I motori freddi
Quando l’acqua salata gela si forma ghiaccio fatto di acqua dolce: il sale passa nell’acqua sottostante, su cui galleggia il ghiaccio. La formazione di ghiaccio implica la desalinizzazione dell’acqua marina. Ne deriva che, sotto al ghiaccio polare, l’acqua riceve il sale dell’acqua sovrastante, diventata ghiaccio, ed è comunque molto fredda: alta salinità e bassa temperatura fanno aumentare la densità e l’acqua densa affonda: si attiva il “motore freddo”. La formazione di ghiaccio sia in artico sia in antartico innesca i motori freddi polari, e l’affondamento delle acque dense genera la grande circolazione oceanica che collega tutti gli oceani. Se l’acqua scende in profondità ai poli, in altre parti dell’oceano globale l’acqua risale e si scalda. Come avviene, ad esempio, nel golfo del Messico, da dove parte da Corrente del Golfo che, risalendo verso l’Artico, mitiga il clima dell’Europa settentrionale. Quell’acqua calda, arrivata in Artico, gela e attiva il motore freddo.
Il riscaldamento globale scioglie il ghiaccio e libera quindi acqua dolce, poco densa, che “galleggia” sull’acqua sottostante. Quest’acqua fredda va incontro alla Corrente del Golfo e la ferma, impedendo la mitigazione del clima nordico e l’innesco del motore freddo. Paradossalmente, il riscaldamento globale fa sciogliere il ghiaccio artico, ferma la Corrente del Golfo, e genera un clima più freddo nell’Europa Settentrionale. L’alterazione delle correnti oceaniche ha effetti sull’atmosfera, visto che le nuvole non sono altro che acqua marina che evapora (lasciando il sale in mare) e poi ricade come pioggia, o neve. Dato che le perturbazioni viaggiano di solito da ovest verso est, la pioggia che cade in Italia è spesso l’acqua evaporata in Atlantico. Quanto più salgono le temperature, tanta più acqua evapora dagli oceani, e quanta più acqua “sale” tanta più ne scende, anche in atmosfera. I fenomeni si estremizzano: dopo le siccità estive arrivano le alluvioni autunnali.
Clima atmosferico e clima oceanico sono strettamente collegati e i due sistemi, in effetti, sono un solo grande sistema in cui l’acqua cambia di stato passando da liquido, a solido, a vapore. Quando guardiamo le nuvole in cielo vediamo l’acqua dell’oceano in un altro stato. E quando piove è l’oceano che ci bagna. Poi, attraverso i fiumi e le falde, l’acqua torna all’oceano e ai mari.
I modelli di circolazione oceanica e atmosferica dovrebbero essere accoppiati, visto che i due sistemi sono accoppiati!
Da “cosa” a “perché”
Stiamo attraversando un periodo di grande cambiamento climatico ma un conto è dire“cosa” succede, e nessuno oramai lo mette in dubbio, altro conto è capire “perché” sta succedendo tutto questo, e individuare le cause del cambiamento.
La comunità scientifica che si occupa di clima e in generale di ecologia oramai non ha dubbi: il riscaldamento globale è dovuto alla nostra azione sugli ecosistemi planetari. Ma esistono ricercatori che hanno opinioni differenti. Dicono: il clima è sempre cambiato, durante la storia del pianeta. Ci sono stati periodi più freddi (le glaciazioni) e periodi più caldi. Se guardiamo i fossili vediamo che le faune e le flore sono sempre cambiate, anche in modo drammatico. I dinosauri si sono estinti, e non siamo noi ad averli uccisi: non c’eravamo! Come allora, anche oggi le cose cambiano. Non è colpa nostra, e tutto questo avverrebbe anche senza di noi.
Succede spesso che, ad un’ondata di freddo, i giornali sfornino titoli che mettono in dubbio il riscaldamento globale perché si attraversa un periodo freddo in una parte del mondo. Queste posizioni sono tipiche dell’”uomo della strada” ma ci sono anche uomini di scienza che mettono in dubbio le nostre responsabilità riguardo al cambiamento climatico. Di solito, però, non si tratta di esperti di clima o di ecologia.
