Tranquilla, romanzo di Pamela Spinelli

Affabulato come un racconto stralciato dalle pagine di un diario (per qualche verso ricorda George Bernanos) ed intervallato qua e là da significativi riferimenti musicali, l’autrice configura con delicato lirismo un mondo fatto di silenzi, di sguardi, di piccoli gesti, di piccole cose e di tanta riservatezza che però, ad un certo punto, esplode in tutta la sua dolcezza, tale da coinvolgere il lettore ad immergersi nella storia, fin quando non si svela un evento a sorpresa – mai sospettato, quasi un deus ex machina – che, mutatis mutandis, fa immaginare un replay della storia stessa.

Al di là dei pareri morali che, a seconda della propria cultura e dei propri principî, ognuno potrebbe avanzare, da quest’amore clandestino emergerebbe un solo termine diventato inusuale nella nostra società conflittuale e squilibrata: armonia.

I coprotagonisti del romanzo sono ben costruiti, vivi e coerenti nelle loro caratteristiche. Le esigue comparse, che fanno appena da contorno alla storia, non interpretano eventi corali, ma risultano appena accennate e sfumate con bilanciati tratti di penna: in tal modo la storia diventa ancor più intima ed esclusiva.

L’amore carnale non viene ipocritamente censurato, ma invece esaltato come completezza reciproca del desiderio in tutta la sua naturale bellezza, in tutta la sua capacità di creare un unicum tra il corpo e lo spirito di due persone e, sia pure alla lontana, sembra richiamare il notissimo Cantico dei Cantici, attribuito (forse inopinatamente) al re Salomone, ma le cui espressioni – a detta degli esperti – si ritrovano pari-pari in composizioni egizie anteriori a Salomone stesso.

La lettura risulta scorrevole, invitante e piacevole, il linguaggio semplice ed accessibile a tutti i livelli tanto che, giunti all’ultima pagina, si potrebbe esclamare: «Peccato, è finito!»

Unico neo – ahinoi! – che sembra un male endemico per le piccole case editrici salentine (ma forse non solo salentine) è la mancanza della figura del correttore di bozze (uno del mestiere, per intenderci, non quello che crede di saperlo fare) per cui la stampa si rivela costellata qua e là di piccoli, evitabilissimi refusi dei quali lo scrittore – specialmente se digita di getto – ben difficilmente si accorgerebbe anche dopo reiterate letture; il che rischia di far sembrare un’opera più che godibile, al pari di un bellissimo vestito nuovo realizzato a regola d’arte, ma cosparso qua e là di macchioline d’olio.

Credo che il lavoro degli scrittori (e il lavoro intellettuale è lavoro!) meriti un po’ più di rispetto e di attenzione.

[“Presenza taurisanese” anno XXXVIII n.3-4 / marzo-aprile 2020, p. 6]

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