Italia pensante 13. Il De natura hominis di Agostino Doni (I)

La seconda risposta è fondata sul riconoscimento della diversità degli uomini, diversità intesa in modo “specifico”, nel senso che rompe l’unità del genere umano in poche specie: maschi e femmine, bianchi, neri e gialli, ed anzitutto nelle diverse nazioni. Tale concetto di “natura umana” facilmente priva gli uomini della loro umanità ed è fondamento della plurisecolare discriminazione delle donne, del razzismo, del colonialismo e dei crimini del nazionalismo che semina odio e disprezzo per le altre nazioni. Bollare con parole di fuoco il nazionalismo tedesco o russo è facile, ma penso in questo momento anzitutto ai nazionalisti polacchi. Tutto sommato, tale riconoscimento della diversità è peggiore del concetto secondo cui tutti abbiamo la stessa natura.

La terza risposta attribuisce ad ogni uomo la sua “natura” singolare, la quale, grazie agli incontri con altri uomini e con le loro opere ed anzitutto grazie ai processi di autocreazione e autoeducazione può diventare unica, nel senso di una meravigliosa particolarità culturale. E’ il fondamento ontologico per una visione della Repubblica delle Muse, cioè una società della Diversità Assoluta, una società del Polimorfismo e del Pluralismo o piuttosto, servendosi della parola coniata da Ugo Spirito, dell’ o n n i c e n t r i s m o, in cui ogni soggetto pensante è centro dell’universo. Tra i filosofi più vicini a questa risposta troviamo Giordano Bruno, Leibniz e Trentowski.

La quarta risposta si fonda su quel granello di verità che è in ciascuna delle tre precedenti. Accettando il pluriprospettivismo del pluralismo metodologico, cogliamo nella “natura dell’uomo” gli aspetti universali, specifici e singolari.

In quale di queste risposte mi riconosco? Respingo anzitutto la seconda ed anche la prima. Accetto la terza, ma la mitigo inserendola nella quarta.

Dopo questa premessa prendo in esame la “natura umana” di Agostino Doni, cominciando da ciò che non sappiamo: 1. non conosciamo né il giorno né il mese e neppure l’anno della sua nascita; 2. non conosciamo né il giorno né il mese né l’anno della sua morte; 3. non conosciamo i nomi del padre e della madre e niente della sua famiglia.

Della sua giovinezza conosciamo solo un unico fatto: “quinque annos in carcere in  p a t r i a” (pag. 18). Quale delitto aveva commesso? Orribile! E r e s i a !

Da vecchie cronache sappiamo che “intorno al 1560 in Cosenza si ebbero processi, condanne, e persino stragi di Valdesi”. Ciò significa che la sua “patria” non fu una Madre dolce per tutti i suoi figli ma piuttosto una cattiva Matrigna, che impose a tutti una rigorosa  u n i f o r m i t à  religiosa, adoperando per realizzarla anche la pena di morte. “Agostino, proprio perché ancora adolescente, ha subito solamente il carcere” (pag. 19).

Liberazione dalla prigionia non significava concessione di libertà di coscienza. Per rimanere in Italia doveva rinnegare la sua fede. Sperando che nell’Europa del Cinquecento esistessero oasi di libertà Agostino Doni, come tanti altri eretici italiani, decise di emigrare.

Dove? In quel periodo si credeva che la  P o l o n i a  fosse una tale oasi, “campo di licenza assoluta (campus omnis licentiae), dove si poteva liberamente credere e insegnare qualsivoglia cosa”.

Dalla quasi completa oscurità dei primi decenni della sua vita Doni emerge improvvisamente col primo documento che attesta la sua esistenza storica, “la prima notizia sicura” sulla sua vita, “un suo biglietto che in data 20 febbraio 1580 egli indirizza a Teodoro Zwinger” (1533-1588), professore dell’Università di Basilea.

Dai pochi, anzi pochissimi, documenti risulta che questa “esistenza storica” dura solo  t r e  a n n i  , dato che dopo l’aprile del 1583 non sappiamo più nulla su Doni (pag. 33).

E’ poco, ma ad ogni modo possiamo abbozzare una periodizzazione della sua vita, dividendola in  t r e  periodi: calabrese, svizzero, polacco.

Sul periodo calabrese non conosciamo nessuna data né l’anno della liberazione dalla prigione e neppure la data della partenza dalla Calabria.

Il biglietto del 1580 non indica la data del suo arrivo a Basilea. Forse abitava in questa città già da dieci o quindici anni, studiando e probabilmente avendo “un incarico all’università” (pag. 23), ma nel settembre 1580 è costretto a partire. Si ferma per qualche mese a Ginevra, aspettando gli esemplari del suo libro dalla tipografia Frobenius di Basilea, pronti nel luglio o agosto del 1581. Il 17 settembre 1581 si trova già a Francoforte, poi a Marburgo, Lipsia, Wrocław e finalmente arriva “in Poloniam” cioè a Cracovia, dove sperava di essere accolto dal re polacco, Stefano Batory, per consegnargli il suo libro, scritto dall’inizio alla fine come una lettera indirizzata al re, e chiedere l’incarico alla corte. Il posto desiderato era quello di medico del re oppure una cattedra all’Università di Cracovia. Ma il re era assente dalla capitale del Regno e “subito dopo l’arrivo in Polonia cominciano le prime delusioni: fredda e quasi ostile l’accoglienza degli Italiani che ivi risiedono da anni e che godono di molto prestigio ed influenza” (pag. 30).      

[“Presenza taurisanese” anno XXXVIII n. 3-4 / marzo-aprile 2020. p. 9]

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