Chi si occupa di queste tematiche dice che i cambiamenti di oggi avvengono ad una rapidità che non trova riscontri nella storia passata e che i responsabili di questa velocità siamo noi, con le nostre attività. Questa è la posizione dell’IPCC, il panel internazionale sul cambiamento climatico a cui partecipano centinaia di ricercatori specializzati nello studio del clima. Vent’anni fa il panel era molto cauto nell’identificare nelle nostre azioni la causa diretta del cambiamento. Ora non ha dubbi. I dati degli ultimi decenni sono inequivocabili: non si è mai visto un cambiamento così rapido e la responsabilità è nostra, visto il nostro stile di vita.
Chi ha ragione?
Non c’è modo per verificare sperimentalmente se la ragione è tutta da una parte oppure dall’altra, o in mezzo.
Per farlo avremmo bisogno di almeno altri due (ma sarebbe meglio averne di più) pianeti identici al nostro, ma solo il nostro dovrebbe essere abitato da noi. Gli altri, i controlli, dovrebbero essere senza di noi, ma con tutto il resto della natura. Questo ci permetterebbe di confrontare le condizioni di qui con quelle dei pianeti di controllo.
Non abbiamo pianeti di controllo e non possiamo provare sperimentalmente l’entità del nostro impatto. Ma possiamo confrontare porzioni terrestri in cui la nostra specie non ha un forte impatto con altre porzioni dove le nostre attività sono pervasive.
Pensiamo ad esempio ad una foresta tropicale e a un campo sottoposto a coltura intensiva.
Le foreste tropicali sono abitate da migliaia di specie di batteri, protisti, funghi, piante, e animali. Queste formano ecosistemi in cui le piante, autotrofe, ridanno vita alla materia (con la fotosintesi) consumando anidride carbonica e producendo ossigeno, mentre gli animali, con il loro metabolismo eterotrofo, consumano carbonio (i viventi sono fatti in gran parte di carbonio, e gli animali mangiano altri viventi) e ossigeno (necessario per “bruciare” il cibo) e producono anidride carbonica. Gli organismi che muoiono sono riciclati dai batteri e dai funghi eterotrofi che riportano la materia in uno stato elementare, mettendola a disposizione delle piante che le ridaranno vita.
L’anidride carbonica è essenziale per la vita delle piante e c’è qualcuno che dice che non ci dovremmo preoccupare: senza anidride carbonica le piante non possono produrre ossigeno! Di che ci lamentiamo? Il fatto è che se ce n’è troppa le cose cambiano. Anche l’ossigeno è essenziale per noi, ma se respirassimo ossigeno puro non staremmo bene! Inoltre, molto del carbonio non viene bruciato dagli erbivori, vine fissato nel legno degli alberi e finisce poi nel terreno senza diventare anidride carbonica; si ottiene così il “sequestro del carbonio”: nel corso di milioni di anni il carbonio “sequestrato” fossilizza, diventando carbone, o gas, o petrolio.
Ora mettiamo l’uomo in questo ecosistema. L’agricoltura prevede l’eradicazione di tutte le specie animali e vegetali e la loro sostituzione con una sola specie: quella che vogliamo sfruttare, coltivandola. Gli ecosistemi naturali sono distrutti con i disboscamenti e chi sopravvive viene ucciso con veleni: i pesticidi. Gli erbicidi uccidono le piante (ad eccezione di quelle che coltiviamo) mentre gli insetticidi uccidono gli animali. La biodiversità ricchissima della foresta viene sostituita da una sola specie. Visto che questo distrugge i naturali processi ecologici di riciclo, dobbiamo “nutrire” con fertilizzanti chimici le specie che coltiviamo. E le dobbiamo innaffiare. Siamo sette miliardi, e dobbiamo mangiare. E così bruciamo le foreste (lo stiamo facendo in Amazzonia e in Africa, dopo aver distrutto le nostre) e le sostituiamo con le coltivazioni intensive.
Anche le piante coltivate producono ossigeno e consumano anidride carbonica. Ma subito dopo vengono consumate dagli erbivori: noi, oppure gli animali di cui ci nutriamo. Il metabolismo degli organismi che consumano quelle piante, inclusi noi, consuma ossigeno e produce anidride carbonica. Nulla rimane sequestrato nel legno o nel terreno.
