodotto interno lordo. In altri termini, la “cura dimagrante” somministrata all’Università pubblica italiana viene imposta proprio nel periodo nel quale quest’ultima è stata massimamente produttiva.
3) La “riforma” è stata accompagnata da un’accesa campagna mediatica che ha dipinto l’Università italiana come luogo di corruzione, nepotismo, baronaggio. A fronte di questo, la 240/2010 introduce la figura del ricercatore a tempo determinato, le cui prospettive di carriera e di stabilizzazione sono, con ogni evidenza, nelle mani del professore che ha bandito il concorso. Non si possono avere dubbi sul fatto che questa misura rischia di generare l’effetto esattamente opposto rispetto a quello dichiarato: il precariato in Università può accentuare fenomeni di baronaggio, limitati, per contro, da contratti di lavoro a tempo indeterminato.
La contraddizione rispetto all’obiettivo dichiarato consiste nel fatto che, pressoché inevitabilmente, gli studiosi italiani produrranno meno, sia perché avranno meno fondi a disposizione, sia perché sempre più anziani, sia per la sostanziale impossibilità di reclutare. Né si può tacere sugli inevitabili effetti di demotivazione che derivano dal fatto che un’ampia platea di ricercatori, in attesa di concorsi da anni, si trova, allo stato attuale, alle prese con una cervellotica modalità di assegnazione di “abilitazioni” che solo in pochi casi si tradurranno in avanzamenti di carriera; sia per la carenza di fondi, sia per il discutibilissimo vincolo che le Università devono rispettare in materia di “punti organico”. Per i non addetti ai lavori, questo significa che, se anche un ricercatore viene ritenuto idoneo a svolgere le funzioni di professore, e se anche la sede che intende assumerlo come professore ha fondi sufficienti per farlo, non può farlo se non ha l’autorizzazione ministeriale a spenderli (http://www.roars.it/online/punti-organico-una-proposta-che-si-puo-rifiutare/). In questo scenario, non stupisce il fatto che, per quantità e qualità, la ricerca scientifica italiana stia retrocedendo, a vantaggio di Paesi nei quali il finanziamento alle Università è aumentato (come nel caso della Cina). Ed è aumentato, anche come reazione alla crisi, in quasi tutti i Paesi OCSE. A riguardo, è sufficiente considerare che, su fonte Science, l’Italia destina una percentuale di spesa pubblica alla ricerca scientifica inferiore a Spagna e Portogallo e, ad oggi, non molto superiore a quella greca (http://www.roars.it/online/unimmagine-vale-piu-di-mille-parole/).
Il recente provvedimento di redistribuzione dei punti organico a danno delle sedi meridionali (http://www.roars.it/online/un-doveroso-chiarimento-sullassegnazione-dei-punti-organico-agli-atenei/) costituisce un’ulteriore conferma dello iato esistente fra obiettivi dichiarati e risultati ottenuti. Si tratta, infatti, di un provvedimento palesemente iniquo e non meritocratico.
E’ iniquo dal momento che l’operazione di redistribuzione dei punti organico è stata effettuata sulla base di un indicatore che fa esclusivo riferimento a variabili relative alla condizione finanziaria dei singoli Atenei e che, dunque, non tiene conto delle variabili di contesto: tasso di disoccupazione, reddito pro-capite. In particolare, risultano premiate le sedi che ottengono maggiori contribuzioni studentesche e penalizzate le sedi (in particolare meridionali) nelle quali è maggiore l’incidenza di esoneri, parziali o totali, del pagamento delle tasse.
E’ un provvedimento non meritocratico, dal momento che l’indicatore utilizzato per la ripartizione dei punti organico prescinde dalla quantità e dalla qualità della produzione scientifica. E lo è anche perché attiva un meccanismo perverso: per non chiudere corsi di studio, gli Atenei sono obbligati ad accelerare il turnover. Per accelerare il turnover devono aumentare le tasse. Aumentando le tasse è ragionevole aspettarsi un calo di immatricolazioni e un incremento relativo degli studenti provenienti da famiglie con redditi elevati. Ma, soprattutto, l’aumento delle tasse contribuisce ad accentuare l’immobilità sociale, rendendo l’Università sempre più elitaria, in palese contraddizione con gli obiettivi “meritocratici” che hanno ispirato la riforma.