Il metabolismo, come quello di tutti gli eterotrofi, prevede che si bruci (ossidi) carbonio (il combustibile), usando l’ossigeno come comburente, e si produca anidride carbonica come prodotto di scarto. Ma noi non bruciamo solo il carbonio derivante dal nostro nutrimento. Oltre a energia metabolica, noi bruciamo anche combustibili al di fuori del nostro corpo, per produrre ulteriore energia. Abbiamo distrutto le foreste, bruciando il legno per riscaldarci, poi siamo passati ai combustibili fossili: carbone, gas e petrolio. L’energia che produciamo, bruciandoli, sostiene tutte le nostre attività ed è parte del nostro metabolismo allargato. I combustibili fossili sono carbonio che non è stato utilizzato per produrre energia (e anidride carbonica) e che è stato invece sequestrato nei depositi fossili. Il sequestro del carbonio è un processo che stabilizza il clima e che avviene da milioni di anni. In pochi decenni abbiamo estratto e bruciato il carbonio sequestrato nel corso di intere ere geologiche e ora lo stiamo immettendo in atmosfera sotto forma di anidride carbonica. Gran parte delle terre emerse idonee alla produzione agricola sono state profondamente alterate, e il processo continua perché l’accrescersi della popolazione umana richiede sempre crescenti produzioni alimentari.
A terra abbiamo distrutto quasi tutti i sistemi naturali, e ora tocca al mare. Abbiamo distrutto quasi tutte le popolazioni naturali di specie marine commerciali, e ora stiamo passando dalla pesca all’acquacoltura, l’equivalente marino dell’agricoltura.
L’età del fuoco
La storia della nostra specie si distingue in diverse età. Inizia con l’età della pietra, continua con l’età del rame, seguita da quella del bronzo e poi del ferro. Ora parliamo di era atomica. Ma in effetti siamo rimasti all’età del fuoco: siamo ancora una specie che brucia combustibili. Non basta il nostro metabolismo, l’energia corporea che ci tiene in vita. Abbiamo anche un metabolismo extracorporeo, e bruciamo combustibili per ottenere altri tipi di energia.
Quando questo si moltiplica per sette miliardi di umani (con alcune popolazioni che consumano moltissimo e altre meno) abbiamo comunque una media pressione sul sistema che ne determina il cambiamento drastico. Quello che facciamo si vede anche dallo spazio. Provate a guardare il Mato Grosso su Google Earth e poi guardate il Kansas. La desertificazione procede. Certo, i deserti si sono formati anche prima del nostro avvento evolutivo, ma oggi stiamo velocizzando la loro formazione. L’agricoltura è a tutti gli effetti un deserto potenziale, mantenuto in vita artificialmente.
Possiamo dire che tutto questo non abbia impatti? Non parliamo poi delle grandi industrie, delle megalopoli, di automobili e aeroplani, del riscaldamento delle città, dell’impermeabilizzazione del suolo, della cementificazione, dello sbarramento dei fiumi e della bonifica delle paludi.
Gli impatti locali delle singole attività si sommano e interagiscono tra loro. Anche alle maggiori profondità oceaniche troviamo la nostra spazzatura. I pesticidi si diffondono fin nel grasso degli orsi polari, al polo nord, e in quello dei pinguini, al polo sud.
Come reagiscono gli ecosistemi e la biodiversità?
Formazioni imponenti, costruite dai viventi in migliaia di anni, degradano rapidamente a causa delle temperature elevate. La grande barriera corallina australiana, lunga duemila chilometri, è in rapida regressione. Gli animali che la abitano sono adattati alle temperature più elevate presenti negli oceani. Queste temperature sono rimaste stabili e ottimali per il tempo necessario alla formazione della barriera e ora tutto si sfalda, in tempi brevissimi.
Lo stesso avviene per le specie che vivono in climi temperati o freddi. Il Mediterraneo è sempre più interessato da mortalità massive di specie adattate a condizioni che non ci sono più e, al loro posto, arrivano le specie tropicali, a centinaia. Le faune e le flore si spostano, abbandonando aree divenute ostili, cercandone altre che possano soddisfare le loro esigenze. Anche i rappresentanti della nostra specie lo fanno: le migrazioni e le guerre sono di solito dovute a cambiamenti radicali delle condizioni ambientali, soprattutto con fenomeni di siccità e carestia che, a loro volta, innescano guerre per l’accaparramento di risorse limitate.
Tutto questo è sempre avvenuto: le formazioni coralline erano presenti anche in Mediterraneo, le troviamo sulle nostre montagne, fossili. Ma ci sono voluti milioni di anni per portarle all’estinzione, con catastrofi dovute alla deriva dei continenti. Anche la grande barriera corallina australiana sarebbe morta, prima o poi. Tutte le specie presenti oggi sul pianeta moriranno e saranno sostituite da altre specie, è un fenomeno normale che possiamo ricavare dallo studio dei fossili. Sarà normale che tutti gli umani presenti oggi sul pianeta muoiano, sostituiti da altri umani e, poi, sarà normale che anche la nostra specie si estingua, magari per evolvere in qualcosa d’altro. Come è sempre successo. Non sono la morte e l’estinzione in sé ad essere un problema, è la velocità del cambiamento ad essere innaturale: le Nazioni Unite stimano che nei prossimi 50 anni si estinguerà un milione di specie (Tollefson, 2019). È vero che il nostro pianeta ha già visto radicali cambiamenti in tempi relativamente brevi: quando i primi esseri produttori di ossigeno apparvero sul pianeta, l’atmosfera cambiò e gli organismi anaerobi (intolleranti all’ossigeno) andarono in crisi e finirono relegati in ambienti dove questo “veleno” non arriva. Le nuove condizioni aprirono la strada agli organismi che respirano ossigeno, fino a noi. Quello che per gli anaerobi è un veleno mortale, per noi e per tutti gli aerobi è di vitale importanza. Oggi al posto degli aerobi, a cambiare le condizioni ambientali in tempo brevissimo ci siamo noi. Fa parte dei processi evolutivi e l’evoluzione è un processo inarrestabile: la stabilità non esiste, in natura, se non per brevi periodi. Le specie nascono, crescono, si trasformano, muoiono.
Le leggi della natura
Noi siamo un prodotto dell’evoluzione e tutto quello che facciamo è comunque un prodotto della natura. Comprese le nostre distruzioni. Il successo di una specie si misura con la sua numerosità. Una legge di natura, infatti, dice: “ tutte le specie tendono ad aumentare di numero”, e questo avviene attraverso i processi riproduttivi: la legge della crescita. Un’altra legge, però, dice: “non tutte le specie possono crescere a dismisura” perché le risorse per sostenerle si erodono man mano che il numero di esemplari aumenta: la legge del limite (Boero 2018). Le specie di maggior successo sono quelle con tantissimi individui, ma sono proprio loro ad essere in pericolo, perché consumano le risorse ad esse necessarie e, facendolo, modificano gli ecosistemi che le sostengono, deteriorandoli nelle caratteristiche più necessarie alla loro stessa esistenza. Il deterioramento, però, è un fenomeno relativo. Condizioni per noi pessime potranno essere ottimali per altre specie e saranno loro a prendere il nostro posto. La storia della natura procederà. Il collasso delle specie dominanti apre la strada ad altre specie. Lo studio dei fossili ci mostra come la materia vivente abbia subìto almeno cinque estinzioni di massa: le specie dominanti sono scomparse e sono state sostituite da altre specie che, a loro volta, sono diventate dominanti. I dinosauri sono un esempio proverbiale di questo successo, e la loro scomparsa ha aperto la strada a uccelli e mammiferi, compresi noi.
Misurare il nostro successo
Se per le altre specie il successo si misura con la loro biomassa, per noi non è così. Oltre alla nostra biomassa bisogna aggiungere quella delle specie che abbiamo domesticato, siano esse animali o vegetali, perché esse ricadono sotto il nostro controllo e servono per i nostri scopi. Nessun’altra specie ha condizionato in modo così pervasivo l’esistenza di altre specie, se non per instaurare simbiosi mutualistiche con vantaggi reciproci. Nel caso della domesticazione, invece, i vantaggi sono solo nostri visto che, di solito, le specie domesticate finiscono per essere mangiate. Il nostro impatto, quindi, non è solo quello dei nostri corpi, ma anche quello dei corpi di tutti gli esseri che soddisfano i nostri bisogni e che poi, invariabilmente, sono metabolizzati e trasformati in rifiuti e anidride carbonica.
Nessuna specie ha fatto altrettanto, nessuna specie ha avuto tanto successo quanto la nostra.
Lotka e Volterra
I due grandi matematici elaborarono indipendentemente (Lotka, 1926; Volterra, 1926) un modello che predice le interazioni tra due specie: una preda e un predatore. Spiegato a parole, il modello prevede che se la preda è abbondante e il predatore non lo è, l’abbondanza di risorse porterà ad un aumento del predatore (la prima legge della natura) ma la sua crescita eserciterà una pressione negativa sulla specie preda che, quindi, diminuirà. La diminuzione delle prede determinerà un limite per la crescita del predatore (la seconda legge della natura) che, di conseguenza, diminuirà di numero. La risorse limitate, infatti, non permetteranno la sopravvivenza di tutti i predatori. La diminuzione della pressione predatoria darà una nuova possibilità di crescita alla specie preda che, quindi, aumenterà. Il suo aumento rappresenterà una nuova opportunità di crescita per il predatore. Il sistema, quindi, vede le oscillazioni sfasate di preda e predatore.
In ecologia non esistono sistemi con due sole specie, e le equazioni perdono potenza man mano che il numero di interattori aumenta, come previsto dal problema dei tre corpi di Poincaré (1890) e dalla teoria del caos di Lorenz (1990).
La biodiversità, con un numero altissimo di specie che interagiscono in una rete inestricabile di relazioni, rende gli ecosistemi molto resilienti. I predatori hanno parassiti e patogeni che ne limitano il numero, oppure sono a loro volta oggetto di predazione da parte di altri predatori. Darwin, ad esempio, fu il primo a scoprire quelle che oggi si chiamano cascate trofiche. Darwin (1859), infatti, scoprì che i bombi sono indispensabili per l’impollinazione del trifoglio e sono oggetto di predazione da parte dei topi di campagna. Se i topi di campagna sono abbondanti, il trifoglio è meno rigoglioso. Ma in vicinanza dei paesi, dove vivono molti gatti, i topi sono sterminati, i bombi sono più abbondanti e il trifoglio è rigoglioso. I gatti favoriscono il trifoglio! In questo sistema interagiscono trifoglio, bombi, topi, gatti ma nei sistemi complessi il numero di specie che interagiscono può raggiungere le migliaia, con reti di interazioni che ancora stentiamo a comprendere, visto che non abbiamo descritto la maggior parte delle specie che abitano il pianeta (Boero 2010).
Stiamo modificando in modo radicale un sistema di cui non conosciamo la struttura e la funzione, se non a grandissime linee. La comprensione, però, è agevolata dal fatto che stiamo agendo da predatori nei confronti del resto della natura, la nostra preda. Le equazioni di Lotka e Volterra a questo punto ci possono aiutare a capire.
Usiamo il resto della natura per soddisfare i nostri bisogni. Siamo predatori di quello che mangiamo o usiamo direttamente, e distruggiamo tutto quello che interferisce con i nostri scopi con disboscamenti, pesticidi, etc.
L’era delle conseguenze
Aver obbedito in modo radicale alla prima legge della natura, quella della crescita, ci sta ora esponendo ai rigori della seconda: quella del limite. La nostra presenza modifica l’ambiente che ci sostiene e lo rende sempre più inadatto alla nostra sopravvivenza. La legge del limite è stata espressa anche in altra forma, con il concetto di capacità portante: il numero massimo di individui di una specie che un dato ecosistema è in grado di sostenere. La capacità portante è il limite. Il sistema terra non può sostenere un numero infinito di umani e, quindi, non possiamo crescere all’infinito.
Il successo di una specie vegetale può portare a saturare l’ambiente e la competizione tra gli individui è per lo spazio. Quando lo spazio è totalmente coperto dalla specie dominante, non è possibile che nuovi individui possano attecchire. La morte degli individui giunti alla fine del proprio ciclo vitale apre letteralmente spazio ai giovani alberi. La foresta, in questo caso, non prevede la crescita della popolazione dominante ma il suo mantenimento alla numerosità massima che lo spazio a disposizione (la risorsa limitata) consente. Si raggiunge cioè la capacità portante e si instaura il cosiddetto “equilibrio”. Per gli animali, che si nutrono di altri organismi, la competizione può diventare feroce. Se gli individui crescono troppo, non saturano l’ambiente (come fanno le piante) ma lo depauperano, portando alla quasi estinzione delle specie preda, come prevede il modello di Lotka e Volterra. Noi, invece di diminuire a causa della rarefazione delle risorse, abbiamo evoluto sistemi di estrazione sempre più efficienti, continuando ad aumentare di numero. Quando caccia e raccolta non sono state più sufficienti, abbiamo inventato l’agricoltura e l’allevamento del bestiame. E quando l’agricoltura tradizionale ha iniziato a produrre meno, abbiamo inventato l’agricoltura intensiva. E quando questa non ha più dato i risultati attesi abbiamo iniziato a modificare il genoma delle specie, in modo da renderle sempre più produttive.
Questa rincorsa nello sfruttare la natura in modo sempre più efficace porta all’estinzione di specie e alla distruzione di habitat, con perdite di biodiversità e malfunzionamento degli ecosistemi. La nostra specie non si nutre di sostanze disciolte e di luce (come le piante), ha bisogno di molte altre specie che le forniscono beni (cibo, materiali) e servizi (produzione di ossigeno, riciclo dei nutrienti, etc.). Noi siamo arrivati da poco sul palcoscenico della natura, e le cose funzionavano a meraviglia prima della nostra venuta, e possono tranquillamente funzionare anche senza di noi. Siamo noi ad avere bisogno del resto della natura, mentre il resto della natura non ha assolutamente bisogno di noi. Non c’è bisogno di spiegare, a questo punto, chi vincerà in una competizione tra noi e il resto della natura: vincerà la natura. Non riusciremo a vivere tanto a lungo da distruggerla perché la nostra azione distruttiva incide prima di tutto sulle specie che sfruttiamo e senza le quali non possiamo vivere. Siamo preparatissimi oramai a sfruttarle, ma non riusciamo, per esempio, a distruggere le specie che consideriamo nocive. L’evoluzione le rende resistenti ai nostri veleni e invece di eradicarle le rinforziamo. Gli insetti nocivi diventano resistenti agli insetticidi che, invece, sterminano gli insetti impollinatori (come le api) e i predatori di insetti nocivi, prima di tutto gli uccelli, mentre i batteri patogeni diventano resistenti agli antibiotici che, invece, hanno forti impatti sui batteri che vivono nel nostro intestino, senza i quali non riusciamo a digerire e ad assimilare il cibo.
Questa battaglia tra noi e il resto della natura ha raggiunto punti cruciali, il conto inizia ad essere presentato, e siamo impreparati ad affrontare le conseguenze della nostra stupidità.
Il nostro interesse è di prolungare quanto più possibile la durata della nostra specie, e questo si otterrà se non modificheremo eccessivamente le condizioni che hanno portato alla nostra affermazione evolutiva. Ma fa parte della storia della vita che tutte le specie di maggior successo facciano quel che stiamo facendo noi: iniziano con pochi individui, poi crescono talmente di numero da schiantare gli ecosistemi che le supportano, e il gioco ricomincia con altre specie.
Migliaia di scienziati avvertono
Gli scienziati che si occupano di ambiente stanno lanciando moniti sempre più pressanti per convincere il resto dell’umanità che siamo in una situazione pericolosissima. I fatti sono talmente evidenti che persino le autorità ecclesiastiche lanciano allarmi e il Sommo Pontefice, con la sua enciclica Laudato Si’ (Francesco 2015) chiede la conversione ecologica e, in seguito, considera l’ecocidio come un grave peccato. Non era mai successo prima che un’autorità religiosa di quel calibro chiedesse la conversione a una scienza: l’ecologia. I politici riconoscono l’importanza del problema, e firmano convenzioni sempre più ambiziose, ma poi tutto continua come se niente fosse: business as usual. Alla fine i paradigmi economici prevalgono su quelli ecologici, e l’unica legge predicata dagli economisti è quella della crescita senza limiti: un’aspettativa che obbedisce alla legge della crescita ma poi va contro natura perché non riconosce quella del limite.
Più di undicimila ricercatori di tutto il mondo hanno elaborato e sottoscritto un appello per l’emergenza climatica (Ripple et al. 2019). La parte riguardante l’ambiente marino è stata scritta proprio dall’autore di questo breve saggio, come “contributing reviewer”. In generale, gli scienziati chiedono che si affrontino sei problemi, innescando tendenze che ci potranno permettere di uscire dall’emergenza climatica:
Energia: siamo ancora nell’era del fuoco. Dobbiamo uscirne perché i combustibili sono a base di carbonio e la loro combustione consuma ossigeno e genera anidride carbonica. Quando si dice che questo ci riporterebbe nelle caverne si commette un errore madornale: nelle caverne già adoperavamo il fuoco! Dobbiamo smettere. Non si tratta di tornare indietro ma, invece, di andare avanti. Dobbiamo produrre energia senza bruciare combustibili, e non solo quelli fossili. Se bruciamo legno distruggiamo le foreste e interrompiamo il sequestro del carbonio, liberando anidride carbonica con la combustione. L’innovazione tecnologica deve andare in questa direzione, senza furbizie. Chi proponeva le centrali nucleari come soluzione nascondeva il problema dello smaltimento delle scorie e della dismissione degli impianti obsoleti. Per non parlare della persistenza degli effetti degli incidenti e della loro letalità. Dobbiamo produrre energia pulita, pensando a cosa faremo degli impianti quando arriveranno al fine vita e a cosa significa utilizzare alcuni materiali necessari per alcuni sistemi di produzione energetica, come le terre rare. Dobbiamo smettere di proporre soluzioni di breve termine che, nel medio e lungo periodo, causano problemi maggiori dei problemi iniziali che esse stesse avrebbero dovuto risolvere.
Chi metterà a punto tali sistemi di produzione energetica avrà anche grandi vantaggi economici, e sarà un benefattore dell’umanità.
Inquinanti: non alteriamo l’ambiente con la sola produzione energetica: i nostri sistemi di produzione prevedono l’utilizzo di veleni (ad esempio i pesticidi) e la produzione di sostanze dannose come prodotti indesiderati (ma in certi casi inevitabili) dei sistemi industriali. Dobbiamo inventare nuovi modi di produrre i beni che ci sono necessari, senza che si debba pagare un prezzo ambientale per averli.
Natura: stiamo esercitando una pressione insostenibile sulla natura che, invece, ci sostiene. Senza il resto della natura la nostra specie non può vivere. Dobbiamo conservare il patrimonio naturale e lavorare per restaurarlo, qualora fosse stato distrutto. La biodiversità e gli ecosistemi hanno un valore, non hanno un prezzo, proprio come la salute. Non ci sono soldi che possano pagare la nostra salute, se la perdiamo. Ci sono costi per le cure, non guadagni. Gran parte delle malattie hanno cause ambientali: per curare la nostra salute e il nostro benessere dobbiamo prenderci cura della natura. Invece abbiamo scelto di curare i sintomi (le malattie) tralasciando le cause (la distruzione dell’ambiente).
Cibo: l’agricoltura intensiva prevede l’eradicazione di ogni forma di vita (la biodiversità) e la sua sostituzione con una sola specie: quella oggetto di coltivazione. Per i motivi spiegati sopra, l’efficienza energetica di questo modo di produrre cibo è bassa, ed è ancora più bassa con l’acquacoltura di carnivori. I salmoni, le spigole, le orate sono carnivori nutriti con farine di pesce selvatico. Mangiamo leoni che nutriamo con le zebre! Dobbiamo eliminare gli sprechi alimentari, e dobbiamo nutrirci principalmente di vegetali, o di animali filtratori, come le cozze.
Economia: Concepiamo l’economia con un solo obiettivo: la crescita economica. Nel farlo dimentichiamo i costi ambientali e quelli per la salute umana (vedi il caso di Taranto). Un’economia basata sulla crescita infinita diventa obesa, e l’obesità è una malattia che, alla fine, limita le possibilità di sviluppo (non di crescita). L’obesità si cura con la dieta, e mettersi a dieta non significa carestia. Un’economia sana deve essere sostenibile e, per esserlo, non deve erodere il capitale naturale (la natura) per crescere. Se questo avviene poi collassano gli ecosistemi e, alla fine, collassa anche l’economia.
Popolazione: siamo più di sette miliardi e non possiamo continuare a crescere, soprattutto obbedendo ai paradigmi che impongono la crescita di tutti i misuratori economici. In occidente abbiamo smesso di crescere perché il nostro tenore di vita è aumentato e le donne non sono più considerate macchine per produrre figli. La bomba demografica si disinnesca con l’equa ripartizione delle risorse tra i popoli. Se questo non avviene, “loro” scappano dal disagio e vengono da “noi”. L’Italia da questo punto di vista ha fortunatamente smesso di crescere, ma (anche se questo non è scritto nel rapporto) stiamo subendo una intollerabile emorragia di giovani con alto livello di istruzione.
Sostenibilità
La risposta a questo allarme è la sostenibilità. Bisogna ridisegnare i processi di produzione e di consumo ed è in questa direzione che si misura lo sviluppo di un paese. Abbandonare i vecchi sistemi di produzione e consumo comporterà sacrifici occupazionali da una parte, ma aprirà nuove prospettive da altre parti. Chi lo capirà sarà in vantaggio rispetto a chi non lo capirà e ogni paese deve fare la sua parte, senza attendere che siano gli altri a farlo.
Una nuova cultura
I responsabili della catastrofe ecologica, economica e sanitaria hanno operato secondo principi errati (lo dimostrano i risultati della loro applicazione) e non possono proprio loro essere chiamati a correggere i danni che hanno procurato. La conversione ecologica predicata da Francesco nella sua Laudato Si’ dimostra come questo bisogno di innovazione verso un nuovo modo di vedere il mondo sia trasversale a due visioni un tempo contrapposte: quella scientifica e quella religiosa. Occorre ora innestare questi principi nella fabbrica della cultura: la scuola, dalle elementari all’università. Il Ministro Fioramonti sta proponendo di introdurre l’educazione ambientale nei programmi scolastici. Bisognerà vedere chi sarà chiamato ad aggiornarli e se i docenti saranno preparati a svolgere temi che sono assenti in gran parte degli attuali percorsi di formazione.
Le cose spiegate in questo articolo non fanno parte dei programmi scolastici pre universitari e della stragrande maggioranza dei programmi universitari. Ignorare la composizione della biodiversità e il funzionamento degli ecosistemi non è considerato disdicevole dagli attuali esponenti della cultura (inclusa la scienza).
Identificare le priorità
Lo studio di ogni argomento teso a diminuire la nostra ignoranza merita di essere perseguito e la voglia di conoscenza è una caratteristica biologica della nostra specie. Esistono però campi di indagine che rivestono particolare urgenza. Il nostro peso sugli ecosistemi li sta portando al collasso e questo mette in pericolo la nostra sopravvivenza. Non mi risulta che ci siano urgenze più impellenti. Per affrontare questo problema dobbiamo migliorare le nostre conoscenze su biodiversità e funzionamento degli ecosistemi perché da essi dipendiamo direttamente e su essi agiscono i nostri impatti distruttivi. Tutti i trattati internazionali concordano che la situazione sia estremamente seria, ma poi gli sforzi economici del finanziamento alla ricerca non vanno in questa direzione. Non voglio fare l’elenco degli argomenti su cui si investe moltissimo, e non voglio innescare una guerra tra branche della scienza. È un dato di fatto che non sappiamo quante specie abitino il nostro pianeta e quanto ognuna di esse contribuisca al funzionamento degli ecosistemi. Dobbiamo ridurre l’ignoranza in questo campo, se vogliamo intervenire in modo razionale ed efficace su questioni che riguardano la salute degli ecosistemi che ci sostengono.
Esiste, invece, un disaccoppiamento tra le priorità identificate e gli sforzi per soddisfare le necessità conoscitive per affrontarle. Accade che ricercatori impegnati in altri campi della scienza si sentano minacciati per quel che riguarda i finanziamenti che fino ad ora hanno ricevuto e che, per mantenerli, tendano a sminuire la gravità della situazione. Quelli che lo fanno, però, hanno credenziali scientifiche sulla biodiversità e sul funzionamento degli ecosistemi pari a quelle di un ecologo sulle particelle elementari, i buchi neri e le onde gravitazionali: nessuna.
L’autorevolezza degli esponenti della scienza non è trasversale ad ogni branca della ricerca, ma si limita alla tematica oggetto della loro specializzazione.
Il confronto tra le varie discipline è salutare, come è salutare la loro collaborazione. Certamente la storia naturale ha ricevuto scarsissima attenzione e i risultati sono evidentissimi: stiamo distruggendo le premesse per la nostra sopravvivenza a causa della nostra ignoranza sulla struttura e il funzionamento dei sistemi che ci sostengono e che stiamo irresponsabilmente distruggendo.
La strada verso un rapporto armonico tra noi e la natura passa dal supporto scientifico al rapporto stesso. Descrivere la struttura degli ecosistemi (la biodiversità) e comprendere la loro funzione è oggi la priorità scientifica più impellente, alla quale dovremmo dedicare risorse rilevanti. Per il momento non lo stiamo facendo e la natura ci sta avvertendo in modo sempre più drastico che queste scelte sono scellerate.
Bibliografia
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[“Ithaca: Viaggio nella Scienza” XV, 2020]